Questo testo percorre in breve la storia della Dottrina Sociale della Chiesa, dai suoi inizi in epoca moderna fino a papa Paolo VI.
Seguirà un documento sul Magistero di Giovanni Paolo II.
di Luigi Negri
Solitamente si usa partire dalla Rerum Novarum di Leone XIII per affrontare la questione della presenza della Chiesa nella società moderno-contemporanea. In realtà, la caratteristica specifica del Magistero di Leone XIII è quella di specificare il magistero del suo predecessore, Pio IX, nel senso più positivo. Pio IX è il pontefice che segna la presa di coscienza definitiva della questione: occorre andare in missione anche in questo mondo perché in esso si teorizza apertamente un progetto di esclusione della Chiesa dalla società. Non si tratta, però, solo di un aggiornamento politico, è in gioco la stessa concezione di uomo: la società europea non è più cristiana, ma liberal-borghese.
Il Sillabo è lo strumento che condanna le concezioni inammissibili per la posizione culturale che nasce dalla fede. Particolarmente significative sono le proposizioni: n. 3 «L’umana ragione, senza tenere alcun conto di Dio, è l’unico arbitro del vero e del falso, del bene e del male, è legge a se stessa, e con le sue forze naturali basta a procacciare il bene degli uomini e dei popoli» e n. 6 «La fede di Cristo si oppone alla ragione umana; e la rivelazione divina non solo non giova a nulla, ma nuoce altresì al perfezionamento dell’uomo», in cui si rivela il fondamento culturale della società contemporanea: è una nuova antropologia dalla quale deriverà una nuova politica, segnata dall’avvento del «regno dell’uomo».
La questione sociale è un problema antropologico, non solo politico. Qui la ragione è affermata contro il Mistero: ma se «l’ultimo» è misterioso, il nesso tra coscienza umana e destino non può essere esaurito dalla ragione. La ragione non può essere autonomamente padrona della propria esistenza. L’illuminismo è anzitutto contro la Rivelazione, concepita come un affronto alla ragione; essa «nuoce al perfezionamento del mondo».
La Rivelazione, però, è una possibilità che non si può negare; non c’è niente che la ragione umana desideri più di essa. Questa nuova antropologia eversiva, pone nella dimensione politica la dimensione totalizzante e nello Stato la forma risolutiva dei rapporti. n. 39, «Lo Stato come origine e fonte di ogni diritto gode di un diritto che non ha confini». Ciò significa che esso ha un potere assoluto; i diritti fondamentali derivano dall’essere cittadino dello Stato ed esso non ha limiti nell’intervento sulla persona. Il cittadino non è innanzitutto figlio di Dio e tanto meno il rapporto padre-figlio può essere considerato primario: i diritti derivano dallo Stato e il rapporto unico e vero è quello tra cittadino e Stato.
Lo Stato si presenta, dunque, come una forma totalizzante: non è in funzione della società, ma coincide con essa. È l’abolizione della libertà, cioè l’abolizione dell’uomo. Da questa concezione deriva il diritto dello Stato ad occuparsi di tutti, e ad intervenire in ogni ambito della vita sociale, soprattutto nell’educazione, cosicché la scuola diviene lo strumento fondamentale della diffusione dell’ideologia.
La vera autorità religiosa è l’autorità statale; infatti, il tentativo che lo Stato fa nei confronti della Chiesa, è di assorbirla. Lo Stato, dunque, diviene l’unico soggetto sociale e distribuisce diritti e doveri in base alla propria convenienza. Per Pio IX occorre prendere coscienza di questo progetto culturale laicista, per organizzare un confronto che eviti l’assorbimento della Chiesa nello Stato, le cui condizioni sono implicite nel tema tanto caro al laicismo liberale della separazione tra le due istituzioni.
Il vanto del mondo cristiano, invece, è sempre stato non la confusione, ma la distinzione, per cui la dimensione religiosa «fonda» quella politica, ma non si esaurisce in essa, né la esaurisce. Mentre Pio IX ha misurato la radicale alternativa, che ormai si era saldamente stabilita nella struttura culturale e sociale dell’Europa e ha fatto intravedere una possibilità diversa e positiva, Leone XIII tende ad esibire un progetto positivo antropologico culturale e sociale. Si prendono le distanze dal liberalismo dominante, ma non ci si fa spingere in una posizione di nostalgia.
La Chiesa, per rifiutare e proporre una alternativa anche sociale, non deve ritornare a prima della Rivoluzione francese; l’ideale è che l’avvenimento cristiano si ponga con decisione e tiri fuori da questa sua missione tutta la capacità costruttiva sul piano culturale e creativo di vita e rapporti sociali. Per Leone XIII c’è stata una circostanza facilitante, cioè il fatto che ha potuto utilizzare tutta l’immensa elaborazione di carattere teologico che era stata approntata per la celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano I.
Con lui il Magistero assume un’ulteriore preoccupazione: sulla base della posizione religiosa cattolica è possibile realizzare uno Stato al servizio del bene comune. Il contrasto con il progetto laicista non spinge la Chiesa verso il passato; essa non ha alcuna necessità di difendere l’«ancien régime», perché ha in sé una potenzialità di programmare una struttura sociale e politica migliore di quella liberale.
Tale potenzialità è espressa pienamente nell’enciclica Immortale Dei (1-11-1885): sulla base di una riproposta integrale del Cattolicesimo, che riprende coscienza della propria identità, si può costruire un futuro più dignitoso del presente, che i liberali stanno costruendo. Nell’enciclica si afferma la funzione insostituibile della Chiesa nella società; il Papa, infatti, imposta il rapporto nel senso di «Chiesa e società», cioè come presenza della Chiesa nel sociale, non nel senso di «Chiesa e Stato».
Quando Leone XIII parla di Stato cristiano, non intende uno Stato confessionale, in cui è necessaria la fede cattolica, ma indica la possibilità dell’esistenza di una dimensione politica che si riferisca ancora alla dimensione religiosa. Il vero valore è la persona in rapporto a Dio, non l’individuo ‘incapsulato’ nello Stato.
Nella vita sociale dell’uomo, Leone XIII ripropone la compresenza di una pluralità di funzioni per il bene dell’uomo stesso: la Chiesa, che lo educa a prendere coscienza della propria personalità, lo Stato, strumento per l’attuazione di tale personalità. La subordinazione della dimensione socio-politica a quella religiosa, quindi, non è di tipo tecnico-politico, ma morale: l’intervento del Papa è relativo al rischio che una determinata soluzione politica ostacoli e comprometta la libertà della Chiesa. Quello proposto da Leone XIII è un sistema di pluralismo di strutture politiche, unificate da una visione religiosa della vita, contro la tentazione moderna di assolutizzare la dimensione politica.
Lo Stato regola la pluralità di espressioni, non è un soggetto, ma è un insieme di strumentazioni che ha un valore etico non come origine, ma come destinazione: deve cioè consentire che la varietà di espressioni emerga e sia garantita. Il carattere fondamentale dello Stato cristiano, quindi, non è la confessionalità, ma il riconoscimento di una origine trascendente della politica e la sua destinazione sociale.
Certo, se una presenza cristiana è forte nel Paese, potrà influire sulle decisioni politiche, ma l’ideale non è imporre il cristianesimo attraverso le strutture politiche. Rispetto alla situazione attuale, c’è un insegnamento fondamentale nell’enciclica di Leone XIII: la società deve essere incrementata nella sua libertà di base, non deve essere concentrata nello Stato. Occorrono delle forze che rendano le istituzioni della vita sociale sempre più ricche ed articolate; la promozione dei ‘corpi intermedi’ (la famiglia, i comuni, ecc.) rappresenta la promozione della società di base.
Tutto lo svolgersi del Magistero di Leone XIII, è preoccupato di dimostrare che il laicismo non è irreversibilmente destinato a trionfare, che non è assolutamente il ‘vertice’ delle varie posizioni umane e sociali. L’immagine di Stato cristiano, da parte del Papa, guarda al futuro, chiedendo allo Stato di servire la società e di restituire dignità a quelle forze intermedie che lo Stato laicista vorrebbe assorbire.
Non a caso, dunque, il tema trattato successivamente dal Papa è quello della libertà, chiave teorica ed etica di questa proposta sociale. L’enciclica Libertas (20-6-1888) è una discussione approfondita dei fondamenti antropologici della cultura umana moderna. «La libertà è dono di Dio», afferma il Papa, quindi l’antropologia della Chiesa ha per origine l’obbedienza dell’uomo alla sua strutturale dipendenza dal Creatore.
La Libertas propone la posizione tomistica: la libertà è riferita alla ragione, non è pura energia irrazionalistica o, peggio, un aspetto della necessità razionale. Ragione e libertà sono le due caratteristiche di fondo dell’uomo e si realizzano vicendevolmente. La libertà, dunque, è un’adesione consapevole alla legge di Dio ed una possibilità in cui è implicato anche il dramma del rifiuto.
Una libertà non fondata su Dio e sulla creazione è impossibile da sostenere, non è libertà, ma ribellione, il suo abuso e questo porta, inevitabilmente o all’assorbimento nel sistema (statalismo) o alla sua contestazione radicale per crearne uno alternativo (anarchismo). Leone XIII difende la libertà come caratteristica fondamentale dell’uomo, proprio mentre comincia il tentativo di ridurre quest’ultimo ad un insieme di condizionamenti biologici e politici. Su questo si gioca la grande questione antropologica del XX secolo.
Con la Libertas, Leone XIII stabilisce il fondamento della Dottrina sociale della Chiesa e ribadisce l’esistenza di due concezioni dell’uomo: – la concezione istintiva e meccanicistica, in cui lo Stato ordina tutte le rotelle di un ingranaggio; – la concezione di una libertà di appartenenza, che impedisce alle strutture della convivenza di essere l’Assoluto.
Il documento con cui il Papa afferma con maggior forza e compiutezza un progetto sociale vero e proprio, è la Rerum Novarum (13-5-1891). Essa è il più efficace tentativo di dimostrare che, a partire da una concezione religiosa dell’esistenza, il problema drammatico dello scontro capitale-lavoro può essere risolto altrimenti che nella contrapposizione meccanica.
Non è quest’ultima, né la collettivizzazione forzata, che può risolvere la questione, ma un altro punto di vista, una alternativa radicale di approccio, cioè considerare l’uomo in tutta la sua globalità e non solo come lavoratore o datore di lavoro. Non si può considerare la struttura della vita socio-economica come inevitabile dialettica di ruoli: questa è, in partenza, una posizione ideologica. Per Leone XIII c’è un uomo che non è in opposizione alla società, mentre nelle altre due concezioni, l’uomo o la domina (liberalismo) o, in definitiva, ne è dominato (socialismo).
Il cristiano non sente l’opposizione con la società, perché fa esperienza di una forma di società che non lo inganna: la Chiesa. Con questo, la proposta cristiana non va intesa come «terza via», perché poggia su un’esperienza originaria di socialità che parte dalla questione dei diritti umani, cioè dell’uomo in quanto tale.
La società deve costituirsi nel rispetto della persona e dei suoi diritti fondamentali; lo Stato deve servire l’espressione dell’uomo, non costruirlo, intervenendo nella definizione dei suoi diritti. Altrimenti, come denuncia Leone XIII, lo Stato finisce per attaccare la radice stessa dell’uomo e la dimensione politica ne altera tutte le altre. La stessa proprietà è una dimensione espressiva dell’uomo; quindi non si lavora solo per sopravvivere, ma per esprimersi.
Il diritto di proprietà, afferma il Papa, deve essere riportato alla persona ed alla sua libertà espressiva; è un problema etico di proporzione: non si può eliminare il possesso, ma si deve esercitarlo bene. Tolto il diritto di espressione, infatti (e nel socialismo è più evidente), l’uomo è condannato a restare sempre nella stessa situazione.
La forza del Magistero di Leone XIII è nella riflessione filosofica tomista che ne sorregge l’antropologia: l’uomo è anteriore allo Stato. Il Magistero della Chiesa è l’unica dottrina che, negli ultimi secoli, ha affermato la priorità della società sullo Stato. Quest’ultimo deve misurarsi con il singolo e con le strutture associative in cui egli decide di educare la sua personalità ed esprimersi.
La ‘destinazione sociale’ è un dovere etico e riguarda la formazione delle persone: l’economia e la politica, infatti, dipendono dall’etica e non viceversa. Per questo il Magistero non insiste sulle soluzioni contingenti ai vari problemi, ma sui criteri da seguire nell’affrontarli; tali criteri sono dedotti dalla stessa natura umana. Si rifiuta una posizione ideologica, non cercando una terza via astratta; la questione è spostata sulla dimensione autentica dell’uomo che non può «non possedere» per esprimersi.
Il diritto di proprietà è un elemento fondamentale del complesso dei diritti della persona umana e la sua abolizione è immorale perché segna l’intervento dello Stato nella dimensione personale; è un tentativo di alienare l’uomo, intervenendo sulla sua libera espressione. L’errore dell’ideologia è considerare due classi della vita sociale come naturalmente opposte. Per risolvere la situazione, il cristianesimo non ha uno schema prestabilito, ma una forza che contribuisce al superamento: il processo di soluzione non si avvia riducendo l’uomo a capitalista o proletario, ma sottolineando che è un problema di umanità e di coscienza morale.
E misurandosi con i doveri, non c’è una soluzione meccanica ai problemi, ma un’energia che permette di affrontarli dinamicamente. Impostare il problema dei doveri significa richiamare alla responsabilità. Il grande merito del Magistero di Leone XIII è il non aver cercato il consenso assimilando elementi esterni alla Dottrina sociale: la Chiesa resiste, determina una nuova concezione dello Stato e si impegna nella «questione sociale», determinata dal processo di industrializzazione, mostrando che la soluzione non può essere trovata sul piano delle ideologie, ma solo all’interno dell’azione posta da un «soggetto nuovo».
Un principio immutabile (la presenza della Chiesa) genera la capacità di affrontare situazioni e circostanze diverse. Con queste Encicliche cominciano i movimenti laici, che hanno rappresentato, come il movimento cattolico in Italia dal 1870 al 1929, una realtà socialmente alternativa allo Stato laicista. Tuttavia, queste sollecitazioni di Leone XIII troveranno delle comunità cristiane non coraggiose, condizionate nell’esercizio effettivo della loro libertà, ed un episcopato che solo lentamente riuscirà ad emanciparsi dallo Stato.
Con la prima guerra mondiale il progetto laicistico dimostra la sua incapacità di concepire e gestire i rapporti sociali. La logica inesorabile del progetto laicistico ha bisogno che anche l’aspetto politico-militare si adegui ad esso; allo stesso tempo, però, si capiva che una «ridistribuzione» di carattere politico-militare non si conciliava con la cultura effettiva e reale dei popoli e che il laicismo non era portatore di un progetto popolare.
È il processo espresso molto bene da Bernanos: «Non hanno più cultura da proporci, perciò hanno portato la guerra per decimarci». In questo senso, la vicenda della prima guerra mondiale è di tipo morale. La Chiesa, con Benedetto XV , comincia a muoversi di fronte alla ‘scollatura’ tra i popoli ed al progetto che si tenta di imporre. Al laicismo mancano sia una cultura che una moralità; la Chiesa, giudicando tale progetto, si pone come alternativa, promuovendo la dottrina del Regno di Cristo da instaurare in questo mondo.
Ad un regno «dell’uomo», che concepisce lo Stato come assoluto, si oppone un regno «per l’uomo»; è una sfida su punti concreti: il punto decisivo in cui il progetto laicista dimostra la sua inconsistenza è la formazione dei totalitarismi. Per la cultura liberal-borghese il comunismo ed il fascismo sono degli incidenti; la Chiesa, invece, è cosciente del fatto che tali degenerazioni non sono accidentali, ma rappresentano l’espressione brutale e coerente del progetto puramente politico, proprio del laicismo (se lo Stato è tutto, può tutto).
Da questo punto di vista, le due encicliche Beatissimi Apostolorum Principis e Pacem Dei , hanno un contenuto di carattere soprattutto morale (e, quindi, culturale). La vera alternativa, dal punto di vista sociale e politico, è la CARITÀ. Affermare questo non era proporre uno stato confessionale, ma una alternativa allo sfascio della guerra, nella quale chi ha perso è il popolo, sia sul piano materiale, sia su quello spirituale.
Pio XI ha la grande responsabilità di individuare il legame tra il laicismo e il totalitarismo; è l’unica autorità che denuncia questo legame. Pio XI percepisce subito che la cultura moderno-contemporanea non ha più una base etico-morale, ma si fonda su un progetto puramente politico, impostato in chiave antireligiosa. L’enciclica Ubi Arcano (23-12-1922) sottolinea come l’attacco sia portato al cuore della società civile, cioè alle ‘comunità intermedie’ che ne costituiscono la struttura.
Uno dei punti di forza dello statalismo è l’attribuzione allo Stato della funzione educativa. La famiglia, di fatto, è attaccata non solo dal punto di vista giuridico (non è sostenuta con iniziative concrete), ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale. Il totalitarismo, avendo ridotto il tessuto culturale alla pura istituzione politica e all’occupazione del potere, non è più in grado di fornire alla società alcuna risorsa di carattere culturale ed educativo.
La Chiesa, allora, deve incaricarsi di ricostruire il tessuto sociale dell’Europa. La missione storica della Chiesa è di essere un elemento di fraternizzazione tra i popoli, tramite la rivalutazione del senso religioso. La ripresa del senso religioso è un’alternativa alla guerra; la pace non è una pace armata, ma una ricomposizione dell’unico fondamento culturale, sociale e personale possibile. Lo stato liberale o fascista o comunista hanno tutti un nesso culturale che identifica la società con lo Stato.
La Chiesa combatte allo stesso livello tutte queste forme di totalitarismo. Pio XI evidenzia il fatto che in una società che si trasforma in senso totalitario, il timore è una conseguenza inevitabile: esso caratterizza la vita sociale a tutti i livelli. Nel generale ottimismo, la sola voce del Papa denuncia lo stato effettivo delle cose; la sua lettura, che vede nell’epoca un imbarbarimento della società, si rivela profetica.
Al regno dell’uomo senza o contro Cristo, si pone un’alternativa radicale: «il Regno di Dio». Quindi non esiste un riconoscimento solo teorico del cristianesimo, ma questo si accompagna al ruolo concreto della Chiesa nella storia e nella società. Il cristianesimo è una presenza, il cui punto di verifica è la verità dell’uomo. Si comprende allora come il rapporto Stato-Chiesa non sia stato un problema di rapporti tra istituzioni, ma un problema di confronto culturale. Il Concordato è, in un certo senso, la modalità «di questo confronto».
La Santa Sede, dal 1929, ha un apparato giuridico riconosciuto dalla società delle Nazioni che le permette di tutelare la sua libertà. Quando la Chiesa era riconosciuta automaticamente come autorità, il mondo era più cristiano, ma in tempi moderni, nell’era fascista, la Chiesa deve chiedere che le venga concessa la libertà da uno stato che si concepisce come assoluto.
Nella seconda enciclica, Quadragesimo Anno (15-5-1931, nel quarantesimo anniversario della Rerum Novarum), Pio XI riprende ed attualizza l’enciclica di Leone XIII, che si dimostra ancora valida e penetrante: è un’ulteriore dimostrazione che una alternativa positiva cristiana è possibile. Occorre evitare il duplice errore dell’individualismo e del collettivismo; tale rifiuto non è un compromesso sincretistico fra le due posizioni, ma una alternativa all’ideologismo che si esprime nella prima (capitalismo), come nella seconda (collettivismo).
È il tentativo di una strada più adeguata all’uomo. Il giusto uso dei beni coincide con lo sviluppo dell’identità dell’uomo: il problema, quindi, è che ci si educhi a vivere il principio di proprietà in funzione dell’uomo. Pio XI ribadisce l’importanza dell’impegno cristiano nella società, per attuare il progetto risanativo del sociale. Tre sono le sottolineature: La Dottrina sociale cristiana è l’unico rimedio al capitalismo.
Lo stesso socialismo e le sue evoluzioni storiche sono da rifiutare. Conseguenza esplicita è l’appello ai cattolici, perché si impegnino socialmente nell’attuazione dell’alternativa indicata dal Magistero.
Pio XI propone una alternativa, non una terza via, un progetto che proponga una società non subordinata allo stato. La troppa sollecitudine per i beni caduchi, porta alla rovina delle anime: l’unica necessità è quella della vita eterna. Per questo occorre ritornare al cristianesimo. La seconda fase del Magistero di Pio XI è legata alla condanna esplicita e irremovibile del nazismo e del comunismo ateo.
L’enciclica Divini Redemptoris (19-5-1937) espone due motivi fondamentali per condannare entrambi: essi si presentano come nuove religioni, ma non rispondono effettivamente all’esigenza di salvezza che l’uomo ha. Creano uno Stato assoluto, che priva l’uomo della libertà e della dignità e nel far questo combattono la Chiesa, che è la fonte della difesa del diritto naturale e quindi della libertà, non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini.
Summi Pontificatus (20- 12- 1939) è l’Enciclica programmatica di Pio XII . Per introdurre alla comprensione e allo spirito con cui Pio XII ha raccolto la responsabilità affidatagli da Pio XI, è importante leggere un passo del saggio I presupposti di un nuovo ordine internazionale, che il Papa ha mandato al mondo il 3 dicembre 1941, nel momento più terribile della seconda guerra mondiale, quando non si sapeva ancora se sarebbe finita e come sarebbe finita: «Ecco la base per un rinnovamento della società: di fronte alla vastità del disastro non c’è nessun altro rimedio se non il ritorno agli altari, ai piedi dei quali gli uomini potevano attingere l’energia morale per il compimento dei propri doveri».
La seconda guerra mondiale è stata la dissoluzione del progetto laicista, del progetto dell’ateismo sociale e ha dimostrato come l’avvenimento cristiano sia l’unica alternativa possibile. L’autorità morale della Santa Sede ha dovuto reagire alla distruzione del tessuto culturale e sociale dell’Europa e del mondo; ha reagito ad una crisi antropologica di proporzioni gigantesche. Pio XII ha vissuto emblematicamente questa situazione di richiamo alla dimensione del Cristianesimo e lo ha indicato come unica alternativa reale al fallimento del progetto ateistico. Il Cristianesimo, così, acquista il valore di una proposta assolutamente attuale e che guarda coraggiosamente il futuro
Da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II
Questa seconda parte dovrebbe condurre a comprendere lo stato presente della questione sociale e le prospettive per il futuro. Da quanto abbiamo detto finora, emerge un’importante considerazione: la Dottrina sociale è stata pensata come ipotesi per guidare una presenza missionaria, in una situazione culturale, sociale, politica completamente diversa da quella in cui la Chiesa aveva vissuto per secoli.
Di fronte ad un progetto, che abbiamo definito globalmente, sulla scorta dell’insegnamento dei Papi, di carattere ateistico, sta un altro progetto che la Chiesa presenta, dapprima prendendo le distanze da quello vincente e in un secondo momento dimostrando che esiste una proposta positiva alternativa.
Esiste un’altra concezione di Stato, per cui esso è al servizio della società e non pretende di assorbire in sé la struttura sociale. In un terzo momento, la Chiesa si è presa anche la responsabilità di mostrare come questo progetto ateistico fosse destinato a fallire: anzitutto, per uno scollamento profondo che si sarebbe andato ulteriormente rafforzando tra la vita dei popoli e la vita degli Stati; poi, perché il passaggio dal liberalismo come richiesta di libertà al totalitarismo, è un passaggio necessario. Il totalitarismo culturale, prima ancora del totalitarismo socio-politico, è una inevitabile conseguenza del progetto ateistico.
La seconda guerra mondiale ha messo a nudo il fallimento dell’ideologia laicista: è un fallimento di proporzioni globali, una distruzione dell’insieme del tessuto culturale e sociale del mondo. La ricostruzione appare un problema non solo materiale, ma anche antropologico, etico e culturale. Questo è un tema che ricorre nel Magistero del dopoguerra di Pio XII: la Santa Sede può sfruttare quella che il Papa diverse volte ha definito «un enorme autorità morale».
La Chiesa ha a suo vantaggio la coerenza di una posizione mai lasciata; ha a suo vantaggio l’aver simultaneamente difeso la libertà dei credenti e la libertà dell’uomo. L’azione della Chiesa, sia come Magistero, sia come pratica di vita, mette al sicuro dalle ritorsioni di carattere ideologico, che invece proseguono tra gli Stati. La Santa Sede, cioè la voce pubblica ufficiale della Chiesa, si trova in una posizione di «insegnamento» nei confronti di tutto lo schieramento dell’ideologia.
Essa pretende di indicare a tutte le posizioni culturali e ideologiche un progetto alternativo, per capire ed aderire al quale, non è necessaria la fede. Questo è lo svolgimento del pensiero del Magistero che comincia a delinearsi nel dopoguerra e risulterà assolutamente chiaro con il pontificato di Giovanni XXIII . Il suo merito è infatti quello di non cedere sulla proposta alternativa rappresentata dal cattolicesimo, ma, allo stesso tempo, di mostrare come su tale proposta è possibile che si incontrino uomini di buona volontà.
Anche chi conosce poco la storia della Chiesa, sa che Giovanni XXIII è il primo Papa ad aprire le sue Encicliche rivolgendosi non soltanto ai Vescovi e ai sacerdoti della Chiesa, non solo ai fedeli, ma a tutti gli uomini di buona volontà.
L’Enciclica Mater et Magistra afferma che la proposta del Cristianesimo è molto avanzata e che su questa proposta si può «correre il rischio» di una aggregazione più vasta, che coinvolga anche i non credenti. Scritta nel 1961, in occasione del settantesimo anniversario della Quadragesimo Anno, la Mater et Magistra contiene una parte intitolata «L’insegnamento della Chiesa», nella quale si afferma che l’alternativa al laicismo ateo è la capacità di coinvolgimento anche di chi non crede.
Per far questo bisogna partire da un fondamento realmente alternativo, cioè l’avvenimento di Cristo e la presenza della Chiesa nel sociale, che è in grado di coinvolgere anche chi non è credente. L’errore più grave dell’epoca moderna è di ritenere l’esigenza religiosa un’espressione del sentimento o della fantasia, quando non addirittura una superstizione, oppure il prodotto di una contingenza storica da eliminare quale elemento anacronistico, ostacolo al progresso umano; mentre è proprio in quella esigenza che l’uomo si rivela per quello che realmente è.
È un fondamento antropologico diverso: l’equivoco della guerra è stato un equivoco di ideologie che hanno negato la dimensione religiosa e vi hanno sostituito una dimensione di potere. Anche la ricostruzione sarà equivoca, però, se non parte da questo fondamento: il senso religioso dell’uomo.
Qualunque sia il progresso tecnico o economico nel mondo, non vi sarà né giustizia né pace, finché l’uomo non ritornerà alla dignità di figlio di Dio. L’uomo staccato da Dio diventa disumano, con se stesso e con i suoi simili, perché l’ordinato rapporto di convivenza presuppone l’ordinato rapporto della coscienza personale dell’uomo con Dio, fonte di giustizia e di amore. È questo il messaggio del pontificato: occorre mettere decisamente al centro il fondamento antropologico, cioè l’immagine vera dell’uomo che è rivelata solo da Gesù Cristo.
Su questo fondamento che implica un rapporto giusto e vero con Dio, si può progettare un discorso di giustizia e amore. Giovanni XXIII, nella Mater et Magistra e nella Pacem in Terris , dà testimonianza di questo: il massimo di fedeltà all’identità riproposta come alternativa culturale, permette il massimo di apertura, di partecipazione e di solidarietà creativa.
Il Magistero di Giovanni XXIII è stato, in fondo, un brevissimo Magistero, il cui merito fondamentale è quello di aver celebrato il Concilio Vaticano II . I documenti che riguardano la Dottrina sociale, Gaudium et Spes e Dignitatis Humanae, consentono di capire che cosa il Concilio ha fatto: il Concilio ha centrato, innanzitutto, la questione del soggetto missionario.
In tutto il periodo precedente, erano apparsi documenti in cui si vedeva il soggetto missionario in azione, ma non si era sufficientemente riflettuto sulle caratteristiche fondamentali della Chiesa come soggetto missionario presente nel mondo. Il Concilio ha operato un approfondimento della autocoscienza che la Chiesa ha di sé: questa è la definizione che Giovanni Paolo II ha dato del Concilio in quei magnifici quattro numeri iniziali della Redemptor Hominis.
La Chiesa nel Concilio, ha maturato un’adeguata coscienza di sé come Sacramento di Cristo, quindi come identità irriducibile della storia, perché caratterizzata dalla presenza di Cristo, che la costituisce come popolo nuovo. La teologia del popolo di Dio, che è subalterna alla teologia del Corpo di Cristo, è stata riformulata dal Concilio, proprio per sottolineare la visibilità e la socialità della Chiesa e per togliere quindi dall’espressione «Corpo di Cristo», qualsiasi tentazione di leggerla in senso intimistico, spiritualistico o emozionale, che ne riduce il significato.
«Corpo di Cristo» significa un avvenimento, una realtà presente, identificata da una precisa coscienza di appartenere a Cristo e di doverlo portare nel mondo a tutti gli uomini. L’identità di appartenere a Cristo diventa responsabilità di approfondimento del soggetto ecclesiale. Il mondo non può salvarsi se non in riferimento all’avvenimento di Cristo; il limite obiettivo a cui si è arrivati, è l’incomprensibilità dell’uomo a se stesso.
La lezione centrale è di carattere filosofico e culturale: l’uomo senza riferimento a Cristo è una realtà incomprensibile, perché Cristo, rivelando Dio all’uomo, rivela anche l’uomo all’uomo. Non è dunque possibile uno sforzo di comprensione e di liberazione che prescinda da Cristo; se invece ci si riferisce a Lui, è possibile entrare nelle vicende della storia, rispettando le caratteristiche della realtà che si affronta.
La dipendenza da Cristo si realizza, pertanto, nel pieno riconoscimento dell’autonomia, perché Cristo non violenta la realtà naturale: l’ha creata e la redime nel rispetto della libertà della persona e della natura propria della realtà. Nella Dignitatis Humanae viene tracciato il tema della dignità e dei diritti umani, mettendo alla base il diritto alla libertà religiosa. Si respinge inoltre l’accusa mossa alla Chiesa di aver sempre negato tale libertà poiché l’esigenza religiosa appartiene alla struttura naturale dell’uomo.
L’enciclica individua l’interlocutore della missione e il problema prioritario: l’interlocutore è l’uomo, il Concilio non si rivolge all’ideologia; il problema è che la Chiesa viva la sua missione in rapporto con ciò che esiste, con la realtà, oltre l’ideologia. Ciò che esiste oltre l’ideologia è un’istanza religiosa che deve essere rispettata.
La Dignitatis Humanae è una richiesta esplicita chela Chiesa fa agli Stati totalitari: la persona deve essere rispettata per quello che è il cuore e il fulcro della persona, la tensione a Dio. La Dignitatis Humanae è l’apparire dell’interlocutore: cioè la Chiesa parla all’uomo che cerca Dio, parla al suo cuore. Così comincia la richiesta di libertà religiosa alla autorità degli Stati.
Ciò che ostacola la Chiesa in questa sua azione, è la permanenza di una impostazione ideologica che è tesa ad assorbire la dimensione religiosa come parte dello Stato. Individuato l’uomo con la sua dignità di interlocutore, comincia la lotta per la sua difesa. Giovanni Paolo II svolgerà le conseguenze di questa nuova interpretazione del Concilio: il criterio della democrazia di uno Stato è la libertà religiosa.
È questa la giusta chiave di lettura per introdurre il Magistero di Paolo VI . Il suo pontificato è un’intensa testimonianza che la fedeltà alla identità della fede dà il massimo di coraggio e di capacità di dialogo, soprattutto nella percezione e nella indicazione delle soluzioni ai problemi dell’uomo e della società. Il magistero del Papa si svolge a partire dalla Ecclesiam Suam , ma dal punto di vista sociale, occorre far riferimento alla Populorum Progressio .
Lo sviluppo dei popoli è individuato da Paolo VI come il nome nuovo della pace: la pace è una convivenza ordinata fra uomini che siano lasciati liberi di cercare e professare la verità e di affrontare il problema in tutte le dimensioni. La possibilità di forza a una presenza reale dei cattolici. Se essi sono presenti come tali, sono capaci di autentica solidarietà.
Non si può accettare che il progresso sia l’eliminazione di una pluralità della vita sociale e che riduca tutto al bisogno materiale. C’è un messaggio sociale che deve essere ascoltato e che deve essere continuamente approfondito e riformulato dalle comunità cristiane vive. Mentre fino ad ora, formulato il pensiero sociale, il Papa lo consegnava all’Episcopato, ai sacerdoti, Paolo VI fa un passo fondamentale: chiama le comunità cristiane nella loro obiettività ad essere i soggetti della verifica della Dottrina sociale.
Il cristiano, se è presente come realtà nel mondo, non può non arrivare ad impostare i problemi sociali secondo le indicazioni del Magistero e quindi a verificarne l’attuabilità. Si chiarisce, così, la logica di una originalità dell’avvenimento cristiano consapevole, che diventa azione solidale, capace di integrare tutte le posizioni positive. È un compito arduo, ma in cui il soggetto è enucleato con saggezza.
Nel magistero di Paolo VI prende corpo una soggettività concreta, una soggettività ecclesiale di base. Il campo per le varie trasformazioni mondiali è, innanzitutto, quello della propria comunità.
L’enciclica Octogesima Adveniens e l’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, evidenziano una delle caratteristiche peculiari dell’epoca moderna: il fallimento dell’antropologia dell’autoimmanenza; l’uomo, cioè, non può rimanere senza fondamento, e può trovare solo nel riferimento a Dio e a Cristo la sua fondazione e la difesa di sé come soggetto creatore di storia.