(Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Avvenire del 13 luglio 2012)
di Flavio Felice , Fabio G. Angelini
Alcune brevi considerazioni a margine dell’interessante e ampiamente condiviso articolo dell’amico Luigino Bruni su “Avvenire” dell’8 luglio, intitolato “Il modello italiano”. In particolare, vorremmo intervenire su due sollecitazioni di Bruni, una di chiara impronta teorica ed una più orientata alle scelte di policy.
Bruni introduce il suo articolo con le seguenti parole: “Il presidente Monti ha affermato di condividere con la Germania la visione di una ‘economia sociale di mercato altamente competitiva’, facendo così eco ad altre voci che in Italia stanno evocando e invocando quella suggestiva espressione”. Dal momento che da anni come Centro Studi Tocqueville-Acton ci spendiamo nella proposizione di tale modello economico, non neghiamo di esserci sentiti chiamati in causa.
Condividiamo con Bruni l’esigenza di un chiarimento teorico e crediamo che lo si debba fare ricorrendo ai padri fondatori di tale modello. In primo luogo, appellarsi ad “un’economia sociale di mercato altamente competitiva” non ha nulla di retorico ovvero di politicamente corretto.
Significa rifarsi esplicitamente all’opera di uno dei più importanti tandem della vita politica ed economica europea del Secondo Dopoguerra: Ludwig Erhard e Aldred Müller Armack. Il contributo principale del prof. Müller Armack è stato di aver operato per l’implementazione di un sistema politico liberale, incentrato sulla libera concorrenza, intesa come compito sociale al servizio della persona umana.
Dal canto suo, Erhard considera “l’economia sociale” lo scopo che si consegue tramite il mercato, ossia, tramite le sue istituzioni: politiche, economiche e culturali. Su questa base, la prospettiva dell’economia sociale di mercato si struttura nei seguenti tre punti: 1) impedire al potere politico di essere una sorgente arbitraria di disordine; 2) sopprimere ogni struttura monopolitistica; 3) fare prevalere in ogni caso libertà e concorrenza”.
Dunque, non si tratta di importare dalla Germania un modello estraneo alla nostra tradizione civile; tutt’altro, quel modello può vivere solo in una realtà sociale dinamica e policentrica, come appunto la nostra poliarchica società civile.
In questa sede possiamo soltanto far notare che i critici, e con essi anche l’amico Bruni, hanno spesso confuso l’espressione “economia sociale di mercato” con “economia di mercato sociale”. Bruni utilizza l’espressione capovolta per rappresentare un’economia di mercato che sia autenticamente civile.
Ebbene, dal momento che i concetti di “mercato”, di “competizione”, di “impresa” e di “Stato”, nella prospettiva dell’economia sociale di mercato, affondano nella tradizione del pensiero sociale della Chiesa e fanno proprio il principio di sussidiarietà, riteniamo che la dimensione “civile” sia già nel suo DNA, senza alcun bisogno di ulteriori complicazioni nominalistiche. Non è un caso che un interprete autentico della vita civile italiana: don Luigi Sturzo, abbia eletto un padre dell’economia sociale di mercato come Wilhelm Röpke suo riferimento teorico.
L’economia sociale di mercato scommette sulla capacità dei processi di libero mercato, al centro dei quali troviamo l’impresa libera e responsabile, di perseguire finalità di interesse sociale, non contrapponendo i concetti di “sociale” e di “mercato” e infine non identifica “sociale” con “statale”.
Il “sociale” riguarda in primo luogo l’ambito della società civile, articolata secondo il principio di sussidiarietà; in tal senso, l’economia sociale di mercato esprime il contesto teorico nel quale opera l’“economia civile”. Si considerino a tal proposito i contributi di Röpke sul concetto di sussidiarietà, di piccola impresa, fino alla teorizzazione del distretto industriale. La politica sociale non è quindi né un’attività di correzione né una semplice appendice dell’economia di mercato – nell’uno e nell’altro caso, in effetti, avrebbe senso parlare di “economia di mercato sociale”, dove l’aggettivo qualificativo avrebbe la funzione di addolcire le asprezze del sostantivo.
Al contrario, nella prospettiva dell’economia sociale di mercato, la politica sociale è una parte costitutiva equipollente e integrale del concetto di economia di mercato, intesa come economia civile, al centro della quale opera l’impresa: piccola, media, grande, cooperativa e non profit che dir si voglia. In definitiva, non si tratta di puntuali interventi nel mercato “su base sociale”, quanto soprattutto dell’accesso senza privilegi al mercato – proprio allora si può attendere dalla “libera iniziativa” anche il “progresso sociale”. Ed è questo il ruolo fondamentale e insostituibile dello Stato.
Infine, Bruni scrive: “Ecco perché Mario Monti e gli altri amanti della suggestiva espressione economia sociale di mercato debbono dirci, con le scelte di politica economica e con la modulazione dei tagli, come si pongono nei confronti dell’economia italiana di oggi”. In attesa che risponda Monti, ci permettiamo di indicare un percorso: quello della sussidiarietà e della poliarchia.
Un percorso già affrontato nel nostro articolo su “Avvenire” dello scorso 9 giugno, laddove abbiamo proposto la suggestione di una spending review ispirata alla sussidiarietà, intendendo con tale espressione lo sforzo di guardare al settore pubblico, prima ancora che come erogatore di servizi pubblici, come autorevole produttore di norme e controllore della loro corretta applicazione, al fine di permettere il perseguimento dell’interesse generale attraverso (e non a dispetto) della libera iniziativa dei singoli e dei corpi intermedi.
Un’implementazione, in termini di public policy, di quella visione dei rapporti Stato-mercato e Stato-società tipica dell’economia sociale di mercato ed oggi più che mai opportuna per risolvere i nodi gordiani della nostra spesa pubblica.
Auspicare per il nostro Paese la ricetta della “economia sociale di mercato altamente competitiva” significa perciò, nello stesso tempo, auspicare una politica economica che, riconoscendo i pregi e i difetti del nostro sistema produttivo e del nostro modello imprenditoriale, sappia fornirgli gli strumenti per affrontare i nuovi paradigmi economici e le sfide della globalizzazione, a partire dal problema della frammentazione del processo produttivo e dell’emersione delle nuove potenze economiche. In questo senso, coloro che propongono l’economia sociale di mercato non possono che auspicare – soprattutto in questa fase – “uno Stato forte per un mercato libero e un’impresa dinamica”.
Ci riferiamo, naturalmente, alla necessità di uno Stato autorevole, fortemente presente nella vita economica e sociale del Paese non come imprenditore né come mero erogatore di spesa, bensì come soggetto capace di definire un quadro istituzionale e giuridico in grado di promuovere la concorrenza e la competitività del sistema imprenditoriale, di sgravare le imprese da una serie di compiti impropri che spesso ne minano alla radice la competitività internazionale, di intervenire nel settore del welfare, in chiave sussidiaria, solo laddove la libera iniziativa dei privati e del terzo settore non sia in grado assicurare risposte adeguate ai bisogni delle persone.
In definitiva, l’economia sociale di mercato storicamente si sviluppa ispirata dal principio di sussidiarietà del moderno Magistero sociale della Chiesa e potrà continuare a dare buoni frutti solo se si mostrerà fedele a tale legato.