Atlantico 21 Giugno 2021
di Gabriele Amore
Quando si parla del conflitto israelo-palestinese non si può ignorare il contesto storico all’origine di tutto: l’esito della Prima Guerra Mondiale. Nel 1918 ormai in ritirata su tutti i fronti e con l’esercito ridotto a un sesto della forza originaria, all’Impero ottomano non restò altro che trattare la propria resa: il 30 ottobre i suoi rappresentanti siglarono l’armistizio di Mudros e il 13 novembre una forza d’occupazione alleata si stabilì a Costantinopoli.
Negli anni successivi, dopo le vicende della guerra d’indipendenza turca, che vede l’ascesa al potere del “padre della Turchia” Kemal Atatürk, con i vari mandati stabiliti dall’allora Società delle Nazioni i Paesi arabi facenti parte dell’Impero ottomano vengono assegnati a Francia e Regno Unito. La Francia ebbe il mandato sulla Siria e sul Libano, mentre il Regno Unito sulla Palestina, la Transgiordania e la Mesopotamia (l’odierno Iraq), seguendo le sfere di influenza definite negli accordi segreti di Sykes-Picot del 1916.
Con le suddivisioni territoriali gli Alleati della Prima Guerra Mondiale beneficiavano della vittoria attraverso un controllo diretto o indiretto di ampi territori, in questo caso, anche del Medio Oriente.
Lo scopo della Società delle Nazioni era quello di guidare l’economia dei Paesi arabi, promettendo piani di sviluppo per migliorare le già allora precarie condizioni di vita di ampie fette della popolazione.
Il mandato britannico sulla Palestina – La comunità ebraica era già presente in Palestina e nel 1915 contava 83.000 persone. Il progetto “sionista”, già teorizzato nel XIX secolo, mirava a far sì che gli ebrei sparsi per il mondo potessero ritornare ad avere dopo secoli una propria nazione. Quando la Palestina fu assegnata al mandato britannico, il Regno Unito decise di avallare il progetto, anche per tenere sotto controllo la presenza araba.
Lord Arthur J. Balfour nel 1917 disse: “Il governo di Sua Maestà vede con benevolenza l’istituzione in Palestina di una National Home per il popolo ebraico e farà del suo meglio perché tale fine possa essere raggiunto, rimanendo chiaro che niente deve essere fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina.”
Questo è un punto fondamentale per comprendere l’origine delle ostilità. Il punto di vista ebraico parte proprio da qui: dopo la Prima Guerra Mondiale gli arabi avevano diritto certamente ad avere dei propri Stati, ma in realtà ciò non sarebbe stato individuato nella Palestina, che sarebbe dovuta essere di pertinenza ebraica nella sua integralità. In effetti una versione della bandiera della Palestina durante il mandato britannico aveva impressa la “stella di David”, così come appare oggi anche nella bandiera dello Stato di Israele. La possiamo vedere ritratta in una edizione del dizionario Larousse del 1939.
È importante soffermarsi su questo punto. Gli inglesi avevano certamente promesso delle terre alle popolazioni arabe per aver supportato l’Alleanza nell’attacco decisivo contro gli ottomani, di cui loro stessi erano desiderosi di liberarsi definitivamente, ma anche leggendo la storica dichiarazione di Balfour è la versione ebraica che appare maggiormente avvalorata: l’intero mandato britannico sulla Palestina sarebbe dovuto passare sotto il controllo del popolo ebraico (nel rispetto dei diritti delle comunità non ebraiche presenti), mentre agli arabi sarebbero spettati gli altri Stati (l’Egitto divenne indipendente già nel 1922).
Sarebbero sorti successivamente infatti il Libano, la Siria, l’Iraq, la Giordania, la stessa Arabia Saudita, tutti Paesi che nei piani dei vari mandati erano già stati assegnati alle popolazioni arabe. Se non si parte da questo dato storico fondamentale non riusciamo a capire perché la Palestina è stata da sempre una terra contesa, a torto o a ragione, sia dalle popolazioni ebraiche che da quelle arabe.
L’immigrazione ebraica in Palestina, dalle varie comunità presenti in altri Paesi, subisce una netta accelerazione durante il mandato britannico. Accade così che dagli 84.000 presenti nel 1922 si arriva a oltre 900 mila ebrei nella Palestina del 1947. La grande immigrazione viene coadiuvata dall’Agenzia ebraica (“Sochnut”) che permetteva anche l’utilizzo di fondi per acquistare i terreni dagli arabi presenti in Palestina, per sistemare così l’arrivo dei nuovi coloni.
L’efficace organizzazione spinse le autorità britanniche a consigliare agli arabi di fondare una Agenzia con le stesse finalità, proposta che però fu subito respinta dai leader delle comunità locali. La forte immigrazione non tardò ad alimentare le tensioni con le comunità arabe che si sentivano minacciate dal crescente arrivo dei coloni ebrei.
Aggiungiamo pure le scarse risorse presenti e l’aumento della disoccupazione, in particolare tra gli arabi, e il quadro è completo. Nonostante l’Agenzia acquistasse regolarmente le terre dagli arabi, provocandone così l’allontanamento da diverse aree, si andò diffondendo, anche a causa della ambiguità degli inglesi su ciò che si era stabilito per la Palestina, l’idea di una invasione da parte degli ebrei in una terra la quale venne regolarmente assegnata dagli accordi successivi alla Prima Guerra Mondiale.
Il sionismo ha fatto certamente comodo agli inglesi, che vedevano negli ebrei una presenza rassicurante in Medio Oriente, come baluardo e argine alla espansione araba. La proposta dei due Stati in Palestina in realtà nasce solo successivamente, lì dove fallisce il progetto di un unico Stato che avrebbe dovuto essere il perfetto continuum del mandato britannico, senza alterarne i confini. In sostanza gli arabi ivi presenti, certamente garantiti nei diritti civili e religiosi, avrebbero dovuto lasciarsi governare dalla comunità ebraica come in parte accade oggi nell’attuale Stato di Israele.
Agli arabi sarebbe rimasto il governo diretto di tutti gli altri Stati sorti dalla caduta dell’Impero ottomano. Il popolo ebraico viene visto invece come una minaccia esistenziale da parte delle comunità arabe – ma soprattutto dei neonati Stati arabi confinanti – e dall’accettazione si passa rapidamente al loro rifiuto. I nuovi assetti geopolitici in Medio Oriente sorti dalla Prima Guerra Mondiale furono quindi rifiutati dagli arabi, che si erano illusi di potersi liberare dal dominio ottomano senza cedere nulla in cambio.
La Palestina divenne così il vero oggetto di scambio, quella eterna terra promessa sempre negata ad un popolo fiero ed orgoglioso delle sue origini e della sua storia. Il periodo del mandato britannico vede una continua tensione che sfoga in rivolte delle comunità arabe contro quelle ebraiche a partire dai moti degli anni ’20.
Particolarmente cruento fu il massacro di Hebron del 1929, luogo simbolico per la presenza plurisecolare dell’insediamento, e di importanza sacra per l’ebraismo, che identifica in questo luogo della Cisgiordania la presenza della tomba di Abramo. Molti ebrei trovarono salvezza presso famiglie arabe che li nascosero nelle loro case, e molti altri morirono perché si fidarono degli arabi sbagliati. Si contarono infine 68 ebrei uccisi con diverse altre decine di feriti e svariati episodi di violenza e stupri subiti dalle donne della comunità ebraica.
Gli ebrei sopravvissuti dovettero abbandonare Hebron per trovare rifugio a Gerusalemme e fecero un tentativo di ripopolare gli insediamenti nel 1931, per poi abbandonarli di nuovo a causa della grande rivolta araba che ebbe luogo tra il 1936 e il 1939.
La situazione stava ormai sfuggendo di mano e gli inglesi governarono in quegli anni la Palestina con sempre maggiore difficoltà, tentando in extremis di regolamentare anche l’afflusso di nuovi coloni ebrei attraverso una serie di libri bianchi e proponendo una prima bozza di possibile suddivisione della Palestina in due Stati (Commissione Peel).
David Ben Gurion, la prima persona a ricoprire il ruolo di primo ministro dello Stato di Israele, fu possibilista e aperto all’idea, spinto anche dal progetto di favorire una migrazione etnica controllata e concentrare tutti gli ebrei nella parte nord della Palestina. A loro volta gli arabi (che rigettarono subito il progetto) presenti nel nord si sarebbero dovuti spostare nel centro-sud mentre Gerusalemme sarebbe rimasta ancora sotto il controllo mandatario.
comunità ebraiche erano assai bene organizzate e cominciarono a reagire di fronte ai continui attacchi arabi formando una serie di milizie organizzate che diventeranno poi parte integrante dell’attuale IDF (forze di difesa israeliane). Si hanno così strutture maggiormente militari come l’Haganah e il Palmach e paramilitari come l’Irgun e la Banda Stern (dal nome del suo primo comandante Avraham Stern). Quest’ultima verrà considerata come una vera e propria organizzazione terroristica da parte del Regno Unito.
Fu la stessa polizia britannica ad uccidere Stern nel 1942 in circostanze poco chiare. L’ambiguità degli inglesi nel trattare la questione palestinese durante le rivolte arabe provocò un forte irrigidimento da parte delle stesse comunità ebraiche che, come nel caso della Banda Stern, cominciarono a vedere i britannici più come un problema che come una soluzione.
Ciò accadde in particolare dopo il fallimento della proposta della Commissione Peel, quando venne redatto il libro bianco del 1939 che progettava l’istituzione di uno Stato misto arabo-israeliano. Questa ipotesi fu immediatamente rifiutata dagli arabi che reagirono ancor di più in maniera totalmente disillusa riguardo le conseguenze della Prima Guerra Mondiale, mentre gli ebrei considerarono questa proposta un vero e proprio tradimento.
La guerra civile durante la grande rivolta araba stabilì in maniera schiacciante la superiorità dell’organizzazione militare ebraica, che si manifestò a fronte di 400 caduti ebrei contro ben 5.000 arabi morti durante i vari scenari di battaglia. Tra gli inglesi morirono 200 soldati. La superiorità militare ebraica sarà una costante in tutti i conflitti a venire contro gli altri Stati arabi. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu inevitabile il ruolo diretto e indiretto del regime nazista sulla questione palestinese.
Gli arabi sperarono in una superiorità delle forze dell’Asse con cui si allearono, sperando di sbarazzarsi così al più presto degli ebrei e allo stesso tempo dei britannici, complice la “soluzione finale” tristemente famosa perseguita da Hitler, che incontrò personalmente il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husayni, nel 1941.
Quest’ultimo si dedicò a reclutare musulmani per rinfoltire le fila delle Waffen-SS del Reich. La comunità ebraica al fianco degli Alleati si sentì però in parte oppressa dagli inglesi, che in parte arrivarono ad ostacolare l’immigrazione degli ebrei tedeschi, polacchi e austriaci che provavano a sfuggire dalla persecuzione nazista. L’importante ruolo della comunità ebraica al fianco degli Alleati venne riconosciuto e la questione palestinese non rimase più solo un affare britannico dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La neonata Organizzazione delle Nazioni Unite istituì una “Commissione speciale per la Palestina” (UNSCOP) e propose alcune modifiche nel piano della suddivisione dei due Stati (fig. 2) utilizzando come base le conclusioni della Commissione Peel (fig. 1).
All’inizio del 1947 la proporzione tra arabi ed ebrei era di 2:1 con circa 1.200.000 degli uni e 600.000 degli altri con un continuo flusso migratorio che alla fine di quell’anno ne avrebbe portato ad un totale di oltre 900.000.
La proposta di spartizione riguardo la zona sud della Palestina era basata su una considerazione pragmatica: la comunità ebraica avrebbe continuato l’immigrazione verso la Palestina e la zona desertica meridionale era sufficientemente grande ed estesa non solo per accogliere i nuovi coloni, ma anche per permettere uno sviluppo agricolo altrimenti impossibile da parte degli arabi, uno sviluppo di cui ne avrebbero beneficiato tutti.
Gli arabi rifiutarono la proposta non considerandola giusta, mentre gli ebrei accettarono nonostante la scarsa continuità territoriale. Era prioritario far nascere a questo punto i due Stati in modo definitivo e risolutivo per chiudere la stagione dei conflitti. La risoluzione dell’Onu stabilì anche la fine del mandato britannico entro e non oltre il 1° agosto del 1948.
Il Consiglio Nazionale Sionista sulla base della risoluzione dell’Onu proclamò la nascita ufficiale dello Stato di Israele il 14 maggio di quell’anno con a capo Ben Gurion, il “padre fondatore” di Israele nel ruolo di primo ministro. La risposta alla risoluzione dell’Onu porterà alla Guerra arabo-israeliana del 1948 che cominciò ufficialmente già prima del ritiro degli inglesi dalla Palestina. Considerata come la vera “guerra d’indipendenza” dello Stato di Israele, in essa si possono connotare diverse fasi del conflitto separate da brevi tregue.
La fazione araba era costituita oltre che da combattenti palestinesi anche da eserciti regolari provenienti da Egitto, Libano, Siria, Giordania ed Iraq. Dall’altro lato vi furono solo le neonate IDF che assorbirono le forze dell’Haganah, del Palmach e dell’Irgun. Solo in una occasione si ebbe l’intervento della RAF britannica che reagì alle incursioni arabe sulle basi aeree inglesi vicino Haifa, abbattendo alcuni aerei egiziani.
Da una iniziale posizione difensiva le forze armate israeliane riuscirono a respingere tutti gli attacchi nei primi mesi del conflitto mostrando una netta superiorità nella gestione militare nonostante le numerose perdite nelle prime fasi della guerra. La forte immigrazione degli ebrei in Palestina portò in pochi mesi le IDF a schierare una forza che da 30.000 soldati arrivò a reclutarne oltre 100.000, con una importante componente di veterani proveniente da vari contesti già vissuti durante la Seconda Guerra Mondiale.
La superiorità aerea fu raggiunta solo dopo alcuni mesi quando la neonata IAF (“Israeli Air Force”) si dotò di 25 caccia acquistati dalla Cecoslovacchia. La reazione israeliana portò non solo a riconquistare le parti di territorio inizialmente perdute ma a controllare nuove aree oltre i confini del mandato Onu. Nel corso del 1949 Israele firmò una serie di armistizi separatamente con tutte le parti in causa ottenendo circa il 50 per cento in più del territorio inizialmente previsto dal piano di partizione dell’Onu (fig.3) e le cosiddette “green line” ovvero linee di cessate il fuoco che corrispondevano all’attuale Striscia di Gaza controllata dall’Egitto e l’intera Cisgiordania controllata dal re giordano Abd Allāh.
Molti furono i profughi di guerra palestinesi che fuggirono o furono costretti a fuggire. Gli ebrei presenti in altri Stati arabi preferirono lasciare i rispettivi Paesi dato l’aumentare del sentimento anti-ebraico. Diverse centinaia di migliaia raggiunsero proprio Israele e molti altri emigrarono in Europa. Gli eventi storici rivelano in maniera incontrovertibile come la popolazione araba fu poco lungimirante nel non accettare fin dal principio almeno un parziale controllo della Palestina da parte degli israeliani, che aggrediti da ben 5 Paesi arabi seppero difendersi e contrattaccare vincendo la guerra.
Tra il 1949 e il 1955 crescono le tensioni tra Israele e l’Egitto che cominciò una serie di atti di ritorsione, spionaggio e sabotaggio. La “manodopera” utilizzata comprendeva anche i rifugiati palestinesi la cui infiltrazione veniva favorita operando una pressione dalla Striscia di Gaza. Anche a seguito dell’ideologia del “panarabismo” portata avanti strenuamente dal presidente egiziano Nasser, ha inizio la crisi del canale di Suez, con una guerra nel 1956.
La compagnia a capo del canale era infatti di proprietà anglo-francese e la nazionalizzazione egiziana avvenne scatenando la reazione militare di Francia e Regno Unito alle quali si affiancò Israele, poiché l’Egitto decise di interdire allo Stato ebraico l’utilizzo del canale di Suez. In una alleanza inedita Usa e Russia minacciarono di intervenire contro i due Stati europei che si dovettero così ritirare. Si capì successivamente che gli Stati Uniti temevano una pericolosa escalation dovuta alla minaccia dichiarata dall’allora Unione Sovietica di usare “tutti i tipi di moderne armi di distruzione” (testate nucleari?) su Londra e Parigi.
L’esercito israeliano invece non si fece intimorire e rinnovò la dimostrazione di una netta superiorità militare conquistando così tutta la penisola del Sinai grazie all’azione del generale Moshe Dayan (a sinistra nella foto insieme a Sharon, 1973), considerato un vero eroe nazionale, specialmente per il grande acume tattico che di lì a non molto tempo dopo avrebbe sfoderato durante la “Guerra dei Sei Giorni” del 1967.
forze israeliane si ritirarono dal Sinai all’inizio del 1957 quando fu promossa per la prima volta nella storia dell’Onu una missione militare di peacekeeping. A partire dal 1962 riprendono ritorsioni reciproche tra Israele ed Egitto che porranno le basi per la Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967). Su pressione egiziana le ultime forze residue dell’Onu vennero ritirate da Gaza.
Il 23 maggio del 1967 l’Egitto chiuse la navigazione agli israeliani all’altezza degli Stretti di Tiran a sud del Sinai. Per Israele fu considerato un atto di guerra come quello del 1956. Stavolta l’azione militare cominciò con attacchi preventivi e a sorpresa: la IAF attaccò la mattina presto del 5 giugno le postazioni dell’aviazione egiziana distruggendola quasi completamente. Stessa sorte toccò all’aviazione siriana seppur dotata di aerei migliori.
L’intervento di terra cominciò quasi subito dopo e con la netta superiorità nello schierare le proprie forze corazzate Israele ebbe vita facile nel conquistare Gaza e l’intera penisola del Sinai replicando i successi della crisi di Suez. La novità consisteva stavolta in operazioni di controllo sia della Cisgiordania che delle alture del Golan, affrontando quasi contemporaneamente gli eserciti giordani, siriani ed iracheni.
Gli israeliani in realtà non si aspettavano l’attacco del re giordano Hussein del quale speravano un atteggiamento di neutralità, ma solo pochi giorni prima la Giordania firmò un patto di mutua difesa con l’Egitto attaccando letteralmente “alle spalle” Gerusalemme. Il 10 giugno cessarono ufficialmente le ostilità dopo che Giordania ed Egitto erano state costrette a trattare il “cessate il fuoco” e le forze siriane si ritirarono dopo aver perso le alture del Golan (fig. 4).
La schiacciante superiorità militare dimostrata da Israele provocherà profonde ripercussioni negli anni a venire in Medio Oriente. Nel 1964 viene fondata l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) che dapprima è posta sotto il controllo diretto della “Lega araba”, dopodiché affronterà un percorso più autonomo venendo riconosciuta come unico interlocutore politico rappresentante gli arabo-palestinesi.
Nel contesto dell’OLP sorsero diversi gruppi nazionalisti panarabi palestinesi, tra i quali al-Fatah assunse un certo protagonismo tramite le azioni del suo leader Yasser Arafat. Da al-Fatah sorgerà il gruppo terroristico, Settembre Nero, responsabile della strage delle Olimpiadi di Monaco del 1972 che porterà alla morte di 11 atleti della squadra olimpica di Israele.
Le periodiche azioni di guerriglia dell’OLP e la guerra di attrito tra Israele ed Egitto porranno le basi per l’ultimo conflitto con il coinvolgimento diretto degli Stati arabi, conosciuta anche come Guerra del Kippur, nel 1973.