Carlo Bellieni
Gli allori olimpici stanno trasmettendo emozioni forti a tutto il mondo. Finalmente vediamo che il diametro dello sport è maggiore di quello ben più ristretto che tutto l’anno finisce con l’appassionarci sotto la pressione dei media e degli sponsor.
Ecco ora le Paralimpiadi, che inizieranno a Londra il 27 agosto, palcoscenico di atletica e di agonismo per nulla inferiore alla manifestazione principale, e di cui si auspica un ulteriore avvicinamento, fino a una vera e propria fusione, come peraltro si augura anche il presidente del comitato organizzatore dei giochi londinesi, Lord Sebastian Coe.
Lo sport paralimpico si è evoluto dal dopoguerra, quando fu inventato per la riabilitazione dei soldati americani invalidi. Ora non è più solo occasione di recupero fisico, ma momento di eccellenza agonistica «che porta un prestigio intrinseco», come sottolinea il «Journal of the Royal Society for the Promotion of Health».
L’avvicinamento e la fusione temporale e spaziale con le olimpiadi sarebbe salutare, per far trionfare un agonismo più autentico sullo spettacolo fine a se stesso e condizionato da pressioni esterne che dettano ritmi e orari. Questo incalzare ha portato all’introduzione nel 1992 del professionismo alle Olimpiadi: fino ad allora — forse con eccessivo rigore — si poteva essere esclusi per aver vinto in precedenza una gara a premi.
Ha anche alterato, in discipline come il tennis, il giusto equilibrio tra agonismo, sportività e ironia, introducendo sofisticati strumenti tecnici per stabilire se una palla oltrepassa o sfiora una riga del campo. E ha fatto entrare in gioco termini come “acquisto” e “mercato” quando si parla di atleti, cioè di persone.
Ma quando il mercato irrompe nell’agonismo cambiano le regole. E i media seguono a ruota, anche nel modo di trattare lo sport: ma quale sport? Nella società che accetta solo prodotti prestabiliti e facilmente digeribili, discipline meno note, anche se non sempre meno popolari, scompaiono, salvo essere riportate sugli schermi ogni quattro anni proprio dalle Olimpiadi.
Così, bene ha fatto l‘emittente Mtv a dedicare per mesi una serie televisiva — intitolata «Ginnaste, vite parallele» — alla quotidianità delle giovanissime atlete della squadra italiana di ginnastica artistica, in cui si vede quello che normalmente in televisione non passa: la fatica della preparazione continua e costante, le lacrime per un errore o un infortunio, la gioia per una vittoria più o meno importante e prestigiosa.
Noi facciamo il tifo per lo sport: dai mondiali di calcio al badminton, dallo sci per atleti privi di arti al superbowl. Non esistono uno sport per normodotati e uno sport per disabili, proprio perché non ci sono uno sport maggiore e uno sport minore. E soprattutto perché non esistono «persone meno persone» o «sport meno sport» di altri. Di questo i media devono tener conto, per non venire meno alla loro missione.
Le Olimpiadi stanno affascinando miliardi di persone; dovrebbero essere le autorità sportive e i media a tramutarle in un punto di partenza per avvicinare più gente possibile allo sport, e far capire che tutti, ma proprio tutti — anche se non saliremo mai su un podio nella nostra vita — abbiamo affascinanti risorse da offrire agli altri.