Chi è contrario alle bio-tecnologie e all’industrializzazione rimpiange un’inesistente “età dell’oro”. In realtà nei campi un tempo si faceva la fame e il cibo era meno sano
Riccardo Cascioli
Tra le tante favole nate dall’ideologia ecologista, una delle più pericolose è quella che riguarda l’agricoltura, visto che ci va di mezzo un bisogno primario come quello dell’alimentazione. Si racconta dunque che c’era una volta un’agricoltura bella, efficiente, rispettosa dei cicli della natura in cui tutti erano felici mentre ora l’avvento dell’industrializzazione ha distrutto questa armonia, avvelenando i terreni con pesticidi e ogni sorta di veleni chimici, inquinando l’aria con i mezzi meccanici, con agricoltori dediti soltanto allo sfruttamento selvaggio dei terreni e alla tortura degli animali.
E il futuro si prospetterebbe ancora peggiore con l’avvento degli Organismi geneticamente modificati. Un campionario di queste idee si può trovare nel volume-inchiesta di Davide Ciccarese, appena uscito, che già dal titolo (Il libro nero dell’agricoltura, Editrice Ponte alle Grazie, pagg. 268, euro 14) evoca efferati crimini contro l’umanità.
Secondo Ciccarese, ai tempi della bella agricoltura – di cui trova ancora qualche traccia – c’era una sicurezza alimentare che nasceva da un clima perfetto, sempre uguale (grandinate e caldo fuori stagione, che rovinano i raccolti, sono descritti come una novità dovuta agli attuali cambiamenti climatici), le piante non venivano attaccate da parassiti, il lavoro dei campi donava «la giovinezza di chi ha un’età indefinita» (qualsiasi cosa voglia dire), tra il padrone e il salariato non c’era alcuna differenza, e soprattutto a fare la differenza era la felicità dei contadini, il cui segreto era «vivere dello stretto necessario sapendo sfruttare al meglio ogni risorsa disponibile».
C’è da chiedersi se un mondo come quello descritto sia mai esistito. E la risposta è un secco no. La civiltà tanto vagheggiata non aveva nulla di idilliaco, era un’agricoltura che ancora cento anni fa non riusciva a nutrire quel miliardo e mezzo di persone che abitavano il mondo malgrado in questa attività fosse impegnata gran parte della popolazione. Ecco come lo storico Piero Melograni sintetizza questa realtà:
«Nelle civiltà agricole una percentuale elevatissima della popolazione conviveva con l’assillante problema di sfamarsi. Per sfamarsi, fino a pochi decenni or sono, questa umanità doveva zappare, scavare con le vanghe, trasportare pesi sulle spalle, mietere coi falcetti e trebbiare coi bastoni.
La condizione della stragrande maggioranza degli individui finiva per rassomigliare a quella degli animali. In quasi tutte le abitazioni mancava l’illuminazione artificiale. Mancavano i vetri alle finestre. L’acqua doveva essere trasportata manualmente e spesso era inquinata. Mancavano le calzature. Mancava il mobilio e pochi possedevano un vero letto. La promiscuità con gli animali costituiva spesso la regola».
Per non parlare poi dell’alfabetizzazione: nel 1861 il 75% degli italiani non sapeva né leggere né scrivere, i bambini non si mandavano a scuola ma dovevano lavorare duro nei campi – quelli che sopravvivevano, perché la mortalità infantile era altissima – per aiutare la famiglia a vivere. In un secolo di rivoluzione tecnologica, le cose sono cambiate: in Europa l’aspettativa di vita è raddoppiata, la fame è praticamente scomparsa, la fatica fisica si è enormemente ridotta, le masse hanno imparato a leggere e a scrivere, la mortalità infantile tende allo zero.
Anche l’ambiente ci ha guadagnato, perché l’agricoltura intensiva ha voluto dire produrre molto di più con meno terreno: in Italia, dal 1961 al 2000 la superficie agricola totale è scesa da 26,5 a 19,6 milioni di ettari, ben sette milioni di ettari guadagnati che hanno permesso l’aumento della superficie forestale a livelli anche superiori rispetto alla situazione pre-industriale.
E a livello mondiale grazie alla tanto demonizzata Rivoluzione Verde, che ha introdotto nuove varietà geneticamente selezionate e l’uso di fertilizzanti, si è potuto sfamare una popolazione che in un secolo è quadruplicata, evitando carestie ed epidemie che fino a un secolo fa erano la regola.
Certo, i problemi dell’alimentazione non sono tutti risolti, ci sono quasi un miliardo di persone nel mondo che sono sottonutrite, ma il problema non è più la disponibilità assoluta di cibo. Anzi, è proprio questa nuova ideologia che avanza che rischia di farci ripiombare nei «bei tempi andati»: l’ossessione della riconversione all’agricoltura biologica, dei prodotti a km zero, il mito dell’autosufficienza alimentare (ognuno produce per sé), la demonizzazione degli Ogm, l’uso dei prodotti agricoli per produrre carburanti, sta già producendo gravi distorsioni.
Perché significa meno produttività (il biologico rende il 50% rispetto all’agricoltura convenzionale), prezzi più alti e crisi alimentari nei paesi poveri. E questo senza migliorare qualità e salubrità dei cibi.Ci può essere e c’è un uso spregiudicato dei mezzi tecnici che danneggia l’ambiente e alla lunga anche le persone, ma la soluzione non è ritornare a un mondo che non è mai esistito.
Si deve invece andare, come ci dice Giuseppe Bertoni, docente alla facoltà di Agraria dell’Università Cattolica di Piacenza, «verso tecniche soft che implicano minori lavorazioni dei terreni, irrigazione senza spreco d’acqua, minore uso di concimi, diserbanti, antiparassitari». E per questo è necessario anche l’apporto delle biotecnologie.