II parto verginale del Verbo incarnato:
«Non ex sanguinibus…, sed ex Deo natus est» (Gv. 1, 13) *
IGNACE DE LA POTTERIE, S.I.
(Pontificio Istituto Biblico – Roma)
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[a causa della mancanza di idonee font nel sito la grafia delle parole greche può risultare scorretta n.d.r.]
né da volere di carne,
né da volere di uomo,
ma da Dio (egli) fu generato ».
I. STATO DELLA QUESTIONE
1. Non torneremo qui sul problema critico delle due varianti del verbo, perché è già stato ampiamente trattato altrove. (2) Accettiamo l’opinione di molti autori: sia la critica esterna sia quella interna raccomandano di leggere il verbo al singolare. (3) Il versetto, in questo caso, ha un significato direttamente cristologico: quando l’evangelista scrive che, nella generazione del Verbo incarnato non intervenne né il volere della carne né il volere dell’uomo, egli ci da una testimonianza molto precisa sul concepimento verginale di Cristo.
2. Ma che cosa significa allora la prima negazione: «non da sangui»? Questo plurale è strano in tutte le lingue. Nessuna meraviglia quindi se è stato interpretato in modi diversi. Possiamo elencare quattro spiegazioni:
a) Pochi anni fa, J. Galot e J. Winandy (4) pensavano di dover riproporre la spiegazione di sant’Agostino e san Bonaventura: (5) il plurale αίματα indicherebbe il sangue del padre e quello della madre; questi «sangui» mescolandosi causano il concepimento del bimbo. Purtroppo non si può trovare nessun testo per mostrare che una teoria fisiologica così curiosa sia mai esistita nell’antichità (6).
b) Secondo P. Hofrichter, αίματα designa unicamente il sangue della madre. Ma dovremo vedere più avanti quali conseguenze egli ne trae per l’interpretazione del nostro versetto. Inoltre, secondo questo autore, il verbo έγευυήση non significa la generazione eterna e divina del Verbo; sarebbe piuttosto una metafora per indicare la venuta del Logos-Rivelatore nel mondo. (7). Questo ultimo punto ci sembra molto discutibile, perché nel IV vangelo, l’aoristo έγευυήση (σαυ) ha sempre un senso fisico. (8).
c) Noi stessi abbiamo proposto una terza soluzione: έγευυήση si riferisce alla generazione temporale del Verbo incarnato; e il plurale «sangui» è da spiegare in riferimento alle prescrizioni bibliche e giudaiche sulla purità rituale della donna, al momento del parto o della mestruazione: ora, in questo contesto, si usa spesso il plurale «sangui» (dàmim) per parlare del fatto che la donna perde sangue in quelle circostanze.
In Gv 1, 13 dunque, la prima negazione significa che il Verbo incarnato è nato «senza (spargimento di) sangue ». Il versetto pertanto non parla soltanto del concepimento verginale, ma anche della virginitas in partii? Ma questa interpretazione è stata contestata da J. Galot. (10). Esamineremo le sue obiezioni nella terza parte.
d) Nel 1980, F. Salvoni, e nel 1982, J. Winandy e A. Vicent Cernuda — indipendentemente l’uno dall’altro — hanno presentato una quarta interpretazione: il plurale «sangui» non indica né il sangue della donna, neanche quello dei due genitori; ma la formula è una sineddoche per parlare di tutta una serie di persone, cioè «l’ascendenza carnale … la propagazione della specie», (11) ossia la trasmissione del sangue nella serie degli antenati, da una generazione all’altra; secondo A. Vicent Cernuda, «i sangui» significa: «le famiglie, i lignaggi, le razze» (12).
L’intenzione di Giovanni sarebbe simile a quella di Matteo, il quale, alla fine della genealogia di Gesù (Mt 1, 1-17), esclude la paternità carnale di Giuseppe. In Gv 1, 13, quindi, la prima negazione significherebbe che nessuna iscendenza umana ha avuto un ruolo nella generazione terrestre di tristo. Ma c’è una seria difficoltà contro questa spiegazione: i testi citati per illustrarla hanno il termine «sangue» al singolare, e questo termine è ulteriormente specificato (per es., «dal sangue di David»).
Ecco tre esempi:
nella Bibbia greca:
i Gabaoniti erano «del sangue dell’Amorreo»,
έx τοΰ αϊματος τοΰ Δμορραίου.
(2 Sam [2 Bao], 21, 2 in molti manoscritti);
nel N.T.:
«Egli (Dio) da un solo sangue ha fatto uscire tutto il genere umano», έποίησευ έζ έυός αίματος πάυ έδυος άυδρώπωυ.
(At 17, 26, in D e nel textus receptus);
per i testi profani, citiamo un contratto di adozione:
«affinchè sia il tuo figlio legittimo e primogenito, come se ti fosse stato generato dal tuo proprio sangue »,
έξ ίδίου αϊματος γευυηδέυτα σοι
(Papiro Leipz., 28, 15-16).
Ma insistiamo sul fatto che nelle formule di questo genere, che servono a indicare l’ascendenza, la parentela, non si trova il plurale έξ αίμάτωυ (13)
Dopo questa indagine, la conclusione è ovvia. Dobbiamo adesso esaminare più attentamente i due punti sui quali verge la discussione: il senso esatto del verbo έγευυήδη e quello della formula ούx έξ αίμάτωυ, che si riferiscono entrambi alla generazione di Cristo.
II. L’ESPRESSIONE DI 1, 13b: έx δεοΰ έγευυήδη
1. Generazione eterna o concepimento storico?
Se il verbo έγευυήδη viene applicato a Cristo, potrebbe teoricamente essere interpretato in due modi: (14) in riferimento, sia alla generazione eterna del Verbo del Padre, sia alla generazione temporale di Gesù nel seno della Madre-Vergine; alcuni pensano che bisogna prendere insieme questi due significati (15).
Ma diversi indizi fanno vedere che Giovanni pensa qui all’evento storico del concepimento e della nascita di Cristo: la lunga frase di Gv 1, 12-13 si trova tra due versetti che parlano ambedue dell’incarnazione (v. 11: «venne nella sua proprietà»; v. 14: «il Verbo si è fatto carne»); inoltre, l’aoristo έγευυήδη è inserito in una serie di otto verbi all’aoristo (da 1, 11 a 1, 14), che tutti rimandano, almeno genericamente, a quello stesso momento del passato. Questo vale anche per l’aoristo γευυηδείς cristologico di 1 Gv 5,18: l’espressione «colui che è stato generato da Dio» è un richiamo all’incarnazione.
2. Tre obiezioni contro il senso temporale
Nel suo studio recente, A. Vicent Cernuda contesta questa interpretazione, secondo la quale έx δεοΰ έγευυήδη indica la generazione temporale di Gesù. (16) Ecco le sue obiezioni:
a) γευυάω è per antonomasia il verbo che indica l’azione di generare, il che è una funzione dell’uomo; anche quando significa partorire, il verbo contiene un riferimento al padre; ora, nel nostro caso questo è escluso, dato che il concepimento di Gesù è stato verginale.
b) L’espressione έx δεοΰ έγευυήδη se viene applicata alla generazione temporale di Gesù, evoca quasi necessariamente l’idea di una teogamia
c)) Siccome il fatto dell’incarnazione viene solennemente proclamato al v. 14, è del tutto improbabile che la frase precedente anticipi già la stessa idea.
Ma se l’autore respinge l’interpretazione più comune, vediamo come egli stesso intende la finale del v. 13. Si ispira qui a A. Loisy. L’espressione έx δεοΰ έγευυήδη è da spiegare in uno stretto riferimento al v. 12: «Ma a quanti l’accolsero, dette il potere di divenire figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, lui che fu … generato da Dio». Secondo l’evangelista, scrive molto bene A. Loisy,” «si diventa figlio di Dio credendo nel nome di colui che è Figlio di Dio».
I vv. 13-14 non descrivono direttamente il fatto passato della incarnazione, ma piuttosto il mistero stesso dell’Unigenito del Padre, che si è manifestato in Gesù. In altre parole, non si tratta qui del concepimento verginale di Gesù, ma del fatto teologico della divina filiazione di Cristo, che si è manifestato nel Verbo incarnato. Se comprendiamo bene, l’aoristo non rimanda a un momento del passato; è piuttosto una specie di aoristo complessivo, che mette l’accento sull’oggetto centrale della fede cristiana: Gesù è il Figlio di Dio.
Questi due autori fanno osservazioni penetranti; e cercheremo di conservare l’idea di un aoristo complessivo. Nondimeno, gli argomenti che muovono contro l’opinione più comune non sono convincenti.
3. Risposta alle obiezioni
a) II senso di γευυάω.
Non è del tutto esatto che γευυάω significhi per antonomasia generare. Ci sono da fare due restrizioni a questa regola. Anzitutto, il verbo può essere usato per una madre che partorisce (per esempio in Lc 1, 13. 57); è vero che anche allora una allusione al ruolo paterno resta talvolta sensibile: perciò gli evangelisti non usano mai questo verso alle forme attive per Maria, dato che diventò madre rimanendo vergine. D’altra parte — questa è la seconda restrizione — quando il verbo è usato al passivo ( γευυώμαι ), tutta l’attenzione si concentra sul bimbo che è concepito e che nasce (cfr Mt 19, 12; 26,24; Gv 3,4; 9,2.19; 16,21; At 2,8; 7,20; 22,3.28).
Pertanto, quelle forme verbali possono essere usate per Gesù, senza che questo implichi che sia intervenuto un padre umano (cfr Mt 1, 20: τό … έυ αύτή γευυηδέυ; Lc 1, 35; Gv 18, 37). Niente quindi si oppone al fatto che anche il passivo γευυηδέυ di Gv 1, 13 significhi la generazione o il parto temporale di Gesù, tanto più che le parole έx θεοϋ indicano chiaramente che il «generare» non è dovuto a un uomo, ma a Dio.
b) Una formula ierogamica?
È ancora più difficile essere d’accordo con l’autore quando afferma che la finale del v. 13, applicata alla generazione temporale di Gesù, farebbe pensare a una «generazione tèogamica». Questo viene semplicemente affermato, ma in nessun modo documentato.
1. A sostegno di questa tesi, però, si potrebbe forse citare un testo dello Pseudo-Callistene, nella sua vita romanzata di Alessandro: per parlare dell’origine divina dell’eroe, il re di Macedonia, Filippo, dice alla sua moglie Olimpiade, la futura madre di Alessandro: «da un dio hai concepito un figlio» έx δεοϋ γευυήσασα παϊδα , I, 9, 2). (18) Ma il verbo è attivo (in Gv, invece, è al passivo).
Quando si legge tutto il contesto del brano indicato, si vede che si tratta di una vera ierogamia, cioè dell’accoppiamento di una donna con un dio (Ammone), descritto in termini abbastanza realistici. Però, l’espressione usata dallo Pseudo-Callistene per descrivere la nascita di Alessandro è veramente unica nel mondo greco; (19) fa parte di una compilazione tardiva, fatta da un Alessandrino, probabilmente nel III secolo d.C., almeno un secolo dopo Giovanni, nel tempo del sincretismo ellenistico (20).
Il vocabolario abituale per parlare delle ierogamie era del tutto diverso. (21) Si può dire che la formula di Giovanni (un secolo prima) è senza paralleli. Anche nella Bibbia si trova solo nei suoi scritti (cfr un altro uso in 1 Gv 5, 18: ό γευυηδείς εx τοϋ δεσϋ). Se l’evangelista ha coniato una espressione nuova, viene dal fatto che doveva parlare di una realtà nuova, unica nel senso più assoluto: la generazione umana del Figlio di Dio, rivelata agli uomini.
2. Anziché domandarci in un modo astratto come l’espressione έx δεοϋ έγευυηδυ avrebbe potuto essere compresa nel mondo ellenistico, vediamo piuttosto come fu interpretata in realtà nella prima tradizione cristiana. Si vedrà che queste parole non avevano niente di ambiguo per i Padri. Per mostrarlo, esaminiamo la preziosa raccolta di testi che troviamo nel libro di P. Hofrichter (22).
Per spiegare l’espressione giovannea «fu generato da Dio», i Padri del secondo e del terzo secolo hanno usato due metodi diversi. Gli uni hanno sostituito alla parola δεοϋ di Giovanni il termine δύυαμις di Lc 1, 35 o πυεύματος di Mt 1,20. Questo procedimento si trova nelle opere di Giustino, Origene, Tertulliano e Metodio di Olimpo. (23) Citiamo due esempi. In un commento molto bello di Mt 1, 18, Origene scrive:
«La sua nascita ( γέυυησις ) fu doppia, secondo la nostra natura ( xαδ ήμάς ) e al di sopra di essa ( ύπέρ ήμάς ): egli è nato “da una donna” secondo la nostra natura; ma era sopra la nostra natura ch’egli nascesse, “non da un volere di carne, né da un volere d’uomo”, ma dallo Spirito Santo; così egli proclamava anticipatamente la nostra futura rigenerazione di cui voleva gratificarci dallo Spirito » (In Matthaeum, framm. 11: GCS, Origenes, 12/1,20).
Ed ecco un testo di Metodio di Olimpo, che raggruppa i tre termini usati da Matteo, Luca e Giovanni:
«II corpo di Cristo non fu formato “da volere di carne” …, ma “dallo Spirito Santo ( έx πυεύματος άγίου ) e dalla potenza dell’Altissimo” ( δυυάμεως ύψίστου ) e dalla vergine » (De resurrectione, 1,26, 1: GCS, 27,253,12-15, Bonwetsch).
Altri spiegavano έx δεού del testo di Giovanni introducendovi la parola δέλημα (voluntas o placitum) che trovavano nella prima parte del versetto. Così fanno l’Epistula Apostolorum, Giustino, Origene, Ireneo e Tertulliano. (24). Leggiamo la parafrasi di Ireneo:
«”Non da volere di carne, né da volere di uomo”, ma dal volere (ex voluntate) “di Dio”, il Verbo si è fatto carne » (Adversus haereses, III, 16, 2: PG, 7/1, 921 C — 922 A); «Ex placito Patris » (V, 1,3: 1123 B).
Non c’è dubbio: per tutti questi autori, l’espressione έx δεουϋ έγευυήδη indica il momento dell’incarnazione; e non risulta da nessun indizio che i Padri avrebbero minimamente sospettato che le parole di Giovanni potevano essere comprese nel senso di una ierogamia.
3. Rispetto all’inserimento di δέλημαin Gv 1, 13b, dobbiamo rispondere a una difficoltà di A. Vicent Cernuda: per evitare, egli dice, «la crudezza teogamica della formula», (25) Giovanni avrebbe dovuto inserire di nuovo, alla fine del versetto, la parola δέλημαin ch’egli aveva già scritto nella prima parte.
Questo non ci sembra esatto per due motivi. In primo luogo, come abbiamo già detto, non è vero che le parole «fu generato da Dio» avevano una risonanza ierogamica, siccome non erano in uso nella lingua sacra del mondo greco. Inoltre, se supponiamo che Giovanni voleva insistere sul fatto che la generazione di Cristo era dovuta alla volontà di Dio e non a un atto generatore in senso fisico, non era praticamente possibile dire «fu generato da volere di Dio», perché nella prima parte del versetto il termine δέλημα (volere) indicava precisamente il desiderio carnale (26).
Se avesse ripetuto la stessa parola nella parte positiva del versetto, allora sì, avrebbe creato un pericoloso equivoco! Non è dunque l’omissione, è piuttosto l’inserimento di δέλημα davanti a che avrebbe potuto far pensare a una generazione divina di tipo ierogamico (27).
Si può obiettare: diversi Padri hanno usato l’espressione «fu generato dal volere di Dio». Ma per loro non c’era equivoco, perché non sembra che si siano accorti del fatto che, all’inizio del versetto, il termine δέλημα aveva un senso speciale, cioè una risonanza chiaramente sessuale. Dato che comprendevano la parola δέλημα nel senso ordinario di volontà, i Padri non avevano nessuna difficoltà per utilizzarla di nuovo quando parlavano di Dio.
c) II parallelismo tra il v. 13 e il v. 14.
Questi due versetti sono strettamente legati, particolarmente con il xαί che apre il v. 14. È l’unico xαί all’inizio di un versetto in tutto il prologo. Di solito, i commentatori non ne parlano. Deve però avere un senso: esso mostra che l’autore, nel v. 14, continua a sviluppare il tema che aveva già trattato nella lunga frase dei vv. 12-13.
La migliore soluzione è di considerarlo come un xαί causale o esplicativo. Equivale più o meno a una affermazione enfatica, che spiega e rafforza ciò che era stato detto. «Sì, il Verbo si è fatto carne … ». (28) E’stato obiettato che, se al v. 14 l’autore parla dell’incarnazione, non è possibile che ne parlasse già nella frase precedente. (29).
Perché no? Non dobbiamo dimenticare le regole del parallelismo biblico. Quando due membri sono paralleli, il secondo non è una semplice ripetizione del primo. Di solito riprende lo stesso tema, ma da un punto di vista diverso. In questo caso c’è chiaramente un progresso da una frase all’altra: al v. 13, l’incarnazione è considerata dal punto di vista di Cristo e del Padre: «egli (il Verbo venuto tra noi) fu generato da Dio»; al v. 14, Giovanni ne parla rispetto agli uomini: i testimoni («noi») hanno potuto «contemplare la sua gloria», la gloria «del Figlio unigenito venuto da presso il Padre, pieno della grazia della verità»; e al v. 16, l’autore aggiunge: «dalla pienezza di lui, noi tutti abbiamo ricevuto». Con queste risposte alle tre obiezioni, ci sembra di poter mantenere il senso temporale di έγευυήδη.
4. Interprelazione di έx δεοΰ έγευυήδη.
II v. 13 contiene un solo verbo, έγευυήδη. Ma questo è preceduto da quattro determinazioni, tre negative e una positiva. Le prime tre sono di un tale realismo che devono essere comprese in senso fisico; questo vale anche per il verbo di cui sono la spiegazione. Ma lo stesso verbo fa anche parte dell’espressione positiva alla fine del versetto. Il verbo έγευυήδη non può avere un senso diverso secondo le determinazioni che lo accompagnano; pertanto c’è anche qui un riferimento all’incarnazione. Ma è vero che l’accento non cade più sull’aspetto umano dell’evento (il concepimento verginale e la nascita verginale), ma sull’azione di Dio nel concepimento storico del Verbo fatto carne.
È anche vero, come lo faceva notare A. Loisy, che l’attenzione non si concentra più sul momento storico dell’incarnazione. Se Giovanni ci spiega come Gesù è stato concepito e come è nato, è soltanto per farci comprendere chi egli sia, cioè: «il Figlio unigenito venuto da presso il Padre» (v. 14). In questo senso, come si diceva sopra, si può ammettere che έγευυήδη prende qui l’aspetto di un aoristo complessivo. Questo senso globale sarà ancora più fortemente sottolineato nel dialogo di Gesù con Pilato (18,37): qui il verbo è utilizzato al perfetto ( γεγέυημαι ), perché Gesù vuole insistere sulla sua presenza rivelatrice nel mondo ( έλήλυδα είς τόυ xόσμου ΐυα …)
Per concludere questa seconda parte, facciamo ancora due precisazioni. Se diciamo che έγευυήδη indica la generazione temporale del Verbo del Padre, è anche vero che «generare» ha qui un senso soltanto analogico. Rispetto all’uomo Gesù, Dio non funge da padre in senso fisico. Qui sta tutta la differenza tra la generazione divina nell’incarnazione secondo il cristianesimo, e l’unione sessuale di un dio con una donna nelle ierogamie pagane.
Non senza ragione, i Padri preniceni (30) introducevano nella formula di Gv 1,13 il termine «volontà» oppure sostituivano la parola «Dio» con «potenza» o «Spirito Santo»; in questo modo, dice P. Hofrichter, volevano «indicare la forza creatrice di Dio che operava il miracolo dell’incarnazione da una vergine» (31). Lo spiega molto bene anche J. Ratzinger: «La concezione di Gesù è una nuova creazione, non una generazione da parte di Dio. Pertanto, Dio non diventa suppergiù il padre biologico di Gesù» (32)
Il vero senso della generazione di cui parla il v. 13 è indicato nel versetto seguente: era di rendere presente tra noi e di rivelare «il Figlio unigenito venuto da presso il Padre». E questo ci fa passare alla nostra seconda osservazione: lo stretto legame tra i vv. 13 e 14 è importante dal punto di vista teologico.
Contrariamente a ciò che si dice talvolta oggi, (33) la paternità di Dio e la divina figliolanza di Gesù implicano ch’egli non ha avuto un padre umano; se Gesù, il Verbo fatto carne, era il Figlio unigenito di Dio (v. 14), questo doveva lasciare qualche traccia nella storia, doveva manifestarsi con qualche segno nel modo in cui si svolgeva la sua nascita terrestre (cfr il xαί causale di 1, 14): questo segno era il non-intervento di un padre umano nell’incarnazione dell’Unigenito, perché aveva Dio come Padre; dal punto di vista della madre, questo segno era il concepimento verginale (v. 13: ούδέ έx δελήματος άυδρός), rna anche, come diremo subito, il parto verginale (34).
III. LA PRIMA NEGAZIONE DI 1, 13a: «NON DA SANGUI»
Arriviamo adesso alla parte più difficile della nostra trattazione. Per procedere sistematicamente, ricordiamo le tre interpretazioni proposte finora per l’espressione «non da sangui», da coloro che accettano la lettura cristologica del versetto, ossia col verbo al singolare ( έγευυήδη ).
Per gli uni, la formula «i sangui» significa l’ascendenza carnale; per altri, il plurale indica l’unione del sangue del padre con quello della madre; altri ancora pensano che si tratti soltanto del sangue della madre; ma qui, come vedremo, bisognerà ancora distinguere diverse possibilità. Esaminiamo l’una dopo l’altra queste tre interpretazioni
1. «I sangui» dell’ascendenza carnale?
Partiamo da un fatto assolutamente certo: il termine sangue, in greco, può significare «vincoli del sangue, parentela, razza »; così per esempio nell’espressione «il sangue e la razza», αϊμά τε xαί γέυος , (35) e per indicare l’ascendenza di qualcuno, si può dire: «egli è del sangue di», έζ αϊματος (36). Ma in questi casi, la parola sangue viene praticamente sempre usata al singolare, non come in Gv 1, 13.
Tuttavia, sono stati citati due testi in cui si legge il plurale. L’uno è un passo ben noto dell’Ione di Euripide: l’eroe era stato, si dice, «nutrito ( = formato) da sangui stranieri», άλλωυ τραφείς έξ αίμτωυ (37). Ma dobbiamo cercare di chiarire se questo plurale designa i «genitori adottivi», come pensa J. Winandy, o soltanto la madre (38).
L’analisi del contesto mostra che non ci può essere nessun dubbio: Ione era nato da un’unione segreta tra Creusa e Apollo; dopo la sua nascita, fu portato a Delfi ed educato dalla profetessa, la quale fu per lui una madre (v. 321). Ma egli non sapeva ancora chi fossero veramente i suoi genitori (v. 313).
Prima della scena drammatica in cui il figlio riconosce la madre, il coro rivolge ad Apollo questo lamento: «Da dove viene questo fanciullo educato nel tuo tempio? Chi tra le donne è la sua madre?… Tutto è inganno e sorte in questo ragazzo, formato da sangui stranieri» (vv. 683-693). Questi «sangui stranieri» sono in realtà quelli di Creusa, la vera madre d’Ione, ch’egli però non conosce ancora.
Questo è confermato dall’uso del verbo τραφείς (da τρέφω nutrire, formare; letteralmente: rendere spesso, compatto): quindi, non si tratta qui né di discendenza né del concepimento né del parto, ma della teoria greca di cui daremo altri esempi più avanti, secondo la quale l’embrione, nel seno della madre si nutre del suo sangue. Ma perché c’è il plurale «sangui»?
Si spiega forse dall’incertezza che c’è ancora: chi tra le donne greche è la madre del ragazzo? «Da sangui» nel v. 693 è un plurale distributivo, un’eco del plurale «chi tra le donne» del v. 684. Il testo allude quindi al sangue di una di queste donne, la madre d’Ione, durante la gestazione del suo bimbo, e non ha niente a che fare con l’ascendenza in genere, ossia con la trasmissione del sangue da una generazione all’altra.
Un altro esempio del plurale è un testo del poeta alessandrino Licofrone (2° sec. a.C.?): egli parla di due eroi, Tarconte e Tirreno, i figli di Telefo, il quale era il figlio di Eracle (Èrcole); erano quindi «discendenti dai sangui di Eracle», έx τώυ Ήραxείωυ έxγεγώτες αίμάτωυ (39). Qui senza dubbio si tratta di un’ascendenza.
Il plurale αίμάτωυ come nel testo di Euripide, è probabilmente dovuto al fatto che si tratta qui di più persone, non però in rapporto alla madre (cfr Euripide), ma ai figli: al plurale dei soggetti, «Tarconte e Tirreno, lupi ardenti» (v. 1248), fa seguito, al versetto seguente, il plurale distributivo per la generazione di ciascuno di loro: tutti i due erano «dai sangui di Eracle». Ma se è così, il senso dell’espressione è lo stesso che nell’espressione corrente εξ αϊματος ambedue erano del sangue di Eracle, cioè i suoi discendenti.
Un altro punto deve essere notato: in tutti i casi citati in cui εξ αϊματος designa l’ascendenza, si pensa sempre al sangue paterno, (40) e l’espressione viene specificata (p. es. col nome). Sono rari i testi (p. es. Euripide, Baccanti, 989) in cui έξ αϊματος indichi l’ascendenza in riferimento alla madre. Pertanto e molto improbabile la nuova esegesi che è stata proposta per ούx έξ αίμάτωυ di Gv 1, 13 (essa dice che verrebbe negata qui per il Verbo incarnato ogni ascendenza carnale), dato che secondo l’uso della formula con si dovrebbe pensare allora all’ascendenza paterna.
Ora questa sarà esplicitamente esclusa nella terza negazione: «non da volere di uomo». La prima negazione quindi non significa lo stesso, deve avere un altro senso: (41) come diremo nel terzo paragrafo, deve trattarsi qui del sangue della madre. Ma esaminiamo prima un’altra spiegazione.
2. «I sangui» del padre e della madre?
Come si sa, era la spiegazione di sant’Agostino, ripresa nel nostro tempo da alcuni autori, tra cui J. Behm e J. Galot: «il rarissimo plurale indica un duplice sangue, quello del padre e quello della madre, che, fondendosi, generano una nuova vita » (42).
II grande inconveniente di questa spiegazione sta in questo che non è appoggiata da nessun testo antico. Perciò rimane vero ciò che H. J. Cadbury scriveva già cinquant’anni fa: i commentatori moderni hanno fatto bene a respingerla (43). J. Galot ha cercato di provare questa teoria con un ragionamento: da una parte, egli dice, il sangue può indicare l’origine materna; ma questo, egli lo afferma senza nessun argomento; (44) d’altra parte «essere del sangue di» indica l’ascendenza paterna, il che è vero; (45) e l’autore conclude subito: il plurale «i sangui» designa questa duplice origine.
Ma è risaputo che, quando una delle premesse di un sillogismo non vale, anche la conclusione è priva di valore. Del resto è molto dubbio che si possa determinare il valore semantico di un’espressione poco comune, solo con un ragionamento. Aggiungiamo ancora un’altra difficoltà: se fosse vera questa spiegazione di Gv 1, 13, si escluderebbe due volte la funzione del padre in questo versetto, nella prima negazione («non dai sangui») e poi nella terza («non da volere d’uomo»), il che sarebbe piuttosto strano.
Nella prima negazione, si parlerebbe del padre e della madre, ma nella terza, solo del padre. Sarebbe una presentazione delle cose molto paradossale.
Perciò dobbiamo concludere che, nell’espressione ούx έξ αίμάτωυ di Gv 1, 13, è del tutto improbabile che si possa vedere un’allusione ai «sangui» del padre e della madre.
3. «I sangui» della madre: sfondo dell’espressione
Nel mondo semitico e nel mondo greco, si parlava spesso del sangue della madre a proposito della generazione o del parto. I tre lavori fondamentali sulla questione sono un articolo di H. J. Cadbury nel 1924, l’opera già citata di P. Hofrichter e un libro recente di M. Perrin (1981), sull’antropologia antica. (46). Ma i materiali raccolti da questi autori ci obbligano a distinguere ulteriormente l’ambiente greco, ellenistico e romano da una parte, e la tradizione biblico-giudaica dall’altra.
a) II mondo greco-romano Vediamo in primo luogo quali siano state le concezioni fisiologiche degli antichi in questo ambiente e quale applicazione si è voluto farne al modo di parlare di Giovanni nel nostro versetto.
1. L’essenziale di quelle convinzioni si può compendiare in poche parole. L’embrione umano viene formato nel seno materno con la congiunzione del seme del padre e del sangue della madre, quello dei mestrui. Secondo Filone, questo sangue forma la sostanza corporale dell’embrione (47). Coagulandosi, diventa consistente e si trasforma nella carne del bimbo. Citiamo due testi che presentano bene questo processo. Il primo, del libro della Sapienza, descrive la generazione e la nascita di Salomone:
«Nel seno della madre fui formato di carne, in dieci mesi condensato nel sangue ( παγείς έυ αϊματι ), col seme virile e dal piacere che viene col sonno » (Sap 7, 1-2).
L’altro testo è dell’esegeta bizantino Teofilatto, nel suo commentario di Giovanni. A proposito di Gv 1, 13 egli scrive:
«Egli (l’evangelista) dice: “Non sono nati dai sangui”: si tratta, è ovvio, (del sangue) dei mestrui; da questi sangui l’embrione si nutre e cresce» (In Johannem, ad 1, 13: PG, 123, 1154 A). (48).
2. H. J. Cadbury e P. Hofrichter vogliono spiegare l’espressione di Gv 1, 13a prendendo queste teorie come punto di riferimento: quel versetto, dicono, mette un forte contrasto tra la generazione umana e quella divina. L’espressione ούx έξ αίμάτωυ quindi vorrebbe dire che, nella generazione di Cristo, che è da attribuire a Dio, è completamente esclusa la funzione materna (49).
Pertanto, le tre negazioni del versetto escluderebbero non solo l’intervento di un padre, ma anche quello di una madre. Giustamente P. Hofrichter conclude che questa negazione della reale maternità di Maria verso il Verbo incarnato metteva gravemente in pericolo gli interessi dogmatici fondamentali della Chiesa antica (50).
Questo è verissimo, ma solo nell’interpretazione or ora proposta. Infatti, diversi Padri che leggevano così il versetto, erano imbarazzati davanti alle parole «non dai sangui», le quali sembravano dire che Gesù non era nato dal sangue di Maria. Questa era la convinzione dei doceti: era inconciliabile con la fede cristiana nell’incarnazione (51).
I Padri se la cavavano, omettendo la prima negazione quando citavano il versetto. Ma è chiaro che non era la buona soluzione: anziché cambiare l’espressione di Giovanni, bisognava cercare di interpretarla,
3. Ora, contro questa opinione dei doceti, riproposta oggi dagli autori citati, ci sono obiezioni molto forti. Prima, è impossibile che l’evangelista abbia voluto escludere qui il ruolo materno di Maria, dato che egli stesso la nomina di solito col titolo «la madre di Gesù» (2,1.3.5.12; 19,25.26).
L’altra difficoltà è di tipo filologico: secondo l’interpretazione proposta, il termine αϊματα designerebbe qui il sangue inferiore al seno materno, quel sangue in cui gli antichi pensavano che si formasse e si nutrisse il corpo del bimbo. Perciò H. J. Cadbury dice che έξ αίμάτωυ qui equivale a έυ αϊματι di Sap 7, 2. (52).
Ma questa affermazione è del tutto arbitraria, perché tra il testo sapienziale e il versetto giovanneo ci sono differenze importanti: Giovanni adopera la preposizione έξ («fuori di») e non έυ («in»); non vuoi dunque parlare del periodo di formazione del bimbo nel seno della madre; la sua intenzione è di dire da dove viene, da dove è uscito al momento della sua nascita ( έξ … έγευυήδη ). Inoltre, non c’è έξ αϊματος , ma il plurale. Insistiamo su questo punto, perché nei testi su cui si fondano questi autori, il termine «sangue» si trova sempre al singolare (53).
Trascurare queste differenze è un errore metodologico. Perciò i testi ellenistici sulla formazione del bimbo nel sangue materno non sono veri paralleli, e non possono servire a interpretare il nostro testo. Non era quindi fondato il timore di alcuni Padri, e cioè che le parole ούx έξ αίμάτωυ escluderebbero il ruolo materno di Maria nella formazione del corpo del suo figlio. La negazione ha un senso diverso. Per trovarlo, si dovrà cercare in un’altra direzione qual è lo sfondo culturale e letterario del versetto.
b) La tradizione biblico-giudaica
Partiamo dal fatto sul quale abbiamo già insistito e che non è tenuto in debito conto dai commentatori: Giovanni usa qui il plurale insolito «sangui». Dove si trovano esempi di questo modo di esprimersi?
1. È risaputo che, nella Bibbia e nel giudaismo nonché nel mondo greco, l’espressione «i sangui» indica spesso il sangue sparso con un’uccisione violenta, per esempio una guerra o un massacro. (54) Ma questo non ci aiuta a spiegare Gv 1, 13, dove non si tratta di morte, ma di generazione e di nascita. Ciò che invece è molto interessante per noi è il fatto che, nella tradizione biblica e giudaica, e solo là, il plurale «sangui» viene usato anche per parlare di due circostanze precise nella vita sessuale della donna: il parto e la mestruazione. Osserviamo che anche qui si tratta del sangue sparso.
I testi più importanti per noi sono le prescrizioni levitiche sulla purezza rituale della donna in occasione del parto e dei mestrui. Nell’ A.T. ebraico, due volte nel Levitico (12,4.7) e due volte in Ezechiele (16,6.9), viene usato il plurale «sangui» (dàmìm) per parlare della perdita di sangue della donna che partorisce; in un altro testo, il plurale designa il flusso di sangue dei mestrui (Lv 20, 18).
La differenza con l’uso precedente è manifesta: nei testi del mondo greco, si trattava della lunga formazione dell’embrione nel seno della madre; qui invece, i testi parlano del sangue sparso nelle due circostanze indicate: questo sangue rendeva la donna ritualmente impura. Perciò c’erano le prescrizioni del Levitico (12, 7) per la donna che aveva partorito: doveva «essere purificata dal suo flusso di sangue» (letteralmente: dalla sorgente dei suoi sangui).
2. Alla luce di questa tradizione biblica e giudaica, si può precisare il senso della formula giovannea ούx έξ αίμάτωυ … έγευυήδη , applicata al Verbo incarnato. Significa che egli è nato «non da sangui», cioè senza effusione di sangue materno. Pertanto, l’evangelista non nega che Cristo sia stato formato nel seno della madre, non nega che egli sia stato partorito come ogni altro bimbo; egli vuoi dire soltanto che, in questo caso, il parto non fu accompagnato con uno spargimento dì sangue (54bis).
Dei tre membri negativi del versetto, ciascuno ha un valore specifico: la terza negazione esclude l’intervento di un uomo nella concezione del Verbo incarnato (è ciò che verrà chiamato più tardi la virginitas ante partum); nella prima negazione, Giovanni dice che il parto stesso si svolse senza quella lesione corporale che di solito provoca una perdita di sangue (è la virginitas in partu). In questa interpretazione si deve dire che Giovanni parla sia del concepimento verginale quanto della nascita verginale del Verbo fatto carne.
3. Contro questa spiegazione, J. Galot ha mosso due obiezioni. La prima è che la preposizione έx , non indica il modo di nascere (cioè: la nascita senza lesione corporale), ma l’origine; per lui, questo risulta chiaro dalla triplice ripetizione della preposizione nel resto del versetto: «Non si può sostenere, egli dice, che il sangue della madre che si spande alla nascita ha per effetto che il bimbo nasca da questo sangue. Egli nasce in questo sangue, secondo l’espressione di Ezechiele (cfr 16,6. 9). Nascere in questo sangue non è nascere dal sangue della madre. Non si possono confondere le due espressioni, soprattutto in un testo dove l’origine è così deliberatamente sottolineata» (55).
Ma precisamente il parallelismo della formula con quella di Ezechiele non c’è: il profeta non usa l’espressione «nascere nel sangue», e nemmeno «nascere dal sangue» (o: dai sangui); inoltre nel suo discorso simbolico non descrive il parto del bimbo che rappresenta Israele, ma il tempo successivo alla nascita, la situazione ripugnante del trovatello, che «si agitava nel suo sangue» (16,6.22). Si tratta qui del bimbo dopo la nascita, non nel momento stesso del suo parto, come in Giovanni.
Ed ecco la seconda obiezione: nella nostra interpretazione del v. 13, il verbo γευυήδη è preso sia nel senso di «essere generato» sia in quello di «essere nato», a seconda del complemento che lo determina.
Questo è vero, ma non dovrebbe fare difficoltà. Purtroppo, l’autore ignora la risposta che abbiamo già dato a questa obiezione: (56) concepimento e nascita sono il primo e l’ultimo momento di un ciclo unico e continuo di nove mesi; ora, l’insieme di quel periodo può essere designato con l’uno o con l’altro dei due termini (che di per sé indicano o l’inizio o la fine); anzi, nella stessa frase l’unico verbo «nascere» o «partorire» può riferirsi insieme alla generazione e al parto, così per esempio nell’antica formula di fede del simbolo della chiesa di Roma: «natus est de Spiri tu Sancto ex Maria Vergine », (57) dove natus est designa, globalmente, tutto il processo dell’incarnazione; però, a rigor di termini, quando si tratta dello Spirito, dovrebbe essere tradotto «fu generato dallo Spirito Santo»; in relazione a Maria, può significare soltanto «è nato da Maria vergine» (nove mesi dopo).
Come si vede, natus est designa allo stesso tempo il concepimento e la nascita. Così anche nel nostro caso: έγευυήδη indica contemporaneamente il concepimento (la generazione) e il parto (la nascita), secondo la determinazione che accompagna il verbo (58).
4. L’obiezione già formulata da J. Galot è stata ripresa adesso in un modo più insistente da J. Winandy: «l’espressione ex haitna-tón (…) non può evidentemente — malgrado l’uso più frequente del plurale — riferirsi a uno spargimento di sangue: come mai un fatto del genere potrebbe essere considerato come la causa o una delle cause di una nascita qualunque?». (59)
Ma questo è un modo di ragionare astratto, che non tiene conto dei fatti letterari. L’autore dimentica che έγευυήδη, l’unico verbo del versetto, è polivalente, dato che designa simultaneamente la nascita e il concepimento (umano e divino). Questa unificazione stilistica della frase e il movimento ritmico insistente dei quattro membri ( ούδέ έξ … ούδέ έx … ούδέ έx … άλλ’ έx …) implica la ripetizione dello stesso έx per ciascun caso, benché ovviamente siano abbastanza diversi. (60).
La preposizione non indica semplicemente la «causa», come lo suppone J. Winandy; ha un altro senso nelle singole formule: davanti a αίμάτωυ si riferisce al sangue che esce dalla madre nel parto; davanti a δελήματς υδρός, indica l’intervento attivo del padre in ogni normale concepimento; davanti a δεοϋ , descrive l’azione trascendente creativa di Dio, nella concezione temporale del Verbo incarnato.
Nel primo caso, è chiaro, l’autore non vuoi dire che l’effusione del sangue era la causa della nascita; ma, dato che il sangue sparso viene dalla madre, è certo che il «nascere da donna» (cfr Gai 4, 4) implica anche il «nascere dai sangui (della donna)»: (61) questo sangue era nel seno della partoriente; ma quando esce insieme col bimbo, si può dire che questo nasce «dai sangui» della madre.
4. «Non da sangui»: esegesi della prima negazione di Cv 1, 13
Cerchiamo adesso di spiegare in un modo positivo e articolato questa formula giovannea ούx έξ αίμάτωυ … έγευυήδη.
Anzitutto è necessario sottolineare il fatto che per questa espressione non esiste nessun parallelo esatto. Certo, l’abbiamo visto, si trovano molti testi che descrivono l’ascendenza carnale con una espressione simile alla nostra ( έξ + genitivo), ma col sostantivo αϊμα al singolare, e con riferimento al padre (62).
D’altra parte, il plurale «sangui» veniva usato nella tradizione giudaica per parlare del sangue materno effuso nel parto, non però col verbo «essere generato» o «essere nato», come nel testo di Giovanni. Ciò che è nuovo e propriamente giovanneo è la congiunzione dei due elementi presi insieme: «nascere da o» ( έξ col genitivo di αϊμα , e col verbo έγευυήδη e il plurale «sangui».
Dato che il plurale «sangui» si riferisce al parto (e dunque al sangue della donna) e dato che il primo elemento indica l’ascendenza, in questo caso si tratta della nascita. Mettendo insieme questi due elementi, ambedue ben documentati, arriviamo alla spiegazione che abbiamo indicato: Giovanni vuoi parlare qui non del concepimento, ma della nascita del Verbo incarnato; la negazione «non da sangui» significa quindi che, quando fu partorito dalla sua madre, non ci fu spargimento di sangue: era un parto verginale.
Questa interpretazione abbastanza nuova (63) sembrerà forse un po’ audace. Ma per appoggiarla, vorremmo apportare adesso tre serie di considerazioni convergenti.
a) Indicazioni della tradizione
1. Non è stato sufficientemente osservato che le parole έξ hanno avuto una larga eco nella tradizione patristica. Il fatto che è stata ripresa una formula così inconsueta, proprio in relazione all’incarnazione, fa pensare che si tratta probabilmente di una trasmissione inconscia dell’espressione di Gv 1,13 (in Lv 12,4.5.7, infatti, dove l’ebraico aveva tre volte il plurale «sangui», i LXX usano il singolare: έυ αϊματι [bis], άπό πής πηγής τοϋ αϊματος ).
Ma è ugualmente significativo che la tradizione cristiana, quando applicava a Maria il plurale «dai sangui», ha introdotto nel testo giovanneo un triplice cambiamento: a) la formula negativa e indeterminata «non da sangui», è rovesciata, e diventa positiva e determinata («dai sangui»), probabilmente per scartare la posizione dei doceti, secondo la quale Gesù non era nato dal sangue di Maria; b) con un paradosso filologico di cui non sembrano nemmeno rendersi conto, questi autori conservano la formula primitiva con έξ senza applicarla però al concepimento o al parto, ma al tempo intermediario della gestazione nel seno materno; cioè scrivono έξ ma (seguendo la teoria tradizionale del mondo greco) interpretano come se leggessero έυ, e dicono che si tratta della formazione del bimbo nel sangue della madre; però, ci si ricorderà che l’espressione corrente per dire questo non era έξ αίμάτωυ, ma έυ αϊματι ; (64) c) insistono molto sul carattere puro e verginale di quella gestazione, il che sembra dimostrare l’origine levitica del tema, ma anche la reinterpretazione cristiana di quella purità rituale.
Anche noi cercheremo di ritenere l’intuizione di questa antica tradizione: nel processo dell’incarnazione, la Madre del Verbo incarnato, infatti, è rimasta pura e vergine. Però, anziché connettere la verginità col periodo della gestazione, come fanno stranamente questi autori, la metteremo in relazione col momento anteriore della concezione, ma anche con quello posteriore del parto, come lo suggerisce il testo.
Citiamo in traduzione due esempi di questo uso tradizionale, uno nella patristica greca, l’altro nella tradizione latina. Altri testi si trovano in nota (65).
Secondo Cirillo d’Alessandria, il corpo di Cristo fu formato senza desiderio carnale, senza passione; e prosegue così:
«La coagulazione ( σύμπηξις ) del suo corpo si fece da sangui purissimi e verginali ( έx παυάγυωυ αίμάτωυ παρδευιxώυ ), il parto si fece senza dolori e senza macchia per la verginità della partoriente » (De Trinitate, 14: PC, 11, 1152 A).
Nel Medioevo, si ritrova ancora una formula molto simile presso san Tommaso, che cita il Damasceno (De Fide orthodoxa, III, 2):
«Ecco perché si dice che il corpo di Cristo “è stato formato dai castissimi e purissimi sangui della Vergine” » (Stimma theologica, III, 31,5, ad 3) (66).
L’interesse di tali testi è che riferiscono il plurale «sangui» alla madre di Gesù. Senza dubbio sono di una ortodossia ineccepibile; però, come si vede, è stata modificata sostanzialmente l’espressione di Giovanni: «non ex sanguinibus» è diventato il suo contrario, έξ αίμάτωυ ex sanguinibus; e questa formula non viene più riferita al momento del parto, ma al tempo della gravidanza.
Perciò, un tal modo di leggere il testo, ispirato certo da un lodevole desiderio di evitare il docetismo, non può corrispondere al vero senso della formula giovannea. Pertanto, ripetiamo anche qui: non c’è da temere che l’espressione negativa del prologo, «non da sangui», significhi che Gesù non è stato formato dal sangue di Maria, durante i mesi in cui lo portava in grembo, poiché il plurale che accompagna la preposizione έξ («da»), insieme col verbo έγευυήδη fa pensare a un momento ulteriore, quello dove il bimbo esce dal seno materno, cioè il momento della nascita, il quale normalmente è accompagnato da uno spargimento di sangue.
Con la formula negativa ούx έξ αίμάτωυ … έγευυήδη , è proprio questa perdita di sangue che è esclusa dall’evangelista nella sua descrizione del parto di Gesù.
2. A favore di questa interpretazione, vorremmo adesso, partendo ancora dalla tradizione patristica, presentare non più solo tracce più o meno probabili della formula giovannea «da sangui», ma il suo uso preciso: si tratta di un testo importante di Ippolito, che è quasi un commento a Gv 1, 13. Come si sa, Ippolito era uno dei testimoni della lettura cristolagica del versetto giovanneo (cioè col verbo al singolare).
Anche egli rovescia la formula; però a differenza degli autori precedenti, egli la applica, senza la negazione, all’eretico Simone Mago, per metterlo in contrasto con Gesù; ma così si può vedere come Ippolito interpretava la formula (con la negazione) per Gesù stesso: «Simone non era Cristo, il quale era, è e sarà; era un uomo (formato) da seme ( έx σπέρματος ), nato da donna ( γέυυημα γυυαιxός ), (nato e) generato da sangui (έξ αίμάτωυ ) e dal desiderio carnale, come gli altri » (67). L’espressione (έξ αίμάτωυ ) ancora più avanti, applicata questa volta all’uomo in genere. (68).
Ippolito vuoi dire che Simone non può in nessun modo pretendere di essere come Cristo. La sua generazione e la sua nascita sono state identiche a quella di tutti gli uomini. Ma come intendere qui l’espressione «da sangui»? J. Galot la spiega come la sintesi delle due determinazioni precedenti, «da seme» e «nato da donna»; si tratterebbe dunque «dell’unione del padre e della madre nella generazione: ambedue forniscono il loro sangue e sono animati dal desiderio carnale» (69).
Questa interpretazione ci sembra inesatta. I quattro membri della frase formano un chiasme (secondo lo chema classico a b b’ a’); i due membri esteriori (a a’} descrivono la funzione paterna nella concezione: «da seme», «da desiderio carnale»; invece, nei due elementi al centro (b b’}, Ippolito dice quale fu il rapporto di Simone Mago con la madre, al momento della sua nascita: «nato da donna», «nato da sangui».
Pertanto, i «sangui» anche in questo caso, sono quelli della madre e il parallelismo con l’espressione precedente mostra che non si tratta qui del concepimento, ma della nascita («nato da donna», γέυυημα γυυαιxός ), e dei «sangui» della donna, sparsi in questa occasione: proprio il contrario di ciò che accadde per Gesù.
Un testo molto simile si trova nel De consummatione mundi dello Pseudo-Ippolito: questa volta si fa il contrasto tra Cristo e l’anticristo, il quale è una personificazione del diavolo: «il Salvatore del mondo … fu partorito da Maria, incontaminata e vergine ( έx τής άΧράυτου xαί παρδέυου )»; in un modo simile anche il diavolo (= l’anticristo) sarà apparentemente partorito da una vergine; però, «uscirà su questa terra da una donna contaminata ( έx μιαράς γυυαιxός )».
Ma il suo nascere da una vergine sarà un inganno: «(…) sarà partorito da una vergine come spirito, per poi manifestarsi agli altri come carne. Ma noi sappiamo che solamente la tutta Santa ha partorito come vergine». (70) Si deve notare qui il contrasto tra «vergine» e «donna contaminata».
Come si vede, tali testi sono molto vicini al nostro versetto. Confermano che l’espressione negativa di Giovanni «non nato da sangui» si riferisce al momento della nascita del Verbo incarnato: egli fu partorito in un modo santo, puro e verginale.