Tempi 15 Settembre 2021
Alì Ehsani, scrittore afghano rifugiato in Italia, racconta le vite da incubo dei cristiani del suo paese. E le loro flebili speranze infrante dal ritorno dei talebani. Dovevano vivere nascosti già prima. Adesso ricomincia il peggio
Piero Vietti
Le immagini di quelle persone aggrappate all’aereo in partenza dall’aeroporto di Kabul che dopo il decollo si schiantavano a terra, morendo, fanno capire l’orrore vissuto dagli afghani con i talebani al potere. Pur di non stare di nuovo sotto il regime hanno preferito la morte, quella morte».
Guardando quei video ha pianto, Alì. Anche lui diciannove anni fa si era aggrappato a un mezzo di trasporto per scappare. Sotto a un camion che da Patrasso a Venezia attraversava l’Adriatico su un traghetto, immobile per ore appeso con mani e piedi al motore, in silenzio, stremato e intorpidito.
Era partito da Kabul cinque anni prima, legato insieme al fratello maggiore, Mohammed, sul tetto di un furgone che portava altri disperati in Iran. Ma lui e Mohammed erano più disperati degli altri. C’era la guerra in Afghanistan, i talebani si erano presi il paese con la forza e la violenza. «Sono solo degli scemi», gli diceva suo papà, «parlano tutto il tempo di dio e poi ammazzano la gente».
«Se non fai il bravo arrivano i talebani», lo minacciava sua mamma quando lo sgridava. Qualche mese prima i suoi compagni gli avevano chiesto perché suo padre non andasse mai in moschea. Alì non lo sapeva, e glielo aveva domandato. «Perché noi siamo cristiani», aveva risposto piano. Aggiungendo: «Non devi dirlo a nessuno».
«Papà e mamma non torneranno»
Alì Ehsani ha raccontato la sua storia in due libri editi da Feltrinelli, Stanotte guardiamo le stelle e I ragazzi hanno grandi sogni. Tempi lo incontra in un bar di Roma, la città in cui vive e ha studiato e in cui aspetta di dare l’esame per diventare avvocato. Ha 32 anni, un volto che porta il peso di mille vite e il telefono che squilla in continuazione.
Lo cercano altri giornalisti, a qualcuno sembra interessare anche il destino dei cristiani nell’Afghanistan abbandonato dall’Occidente e riconquistato dai talebani. Alì racconta a Tempi che quel «siamo cristiani» detto dal padre gli aveva messo nel cuore una curiosità immensa: «Avevo otto anni, non sapevo nulla, ma mi chiedevo che cosa volesse dire, che cosa fossero una chiesa e una Messa».
Allora come oggi, essere cristiani in Afghanistan era una colpa da pagare con la vita. «Ricordo che quando mangiavamo i miei mettevano sempre un piatto in più a tavola. Io chiedevo per chi fosse, e mio padre diceva: “È per un ospite che deve arrivare”. Noi eravamo poveri, non avremmo avuto nulla da offrire. “Non ti preoccupare”, diceva mio papà, “Gesù condivideva tutto con gli altri, quando arriveranno gli ospiti arriverà anche il cibo”».
I talebani avevano già preso le città principali del paese, ed erano a Kabul. «Mio padre fu arrestato, non so dove l’abbiano portato. Dopo una settimana tornò a casa con addosso i segni della tortura». Pochi giorni dopo Alì torna da scuola, ma al posto di casa sua c’è un cumulo di macerie. «Ho pensato di essermi perso e avere sbagliato via», racconta.
«Mi sono messo ad aspettare che qualcuno venisse a cercarmi, finché è arrivato mio fratello Mohammed, stravolto». Devono scappare al più presto. «Ma se papà e mamma tornano?», chiede. «Non torneranno». Papà e mamma sono stati uccisi dai talebani perché cristiani, se Alì e Mohammed non fuggono in fretta faranno la stessa fine.
Più disperati degli altri, Alì e Mohammed iniziano, legati sul tetto di un furgone diretto in Pakistan e senza potere bere perché se si fossero pisciati addosso li avrebbero scoperti, un viaggio lungo cinque anni. Pakistan, Iran, Turchia, Grecia, Italia. Tra Turchia e Grecia Mohammed muore. Disperso in mare, inghiottito dalle onde che invece porteranno Alì alla penultima tappa, verso quel camion aggrappato al quale arriverà a Venezia, e verso un treno che lo porterà a Roma.
Alì Ehsani
Dopo la presa di Kabul da parte dei talebani lo scorso agosto, Alì si è speso per fare arrivare in Italia una famiglia di cristiani. «Sono entrato in contatto con loro mesi fa. All’inizio non si fidavano, non credevano che io fossi cristiano». Questo scetticismo è normale, spiega Ehsani, per chi cresce e vive nel terrore di essere perseguitato per la propria fede: non ti fidi di nessuno. «Qualche anno fa ho conosciuto un ragazzo afghano a Roma. Prima di iniziare un pranzo con lui ho fatto il segno della croce, lui ha spalancato gli occhi e mi ha detto: “Ma allora sei cristiano! Anche io, ma avevo paura a dirlo”. Anche alcuni musulmani in Italia considerano i cristiani come noi dei traditori».
Alì all’inizio parla solo con una delle ragazze più grandi di questa famiglia «di scuola, cultura… non di fede. Lei sapeva che io andavo a Messa, e un giorno mi chiede: “Chi segui?”. “Il Papa”, le ho risposto. “Anche noi”. “Allora siete cattolici!”. “Non so cosa vuol dire cattolici”.
Ci sono voluti mesi perché si fidassero di me». Chiedono ad Alì di registrare dei video per loro quando va in chiesa. Lui inizia a videochiamarli tutti i giorni e fare vedere la Messa in diretta. «Ogni volta si radunavano, trasmettevano il segnale sulla tv e la seguivano. Non avevano mai visto in vita loro una cosa del genere».
L’arrivo dei talebani a Kabul cambia tutto. I vicini di casa di quella famiglia sentono la musica della Messa provenire dalla porta, chiedono spiegazioni, Alì si sente in colpa e teme di averli messi nei guai con quelle dirette. «Dopo due giorni il padre di quella famiglia non torna più a casa.
Scappano, sono quattordici persone: la madre, un figlio, cinque figlie, i mariti di due di loro e cinque nipotini. Per alcuni giorni vagano cambiando numero di telefono in continuazione per mettersi in contatto con me, a un certo punto trovano una cantina in cui nascondersi». Pagano il custode di un parcheggio lì vicino perché non li denunci. Non hanno luce, acqua, energia elettrica. Non mangiano e non bevono per quattro giorni, e neppure dormono: qualsiasi rumore li spaventa, «ci hanno trovati», pensano.
Nel frattempo Alì grazie all’ex europarlamentare Silvia Costa riesce a garantire loro un corridoio umanitario. La famiglia cristiana raggiunge l’aeroporto di Kabul e parte per l’Italia. Quando atterrano le loro schiene sono piene di lividi: mentre si imbarcavano i talebani li hanno picchiati. «Siamo andati a Messa insieme qui a Roma», racconta Alì, «e loro hanno pianto. Dopo anni passati da cristiani in clandestinità sono entrati per la prima volta in chiesa. “È come se fossimo nati una seconda volta”, mi dicevano».
La promessa tradita
I talebani proibiscono la musica, non c’è nulla come il canto per definire l’identità di un popolo e l’appartenenza.
«Questa famiglia afghana è ospite di un centro accoglienza presso un seminario a Roma. Un giorno i seminaristi hanno organizzato una serata di canti. C’erano ragazzi provenienti da diversi paesi, abbiamo cantato in molte lingue. Tornando alla loro stanza i bambini continuavano a cantare le canzoni ascoltate, pieni di gioia, anche se non sapevano il significato delle parole. Quando sono arrivato in Italia, e non conoscevo davvero la mia fede cristiana, l’ho incontrata grazie ai miei insegnanti che mi invitavano alle vacanze di Gioventù Studentesca. Lì ho imparato dei canti bellissimi che tornando al centro d’accoglienza ripetevo tra me e me. Così ho capito la bellezza di vivere la fede con altre persone».
In Afghanistan i cristiani sono pochi, vivono nascondendo il loro credo, anche durante i vent’anni di presenza occidentale non ci si poteva esporre. «Alcune suore mi dicono che riconoscono dallo sguardo i cristiani afghani, ma questi sono troppo spaventati per dirlo».
È il 2021 ma sembrano i primi secoli, dice Alì, quando i cristiani si riconoscevano in silenzio tra loro per il simbolo del pesce.
«Ora con i talebani sarà peggio. Io mi chiedo perché l’Occidente ha abbandonato l’Afghanistan dopo venti anni di sacrifici. L’America ha detto che voleva portare la democrazia, ma vent’anni non bastano perché le nuove generazioni nate dopo la sconfitta dei talebani possano entrare in ruoli chiave nel mondo del lavoro o in politica. Dovevano rimanere altri anni, solo così il sacrificio fatto non sarebbe stato inutile. I ventenni afghani vogliono la pace, vogliono studiare, hanno una mentalità diversa dai quaranta-cinquantenni che ancora guidavano il paese. Gli Stati Uniti non hanno mantenuto la promessa di aiutare il governo anche dopo il ritiro, avrebbero dovuto lasciare delle basi militari. Così hanno fatto il gioco di Iran, Cina, Pakistan e Russia».
Verso una società-cimitero
Alì non si dà pace, e mentre racconta di altre famiglie cristiane che sta cercando di aiutare a distanza ripete che «non è possibile che la storia si ripeta così, che l’Afghanistan torni a vivere l’orrore totalitario dei talebani. Non hanno ancora mostrato tutta la violenza di cui sono capaci, ma appena potranno faranno genocidi, distruggeranno opere d’arte, soffocheranno la cultura, le donne non avranno più diritti».
Si è spesso chiesto, Alì, perché nelle società musulmane ci sia violenza, mentre i cristiani cercano la pace. È la stessa domanda che ha la mamma della famiglia arrivata a Roma grazie a lui, dice. «Da dove arriva tutto questo odio?».
Degli anni terribili che ha vissuto ad Alì è rimasta nel cuore un’agitazione profonda: «Mi chiedo chissà quanti altri cristiani sono stati costretti a mettere in un cassetto il loro sogno di vivere una vita alla luce del sole. C’è stato un momento, sotto il governo Karzai, in cui abbiamo pensato che ci avrebbero permesso di professare la nostra fede. “Era un sogno”, mi ha detto una ragazza, “e con i talebani quel sogno è morto”. Quella afghana era una società che iniziava a crescere, diventerà una società-cimitero».
Non ha fatto in tempo a chiedere ai suoi genitori perché fossero cristiani, Alì. «Però ho fatto delle ricerche. Prima che i musulmani conquistassero l’Afghanistan, in una zona molto verde e montuosa nel Nord del paese vivevano comunità di persone che – si sa dai ritrovamenti archeologici – bevevano il vino. Sono stati sterminati dai musulmani. Ma le loro radici sono rimaste, e da lì, sempre di nascosto, attraverso i secoli sono arrivate ai miei genitori. E a me».