Il ritorno dell’eugenetica

libertaepersona.org  9 luglio 2012

di Giuliano Guzzo

All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, la comunità internazionale, scossa dall’orrore dei lager, convenne sull’importanza di dover evitare il ripetersi di simili tragedie; mai più, fu la promessa. Un impegno solenne e internazionale che però non ha saputo frenare il riemergere di una fissazione che – dice la storia – interessò il regime di Hitler ben prima dell’Olocausto: quella eugenetica.

Trattasi, in breve, della volontà di perfezionare la specie umana, valutata alla stregua di una razza che deve essere protetta, per così dire, da “contaminazioni” fisiche e genetiche. Questo culto della perfezione, al di là delle immorali tesi che sottende, reca con sé il rischio di allarmanti derive, come ha dimostrato l’Aktion T4, il programma di sterilizzazione e soppressione col quale i nazisti, dal 1940 al 1942, eliminarono più di 70.000 loro concittadini disabili o reputati tali.

Ebbene, ad appena settant’anni da quella stagione di barbarie, anche se può sembrare assurdo, l’eugenetica è nuovamente tra noi. L’incubo del miglioramento della razza è infatti tornato, anche se sotto mentite spoglie: non più scienziati nazisti, ma affermati studiosi e, al posto dei campi di lavoro, ospedali e laboratori d’avanguardia. Il risultato, però, è il medesimo: l’eliminazione dei più deboli.

La prova forse più evidente viene dalla progressiva scomparsa delle persone affette dalla Sindrome di Down. Non nascono più. Ne è un esempio quel che accade in Inghilterra e Galles, dove nel 1990 le diagnosi prenatali di sindrome di Down erano state 1.075, mentre nel 2008 hanno toccato quota 1.843 (+70%). Una crescita considerevole alla quale non è però corrisposto un aumento delle nascite, che invece sono addirittura calate di 1 punto percentuale, passando da 752 a 743.

Merito, si fa per dire, del fatto che le coppie che ricorrono all’aborto dopo aver appreso di attendere un figlio Down, in Inghilterra, è pari al 92%. In Francia le cose non vanno molto meglio se si considera che, in replica ad un emendamento che prevedeva, per le donne incinte di bambini Down, l’indicazione di associazioni «che si prendono cura dei bambini Down e le loro famiglie», il deputato Olivier Dussopt, avrebbe detto: «Quando sento che “purtroppo” il 96% delle gravidanze con Sindrome Down finisce con l’aborto, la vera domanda che mi faccio è perché ne rimane il 4%».

Ma l’attuale tendenza eugenetica è più ampia e non interessa la sola Sindrome di Down, come ha avuto modo di spiegare anche Bromage, che ha sottolineato l’esistenza di «un trend in aumento di diagnosi prenatale e di aborti di feti che sarebbero nati con disabilità» (Med. Humanities 2006; 32 (1):38-42).

Ad ampliare il raggio dell’eugenetica prenatale, da alcuni anni, c’è poi la diagnosi preimpianto, tecnica che consente di selezionare, come fossero oggetti, gli embrioni privi di malattie genetiche e dunque utili alla fecondazione extracorporea. Un abominio, questo, ampiamente prevedibile e previsto dato che già tre anni dopo il lancio del Progetto Genoma, mirato alla mappatura del patrimonio genetico umano (genoma), il biologo Bertrand Jordan scriveva: «L’impatto del Progetto Genoma sulla società è lungi dall’essere insignificante. Le nuove conoscenze che abbiamo ottenuto conducono all’eliminazione degli embrioni attraverso la diagnosi prenatale e la possibile interruzione della gravidanza» (Travelling Around the Human Genome, Inserm 1993, p. 168).

Così l’eugenetica ha preso piede al punto che, per assurdo, nemmeno quando un bimbo disabile riesce a sopravvivere allo screening prenatale e a venire al mondo, oggi, è al sicuro. Soprattutto nella civile Inghilterra, dove il prestigioso Royal College of Obstetricians and Gynaecology, non più tardi di qualche anno fa, ha lanciato un appello a dir poco inquietante: «Let us kill disabled babies», lasciateci uccidere i bambini disabili. Parole che non abbisognano di commenti e che tradiscono, di fatto, un odio preoccupante per i più deboli.

Una categoria particolarmente a rischio, oggi, è anche quella dei nati prematuri: uno studio europeo condotto su 1400 medici di 10 nazioni ha messo in luce percentuali bassissime di neonatologi che tenterebbero di rianimare un neonato prematuro di 24 settimane di età gestazionale: in Olanda, ad esempio, appena l’1% dei medici ha dichiarato che lo farebbe (Cfr. J Pediatr 2000; 137:608-15).

Una tendenza tutt’altro che isolata se si considera che circa vent’anni fa, in Svezia, furono emanate raccomandazioni selettive e restrittive con le quali si sconsigliava apertamente la rianimazione di neonati prematuri. Ancora più impressionante, al riguardo, è l’esito di uno studio del 2004 che ha messo in luce come l’80% dei medici francesi si sia espresso favorevolmente all’eutanasia attiva in casi neonatali e l’abbia persino praticata (Cfr. Arch Dis Child Fetal Neonatal 2004; 89:19-24).

A questo punto, sorge spontanea una domanda: come si è potuti arrivare a tutto questo? Non più tardi di qualche decennio fa, lo ricordavamo all’inizio, gli Stati si impegnarono in favore di una stagione di pace e con la Dichiarazione universale dei diritti umani del ’48 si affermò che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». Come si spiega, allora, l’attuale successo dell’eugenetica?

Per rispondere a questo interrogativo, occorre fare, anche storicamente, un passo indietro ricordando anzitutto che l’eugenetica di Stato non fu affatto una invenzione nazista, bensì statunitense. La prima vera e propria legislazione in materia, infatti, fu emanata dallo Stato del Connecticut addirittura nel 1896; ma, soprattutto, è curioso notare come quando la Germania di Hitler, nel ’33, adottò leggi che autorizzavano la sterilizzazione e l’aborto obbligatorio, fosse stata già anticipata addirittura da 28 Stati americani.

Segno che la barbarie eugenetica, contrariamente a quel che si crede, non abbisogna affatto, per manifestarsi, di feroci dittature, anzi: attecchisce meglio in regimi politici democratici, dove il gran parlare di “diritti”, spesso, trasmette alla gente un mendace senso di distensione. Apriamo qui una parentesi per ricordare che la stessa Legge 194/’78, ancora oggi tanto osannata da politici e intellettuali nostrani, apre de facto all’eugenetica laddove, al comma 2 dell’articolo 6, annovera le «rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro» tra le cause che possono giustificare l’aborto procurato dopo il novantesimo giorno dal concepimento.

Tutto questo per stare sul versante politico. Le sue radici filosofiche dell’eugenetica invece, devono essere ricercate nel pensiero di Francis Galton (1822-1911), cugino di Charles Darwin e inventore del darwinismo sociale, teoria fondata sull’opportunità di incoraggiare la procreazione dei “migliori” e di limitare, invece, quella degli individui reputati di ceppo scadente, inferiore o malato.

Un chiarimento di questa prospettiva ce la offre Friedrich Nietzsche quando, con parole inequivocabili, scrive:«I deboli e in malriusciti devono perire, questo è il principio del nostro amore gli uomini» (L’anticristo, Adelphi 1970, p.169). In epoca contemporanea, considerazioni simili sono state riprese da Aldous Huxley, primo direttore dell’UNESCO e presidente, per diversi anni, della Eugenetics Society, il quale, nel suo Ritorno al Nuovo Mondo (Mondadori, 1961), fece capire di essere terrorizzato dalla prospettiva di «una maggioranza di umani di qualità biologicamente inferiore».

Per venire agli ambienti scientifici, anche il celebre zoologo Desmond Morris ebbe a dirsi quasi rammaricato dal fatto che, finora, «le fantascientifiche idee allevamenti di bambini, attività sessuale in comune, sterilizzazione selettiva, e divisione dei compiti riproduttivi sotto il controllo dello Stato, non si sono avverate» (La scimmia nuda, Bompiani, 1987, pp. 107 – 108).

Ora, dietro questa pesantissima svalutazione della dignità umana, favorita oggi anche da una sorta di riduzionismo consumistico che tende ad equiparare il valore delle persone alle loro abilità o capacità, c’è, in sostanza, un’antropologia nichilista, priva di orizzonti metafisici e incapace di cogliere la grande verità che il cristianesimo, con Agostino – ma anche con tantissimi altri -, ha affermato a chiare lettere: «Ogni uomo è una persona» (De Trinitate, XV, 7, 11).

Significa che ciascuno di noi – a prescindere dai tratti intellettuali, fisici o anagrafici che lo caratterizzano – rappresenta un patrimonio unico, di valore inestimabile. E merita, in quanto essere umano, di essere accolto, ascoltato, amato. Senza se e senza ma.