Si discute molto sulla moneta europea: a due velocità o meno; sostenuta da Bce e Fondo monetario internazionale; osteggiata dalla Germania… Nella sua storia è la ragione della sua debolezza. Occorre uno scatto della politica del Vecchio continente.
Giancarlo Galli
Affermazione carica di un duplice, ancorché contraddittorio giudizio: l’«errore» del concepimento e la «speranza» che il penoso travaglio della nostra moneta abbia uno sbocco positivo. Anziché un traumatico cupio dissolvi dalle imprevedibili conseguenze. Pur andando con i piedi di piombo nel decifrare un’analisi che sfocia in profezia, assumiamola a riferimento nel tentativo di capire. Partendo dalla denuncia, senza perifrasi, dell’«errore».
A memoria storica, mai era accaduto che il conio di una moneta anticipasse un evento politico-statuale. Atene e Sparta partorirono la dracma d’argento dopo avere sconfitto i persiani assicurandosi il dominio del Mediterraneo orientale; Giulio Cesare impose l’aureus conquistata la Gallia e attratto a sé cuore e forzieri dell’egiziana Cleopatra.
Regola mai infranta: sono nazioni o imperi consolidati ad acquisire il diritto-credibilità di dare piena legittimazione al potere statuale, attraverso la “loro” moneta: dal denaro di Carlo Magno imperatore alla sterlina britannica, dallo zecchino della Repubblica veneta al dollaro di Benjamin Franklin nel Settecento.
Se la moderna Germania del cancelliere Otto von Bismarck si compattò attraverso il marco, l’Italia appena riunificata addirittura anticipò con la lira, tenacemente voluta (1862) dal piemontese ministro alla Finanze Quintino Sella. «Una Nazione, una Moneta», era la parola d’ordine dei politici nell’ultimo scorcio dell’Ottocento.
Non slogan velleitario (il circolante cartaceo era garantito dall’oro custodito nei forzieri statali), bensì affermazione d’indipendenza e autorevolezza sullo scacchiere internazionale. Da non dimenticare, per quel che ci tocca da vicino, che nel 1870 esisteva parità assoluta, cioè 1:1, fra lira, franco francese, franco belga, franco svizzero, dracma. Fu l’abbozzo di un’Unione monetaria dalla quale a prendere le distanze fu unicamente la Germania. La sconfitta di Napoleone III a Sedan mandò in soffitta l’ambizioso progetto.
La Prima guerra mondiale scatenò un’ondata inflazionistica sull’intero Vecchio continente, poiché le colossali spese militari ruppero il pre-esistente equilibrio fra monete cartacee messe in circolazione forzosa e riserve auree. Gravissima la situazione in Germania, favorendo la dittatura nazista, con un chilo di pane nero arrivato a costare un miliardo di papiermark.
Con un colpo di genio il banchiere Hjalmar Schacht crea il Reichsmark, garantito dalle proprietà fondiarie statali. Schacht, ministro dell’Economia portato in palmo di mano da Hitler, a Seconda guerra mondiale iniziata con l’invasione della Polonia (settembre 1939), coltiva un megalomane progetto: dopo l’ “immancabile” trionfo militare, un sistema monetario imperniato su tre valute-guida; il dollaro per le Americhe, il marco per l’Europa continentale, lo yen giapponese in Asia.
Non se ne fece nulla, ovviamente. Tuttavia gli eventi fecero assurgere il dollaro (ancora convertibile in oro da parte delle Banche centrali, al cambio di 32 dollari per oncia) a moneta di riferimento del sistema capitalistico, ed estremo baluardo a contrastare l’espansionismo del rublo sovietico.
Mentre la Gran Bretagna si defilava, l’8 aprile 1951, a Parigi nasceva la Ceca, Comunità europea per il carbone l’acciaio. Protagonisti il nostro Alcide De Gasperi, il neo-cancelliere della Repubblica federale tedesca con capitale a Bonn Konrad Adenauer, il lungimirante ministro degli Esteri francese Robert Schuman che in un memorabile discorso affermò: «L’Europa non la si costruirà in un colpo solo, bensì attraverso realizzazioni concrete, creando una solidarietà di fatto».
L’integrazione delle politiche industriali ed energetiche, l’abbattimento dei dazi doganali e l’avvio della libera circolazione di uomini e capitali sanciti con grande solennità dai Trattati di Roma (25 marzo 1957) si scontrano presto con una realtà forse imprevedibile, certamente non prevista.
Allora come adesso, all’inarrestabile crescita della Germania si contrappongono le debolezze strutturali di Francia e Italia, fiaccate dalla contestazione sessantottina. Per i francesi anche dall’infausto esito delle guerre coloniali, dall’Indocina all’Algeria. Bonn si trasforma in una locomotiva della quale i partner non reggono il passo.
A tenere viva la fiammella di un europeismo non irenico o di facciata è Jacques Delors, ministro dalla forte caratura cattolica (al pari di Adenauer, De Gasperi, Schuman) nei governi dal laicissimo presidente Francois Mitterrand. Ha un cruccio e una proposta Delors per arginare lo strapotere teutonico che si va delineando: dare vita a una moneta unica, battezzata ecu. Scudo.
È il 1985. Occorreranno quattro anni per giungere (Madrid, giugno 1989) a un documento del Consiglio europeo che recita: «l’ecu deve diventare la moneta unica, circolante nell’intera Europa, in sostituzione delle monete esistenti».
A determinare il salto di qualità, ovvero dal dire al fare, furono circostanze nuove, sino a pochi anni impensabili: Gorbaciov, da segretario generale del Pcus assume la presidenza dell’Urss, annunciando perestrojka (ristrutturazione) e glasnost (trasparenza) negli assetti di potere. Ordina l’abbattimento del Muro di Berlino, meritandosi il Nobel per la Pace (1990).
A Mitterrand-Delors che pure avevano lavorato per questo obiettivo, tremano le vene dei polsi. Torna il secolare incubo di una Germania troppo forte nel cuore dell’Europa. A garantirsi dai rischi cavano dal cilindro della diplomazia un jolly del quale in troppi s’erano dimenticati: in base ai Trattati di Yalta e Potsdam (1944-45) una ricomposizione territoriale tedesca è subordinata al placet delle potenze vincitrici. Condizionano quindi il decisivo assenso francese all’adozione di una moneta unica europea. Battezzata euro.
Posto con le spalle al muro, il cancelliere Helmut Kohl subisce, astutamente convincendo gli interlocutori che per risanare le finanze della disastrata Repubblica democratica occorreranno almeno quarantanni! Illusione francese, miracolo tedesco? Comunque con i Trattati di Maastricht, medioevale cittadina olandese, ha inizio la grande avventura dell’euro, contrassegnata da dubbi messi a tacere dalla speranza.
Le trattative ai più alti livelli sono marchiate dal conflitto sottotraccia fra il cancelliere Kohl e il gollista Jacques Chirac, europeista tiepido, succeduto a Mitterrand. Chirac, fra i pochi statisti che masticano economia, s’è convinto che il predecessore abbia commesso un errore storico. Consapevole di non poter fra retromarcia, cerca una via d’uscita. E ritiene d’individuarla nell’allargamento dell’eurozona al maggior numero di Paesi, così arginando la “supremazia teutonica”, come usa dire nei privati conversari.
La Gran Bretagna, poi la piccola Danimarca, si sottraggono alle lusinghe. Ma impone italiani, portoghesi, spagnoli. Vorrebbe pure i greci, se Kohl non fosse irremovibile. Il cancelliere pagherà pegno, con la sconfitta elettorale del 1998, a vantaggio del socialdemocratico Gerhard Schròder fautore della Ostpolitik: una Germania che guarda più all’Est che all’Ovest. (Tornato nel “privato”, Schròder guiderà la russa Gazprom che con pipeline e gasdotti garantisce l’autosufficienza tedesca).
Alla mezzanotte del 31 dicembre 1998 l’euro diviene realtà per le contrattazioni finanziarie e commerciali nella maggior parte del Vecchio continente, sebbene oltre 350 milioni di cittadini dovranno attendere il Capodanno 2002 per avere fra le mani i fiammanti biglietti. Il cambio con il dollaro viene indicato a 1,166, quasi a dimostrare una superiorità almeno teorica sul biglietto verde.
Gli Usa di George W. Bush non ci stanno e muovono all’offensiva, facendo precipitare la quotazione, e a un certo punto basteranno 0,79 cents per acquistare un euro. Finché l’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York induce Bush-Greenspan a ribaltare strategia, giudicando che un euro sopravvalutato (o se preferiamo, una progressiva svalutazione del dollaro) andrà a beneficio dell’export statunitense.
Alla Banca centrale di Francoforte, guidata prima dall’olandese Wim Duisemberg, poi dal francese Jean-Claude Trichet, domina l’ottimismo del «ce l’abbiamo fatta!», rafforzata da una congiuntura mondiale eccezionalmente positiva; il che induce a chiudere entrambi gli occhi sui comportamenti di parecchi paesi del «Club euro» che, anziché arginare la loro posizione debitoria (pubblica e privata), spesso infrangendo le regole di Maastricht, spendono a rotta di collo.
Sino al 2008 l’euro, arrivato a valere 1,60 dollari, sembra avere il vento in poppa. Financo in Germania gli euroscettici tacciono: squadra che vince non si critica. Finché esplode a ciclo apparentemente sereno, in Usa, la bolla speculativa dei mutui subprime. I crediti divenuti inesigibili. E si scopre che in Eurolandia le banche sono state artefici di ogni sorta di follie. Non bastasse, si assiste alla resurrezione del rublo russo di Putin, all’affermarsi dello yen di Pechino. S’incrina la solidarietà europea, poiché i ricchi (Germania, Olanda, Finlandia in primis) recalcitrano nel venire in soccorso dei deboli.
Nasce il revanscismo tedesco, e a guidare la fronda non sono dei populisti alla maniera dei nostrani Beppe Grillo e Bobo Maroni, bensì figure di spicco. Senza distinzione di casacca. Peer Steinbrùck, ex ministro socialdemocratico alle Finanze e probabile sfidante di Angela Merkel alle elezioni dell’autunno 2013, rifiuta previsioni «su chi farà ancora parte dell’Eurozona dopo il superamento della crisi»; il segretario dei cristiano-democratici bavaresi Alexander Dobrindt auspica «un’Eurozona più piccola». Duecento economisti chiedono un euro a «due velocità». Tranchant Thilo Sarrazin, ex membro del direttorio della Bundesbank, esce con un pamphlet intitolato L’Europa non ha bisogno dell’euro.
Tutto comunque induce a prevedere che almeno sino alle prossime elezioni la Germania opterà per l’attendismo, insistendo nella politica del piede in due scarpe, del bastone e della carota verso i partner in difficoltà. Essendo imprevedibile quel che potrebbe accadere, a cominciare da una fuoriuscita della Grecia, l’anello più fragile. Che significherebbe inoltre un «euro a due velocità»? L’ipotesi si fa strada, ma nessuno ha sin qui chiarito le caratteristiche di una «moneta unica» che nel Nord europeo avrebbe un valore superiore a quella (la stessa?) circolante nei Paesi del Sud.
A Berlino, all’Aia, a Helsinki ci stanno però pensando…. Ha ammonito Jòrg Asmussen, membro (tedesco) nell’esecutivo della Bce in un’intervista alla «Frankfurter Allgemeine»: «Solo una moneta la cui esistenza non è in dubbio può essere considerata stabile». Lapalissiano, sebbene siano proprio i suoi connazionali, in un susseguirsi di contraddittorie esternazioni ad alimentare le incertezze sull’Accadrà Domani. Ponendo in difficoltà lo stesso governatore della Bce Mario Draghi, impegnatissimo in una difesa a tutto campo dell’euro.
Oltre al rebus monetario, per l’Eurozona esiste un angosciante problema economico-industriale: a eccezione del trio Germania-Finlandia-Olanda, tutti gli altri Stati membri (inclusa la Francia, dopo l’elezione alla presidenza del socialista Francois Hollande) sono in recessione. Stretti a tenaglia fra i debiti e il calo di consumi e investimenti.
Ecco allora farsi strada una ricetta da «Economia di guerra»; su un versante favorire una moderata inflazione per alleggerire il debito pubblico; sull’altro congelare prezzi-salari-pensioni, gli stessi depositi bancari a un tasso d’interesse prefissato, dedicando ogni energia a gigantesche opere pubbliche con conseguenze positive per l’occupazione.
Un riesumare in definitiva la «formula magica» di John M. Keynes, concepita negli anni Trenta del secolo passato. Mai però sperimentata, poiché vennero il riarmo e la Seconda guerra mondiale.
Quasi impossibile che la Germania condivida questo schema, elaborato dagli economisti francesi Francisco Vergara e Frederic Bonnevay, che fa riemergere i fantasmi del passato. Tanto più che, a torto o a ragione, i tedeschi ritengono radicalmente mutati gli scenari geopolitici, così indebolendo le ragion d’essere dell’euro.
Ci attendono dunque lunghe stagioni di “vertici”, consultazioni a ogni pie sospinto dei capi di Stato del Vecchio continente ad allontanare gli spettri di recessione e implosione. Una difesa a oltranza, mentre forse servirebbero uno scatto di reni, una progettualità coraggiosa a esorcizzare il declino. È l’attuale classe dirigente all’altezza della sfida?
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Giancarlo Galli, esperto di economia, collabora con diverse testate giornalistiche, fra cui «Avvenire» e «Famiglia cristiana». È autore di numerosi saggi, tra i quali: Euro. La grande scommessa (2001); Gli Agnelli (2003): Finanza bianca. La Chiesa, i soldi, il potere (2003); Poteri deboli (2006); Nella giungla degli gnomi Politica, economia & finanza dall’era Fazioal «grande crac» (2008).