newsletter 10 Marzo 2022
di Roberto de Mattei
Nei piani di Vladimir Putin esiste un’operazione per separare le tre Repubbliche baltiche (Lituania, Lettonia ed Estonia) dall’Unione Europea? Ciò potrebbe avvenire se la Russia occupasse il corridoio di Suwalki, una striscia di terra di 90 km che connette la Polonia alla Lituania e separa la Bielorussia da Kaliningrad, dove ha sede la flotta della marina russa che opera nel Baltico.
Se il conflitto ucraino si espandesse e la Russia riuscisse a collegare la Bielorussia all’enclave di Kaliningrad, i Paesi Baltici verrebbero isolati da ogni possibile soccorso delle forze terrestri Nato. Non si tratterebbe solo di un isolamento militare, ma del tentativo de-europeizzare questi popoli, per i quali i confini politici dell’Unione Europea sono, come quelli della Nato, una barriera difensiva contro la Russia che è il loro secolare nemico.
Nel grande golfo di Riga si specchiano Lettonia ed Estonia. La lingua dei lettoni, come quella dei lituani è indoeuropea, mentre quella degli estoni appartiene al ceppo ugro-finnico.
Tuttavia, al di là delle differenze etniche e linguistiche, il legame storico di questi due paesi è più stretto di quello che essi hanno con la Lituania. Quest’ultima fu un grande Stato, mentre Lettonia ed Estonia, pur conservando una loro fisionomia nazionale, furono sottomesse alle potenze straniere fino al XX secolo.
Tallinn e Riga, le due capitali, appartennero alla Lega anseatica, l’alleanza di città che tra il tardo medioevo e l’inizio dell’epoca moderna manteneva il monopolio dei commerci su gran parte dell’Europa Settentrionale.
Nelle Città Vecchie di Riga e di Tallinn, si respira l’atmosfera medioevale tipica delle città tedesche di un tempo. Così immaginiamo che fossero anche Lubecca e Danzica, prima di essere distrutte dalla guerra.
Lettonia ed Estonia, nel Medioevo, facevano parte della “Livonia”, una terra che si estendeva dalla bassa valle del fiume Daugava, o Dvina occidentale, al Golfo di Riga. Furono le “Crociate baltiche”, organizzate all’inizio del XIII secolo a provocare l’ingresso nella storia dell’Occidente di questi popoli.
I Germani, che erano stati piegati con la forza da Carlomagno, soggiogarono a loro volta con le armi i popoli baltici e slavi. Riga fu fondata, nel 1201, da Alberto di Buxtehudem che ne fece la sede dell’ordine religioso-cavalleresco dei Cavalieri Portaspada, poi incorporato nell’Ordine Teutonico.
Tallinn fu fondata dal re danese Valdemar II e dall’arcivescovo di Lund Anders Sunesen nel 1219. Anch’essa fu fortificata con possenti mura e torri di guardia e ospitò i crociati del Baltico. Il primo vescovo di Livonia fu il monaco tedesco san Meinardo (1134-1196) di cui Giovanni Paolo II, nel suo viaggio in quella terra del 1993, ha ripristinato il culto.
Le città anseatiche facevano parte del Sacro Romano Impero ed avevano nell’Ordine Teutonico il loro “protettore”. Esso ebbe la sua sede, dal 1466, nella città di Koenigsberg, ribattezzata nel 1946 Kaliningrad. L’ondata protestante che si propagò dalla Germania nel Cinquecento investì presto anche i Paesi Baltici.
Gotthard Kettler, il capo dell’Ordine di Livonia, succeduto a quello teutonico, si convertì al luteranesimo e divenne duca di Curlandia.
Nei secoli successivi Polonia, Danimarca e Svezia combatterono per il Dominium Maris Baltici che finì però nella sfera d’influenza della Russia.
Gli eredi dei cavalieri teutonici, i “baroni baltici”, proprietari di larga parte dei territori, costituirono una sorta di “enclave” tedesca nell’immenso Impero russo.
Le roccaforti baltiche, disseminate tra boschi e laghi dai colori cupi e scintillanti, vigilavano un tempo le frontiere della Cristianità.
Scoppiò la Prima guerra mondiale e il trattato di Brest-Litovsk, stipulato tra la Russia e gli Imperi centrali il 3 marzo 1918, avviò il processo di liberazione dei Paesi Baltici.
Prima che la loro indipendenza fosse ufficialmente riconosciuta dal Trattato di Versailles, si scontrarono violentemente in queste plaghe i russi dell’armata rossa e quelli dell’esercito bianco, i nazionalisti lettoni ed estoni e le milizie arruolate dai baroni baltici.
Se il trattato di Brest-Litovsk, nel 1917, aveva sancito l’indipendenza dei Paesi Baltici, il patto Molotov-Ribbentropp del 23 agosto 1939 li cancellò dalla storia. Estonia, Lettonia e Lituania vennero occupate dai sovietici e divennero teatro di scontro tra la Wehrmacht e l’Armata Rossa.
Stalin ordinò le deportazioni in Siberia di esponenti politici, ufficiali, sacerdoti, ma anche di chiunque avesse una semplice proprietà.
Tra questi fu l’arcivescovo gesuita Eduard Profittlich (1890-1942), nominato da Pio XI nel 1931 amministratore apostolico dell’Estonia, il primo vescovo cattolico a operare in Estonia dopo l’epoca medioevale. Fu condannato ad essere fucilato e morì il 22 febbraio 1942 nel gulag di Kirov, prima dell’esecuzione della sentenza. Il suo processo di beatificazione è stato introdotto.
Nacquero allora le prime organizzazioni di resistenza all’invasore. I partigiani lettoni ed estoni, che presero il nome di Fratelli della Foresta e l’esercito lituano della libertà furono i protagonisti, dopo il 1945, di una epica resistenza armata all’invasore sovietico.
Contro i guerriglieri anti-comunisti, i sovietici schierarono intere unità dell’esercito rosso, della milizia e della polizia segreta NKVD. La resistenza proseguì dopo la fine della guerra. Gli americani cercarono nei primi anni di sostenere la lotta armata, paracadutando aiuti e volontari, ma le infiltrazioni sovietiche all’interno della CIA, portarono presto alla liquidazione del loro sostegno.
La sanguinosa repressione della rivolta ungherese, nel 1956, segnò la fine delle ultime speranze di aiuto da parte dell’Occidente.
Migliaia furono i caduti partigiani in quella che fu la più lunga storia di guerriglia del Baltico, portata alla luce soprattutto dagli storici Heinrihs Strods in Lettonia (Latvian National Partisan War 1944-1956, Latvijas, Riga 2003) e Mart Laar in Estonia (War in the Woods: Estonia’s Struggle for Survival, 1944-1956, Whalesback Books, Washington D.C. 1992) e ricordata in Italia da Alberto Rosselli (La resistenza antisovietica e anticomunista in Europa orientale, 1944-1956, Settimo Sigillo, Roma 2004).
Nel dicembre 1990, le associazioni di Tradizione, Famiglia e Proprietà, guidate da Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) avevano portato a Vilnius, minacciata da Gorbaciov, 5.212.580 di firme, in difesa dell’indipendenza e della libertà della Lituania.
Il 2 gennaio 1991 il Capo del Cremlino ordinò ai suoi carri armati di invadere la Lituania. Il governo si trincerò nel Parlamento, protetto da masse di giovani col Rosario in mano che cantavano inni alla Madonna.
Nove di loro morirono eroicamente, ma il presidente russo fu costretto a indietreggiare. L’esempio si diffuse a macchia d’olio e le repubbliche sovietiche, a cominciare da quelle baltiche, si staccarono da Mosca, segnando l’inizio del crollo definitivo dell’URSS.
Dall’aprile 2004, lo spazio aereo dei Baltici è stato messo sotto il controllo degli aerei Nato, sotto richiesta di quei popoli su cui pesa una tragica memoria storica.
Incontrando a Riga i leader delle tre repubbliche baltiche, il 9 maggio 2005, il presidente americano George W. Bush disse che l’occupazione sovietica dell’Europa dell’Est dopo la Seconda guerra mondiale sarà ricordata come “una delle più grandi ingiustizie della storia”, aggiungendo che una buona parte della responsabilità va attribuita anche agli Stati Uniti.
Infatti la conferenza di Yalta del 1945, affermò il presidente americano, si inserì sulla scia della tradizione ingiusta dell’accordo di Monaco e del patto Molotov-Ribbentrop.
Oggi il popolo ucraino, ma anche gli abitanti delle Repubbliche baltiche minacciati da Vladimir Putin, guardano con apprensione all’evoluzione drammatica della guerra che si è aperta nel cuore dell’Europa.
Dalle musiche di desolante bellezza dell’estone Arvo Pärt, uno dei più grandi compositori contemporanei, sembra sorgere dalle profondità del Medioevo e trovare nuove forme espressive il grido di amore di queste terre alle radici antiche dell’Occidente cristiano.