Editoriale di Aldo Trento
«Signore, stamattina è morta sua figlia…». Senza neanche aspettare che la segretaria terminasse il funereo annuncio, il papà rispose: «Bene, bene…»: in queste due parole è racchiuso tutto il dramma e l’assurda disperazione di Elba Maria, la ragazza di ventidue anni morta di Aids questo venerdì.
Era nata a Cateura; in questo quartiere, dove vivono milioni di esseri umani, raccogliendo e mangiando ciò che trovano fra i rifiuti, i rifiutati della città hanno fatto un capannone, chiamato il Santuario dei Martiri di Cateura. Chi sono i martiri di Cateura? Sono i neonati che giornalmente escono dalle immondizie, e che questi poveracci raccolgono, lavano, e danno loro una onorata sepoltura.
Elba Maria si era dunque salvata. Ma è inevitabile che chi non è mai stato amato comunichi solo violenza, perfino nel momento del concepimento della vita. È una catena infinita di violenza. La sua vita era frutto di una relazione istintiva, come lo sono tutte le relazioni tra uomo e donna vissute senza la coscienza del Mistero. Non è stato l’amore a portarla al mondo, e perciò non ebbe mai la grazia di sperimentare la tenerezza, la bellezza dell’essere figlia.
La madre biologica che l’aveva concepita nella disperazione di una vita senza senso, morì senza poterle offrire un minimo di affetto, essenziale come il respiro per un bimbo che nasce e cresce. Il padre biologico l’abbandonò per unirsi a un’altra donna. Non seppe mai che cosa significhi essere figlia, perché mai conobbe la bellezza di una casa, di un affetto famigliare, e senza questo respiro la vita si trasformò per lei in un inferno.
Elba crebbe sola in mezzo all’immondizia di Cateura, finché un giorno, nel pieno della sua giovane età, quando il cuore comincia a battere forte, quando si sveglia in modo acuto il desiderio di amare ed essere amato, si rese conto della sua terribile solitudine. Nessuno l’aveva amata, non aveva mai conosciuto la bellezza dell’infanzia, i giochi con le bambole, il calore di un abbraccio materno o paterno.
Fu una solitudine terribile, quella solitudine che, se non incontra un volto che almeno per un istante ti guarda con apparente tenerezza, porta al suicidio. E fu lì che incontrò un ragazzo, un altro poveretto come lei, nella sua stessa condizione, del suo stesso quartiere. Anche lui figlio dell’immondizia di Cateura. Si unirono in una promiscuità violenta e violatrice. Nell’apparente e ingannevole felicità di una relazione ridotta al sesso, lei sognava di trovare ciò che va oltre il sesso e che il cuore dell’uomo in modo spasmodico cerca: la felicità.
Sì, perché, come scrisse Cesare Pavese, suicida in giovane età, dentro il piacere sessuale l’uomo cerca qualcosa che va oltre il sesso stesso: cerca l’eterno. Elba Maria cercava la felicità, e in questa ricerca trovò l’Aids, il nemico per eccellenza dell’amore e della vita. Tra le braccia del suo compagno trovò la morte. Quello che avrebbe dovuto essere – e che è – nel sacramento del matrimonio un’esperienza suprema di vita, si trasformò per lei in un’esperienza estrema di violenza.
Si trasmisero reciprocamente l’Aids. Lei continuò a vagare per Cateura, finché le energie l’abbandonarono e si ritrovò paralizzata in una capanna di quel quartiere sinonimo di miseria e di violenza, nel quale solo la presenza dei gesuiti è un barlume di speranza e di amore. E fu lì, in quella «fogna», che un medico e un suo amico, entrambi membri della Cooperazione Spagnola, si preoccuparono di lei e la portarono qui nella nostra Casa Divina Provvidenza.
Arrivò disperata, ma piano piano recuperò il sorriso. Per la prima volta nella sua vita si sentì circondata da tanti amici; per la prima volta provò il calore di una stanza pulita, con l’aria condizionata, un letto degno di lei, con lenzuola bianche e pulite; per la prima volta conobbe l’affetto di medici, infermiere, volontari e sacerdoti; per la prima volta cominciò a sorridere, a guardare la gente con speranza e affetto, con i suoi begli occhi neri, grandi come una luna piena.
Nei primi giorni parlava e singhiozzava. Parlava per l’allegria di vedersi circondata da tanto amore. Singhiozzava di dolore perché nessuno dei suoi vecchi «amici» la veniva a trovare. Un giorno arrivò per caso una sua zia e quando la riconobbe iniziò a piangere forte e amaramente: era la gioia di vedere qualcuno che le apparteneva e al tempo stesso la tristezza di un’appartenenza puramente epidermica, senza amore.
E di fatto la zia non tornò mai più a trovarla; né tanto meno venne a cercarla l’uomo che le aveva dato la vita, il suo padre biologico. I due amici della Cooperazione Spagnola invece non smisero mai di seguirla, giorno dopo giorno, dando una bella testimonianza che solo ciò che nasce da Cristo è vita, amore, appartenenza, fedeltà.
Già compromessa alla parte sinistra del corpo, Maria Elba lentamente divenne totalmente paralizzata. Smise di parlare: i grandi dolori fisici, mai superiori ai dolori morali che la straziavano lentamente e inesorabilmente, divisero in due quella fragile e bella pianta appena sbocciata alla vita. Ogni giorno, quando la visitavamo, ci sorrideva, ci parlava con gli occhi brillanti come la luce del sole.
Era cristiana da alcune settimane, e questa grazia fu il suo ultimo sostegno, la sua allegria, la certezza di essere figlia, di avere finalmente un Padre. In lei si compì ciò che disse il profeta: «Potrà una madre o un padre abbandonare sua figlia?». Lei rispondeva di sì, tra i singhiozzi.
Ma il profeta aggiunge: «Io – cioè Dio – non mi scorderò mai di te… perché già prima di formarti nel seno materno pronunciai il tuo nome… sei come la figlia dei miei occhi… ti disegnai nel palmo delle mie mani». E questa coscienza, appena germogliata, accompagnò Elba Maria fino alla morte. Gli ultimi giorni non sorrideva più, e finalmente Dio, la Vergine, san Raffaele e san Riccardo, se la portarono via.
La contemplai morta: il suo volto sereno, i capelli neri che le facevano da corona, un sorriso sulle labbra, respirava aria di Paradiso. Non volli che la portassero a Cateura, ma feci in modo che rimanesse in chiesa perché le sue ultime ore tra noi fossero un segno della sua grandezza e dignità. Volli che dal cielo sentisse l’abbraccio di questa sua famiglia e che i suoi resti potessero ricevere un funerale degno di una figlia di Dio, prima di riposare in cimitero, in attesa della risurrezione. Visse come una mendicante, morì come una regina.
Grazie, figliola cara, e dal cielo accompagnami e proteggi tutti noi che amiamo quanti, come te, conoscono solo il dolore e l’emarginazione. Prega per noi, perché in tutti coloro che soffrono come hai sofferto tu, sappiamo contemplare il volto tenero e doloroso di Cristo.