di Massimo Introvigne
Sollecitato spesso da giornalisti, italiani e stranieri, su chi sono i «papabili», confesso sempre di non essere troppo appassionato al toto-Papa. Non solo il cattolico deve anzitutto fidarsi dello Spirito Santo, ma non è così importante sapere se il nuovo Pontefice sarà giovane o meno giovane, europeo o no, italiano o «straniero» – ma nella Chiesa non ci sono stranieri –: e anche la distinzione tra progressisti e conservatori mi sembra ormai datata e stantia. Per quanto posso, cerco di riportare la discussione dai nomi alle questioni sostanziali, e dalle dimensioni organizzative alla dottrina.
Per quello pratico possiamo forse rileggere un vecchio classico della sociologia, Talcott Parsons (1902-1979). Questo sociologo americano scrisse alcune sciocchezze sulla religione, oggi giustamente dimenticate, ma andò molto a fondo nell’analisi delle organizzazioni sociali complesse. La sua idea era che, se non scompaiono, le organizzazioni complesse non possono che diventare sempre più complesse.
La Chiesa Cattolica del 2013 è un’organizzazione molto più complicata della Chiesa Cattolica di cinquant’anni fa. Un giornalista mi ha chiesto perché Benedetto XVI si è dimesso e il beato Giovanni XXIII (1881-1963), che negli ultimi anni era molto più malandato di Papa Ratzinger, è rimasto al suo posto. Ho risposto che in tutto il suo pontificato il beato Giovanni XXIII fece un solo viaggio, ad Assisi e Loreto. Mentre oggi si chiede al Papa che ogni due o tre mesi parta per Paesi e continenti lontani – le Giornate Mondiali della Gioventù, per fare un solo esempio, sarebbero inconcepibili senza il Pontefice – e che presieda decine di riunioni ogni mese.
Se si vuole un Papa che governi la Chiesa – la scelta del beato Giovanni Paolo II (1920-2005) di delegare ampiamente il governo ad altri, riservando a se stesso il contatto diretto con i fedeli, va rispettata e diede frutti eccezionali, ma è così legata alla sua personalità irrepetibile da non poter essere la regola –, il primo requisito di cui il Conclave dovrà tenere conto è che abbia le forze per farlo. E per farlo con vigore e decisione. Non manca chi cerca di sfruttare le accuse all’arcivescovo emerito di Los Angeles, il cardinale Roger Mahony, cui si chiede di non partecipare al conclave, e lo stesso gesto di Papa Ratzinger per concluderne che è l’ora per la Chiesa di passare a una direzione più «democratica» e meno sacrale e monarchica. Si tratta di autentiche sciocchezze.
La sacralità e l’unicità nella Chiesa della figura del Pontefice non derivano dalle modalità di esercizio del pontificato ma dal mandato ricevuto direttamente da Gesù Cristo. Per vie misteriose – talora, com’è ora avvenuto, tramite gesti eccezionali – questa sacralità si declina nella storia in modo diverso. Una Chiesa «democratica», con il Papa ridotto ad amministratore delegato, non sarebbe più la Chiesa Cattolica.
Ce l’ha ricordato tante volte Benedetto XVI. Ma ultimamente il nucleo del ministero petrino deriva direttamente dal brano del Vangelo di Matteo (16,17-18), dove il Signore ci rassicura pure sul fatto che anche stavolta la farina del diavolo finirà per andare in crusca: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Benedetto XVI ha viaggiato meno del suo predecessore, ma ha voluto andare due volte in Africa. Con questi viaggi – i cui testi sono stati purtroppo fra i meno letti del pontificato – ha cercato di trasmettere alla Chiesa universale la consapevolezza dell’importanza dell’Africa e del fatto che la vitalità della Chiesa va apprezzata su scala globale. A chi mi chiede informazioni sul «declino» della Chiesa Cattolica cerco sempre di spiegare che, secondo il più autorevole istituto mondiale di statistiche sulla religione, quello (protestante) fondato da David Barrett (1927-2011), Benedetto XVI fu eletto capo di una Chiesa che contava un miliardo di fedeli e ne lascia una che ne ha un miliardo e duecento milioni.
Questa crescita è avvenuta in gran parte grazie all’Africa, e ad alcuni Paesi dell’Asia, che insieme hanno più che compensato il declino in Europa. Ed è ora di finirla con l’atteggiamento paternalistico secondo cui la «qualità» dei cattolici africani sarebbe discutibile. Non solo il Papa in Africa ha detto il contrario, ma non è che la «qualità» dei cattolici europei sia sempre ragione di entusiasmo. Sotto il pontificato di Benedetto XVI si è anche verificato uno sviluppo inaudito, passato quasi sotto silenzio in Europa – ma non tra i musulmani, alcuni dei quali hanno purtroppo reagito con la violenza –: nell’insieme del continente africano, Nord Africa compresa, i cristiani – trainati dalla Chiesa Cattolica, la componente che cresce di più – hanno superato i musulmani.
L’Africa è ormai un continente dove il cristianesimo è la prima religione. Di tutto questo il Conclave dovrà tenere certamente conto. Non è necessario che il nuovo Papa sia africano. Ma certamente il suo sguardo sull’organizzazione complessa della Chiesa dovrà tenere costantemente presente il fatto che ci sono più cattolici praticanti in Congo – dove i cattolici sono il 52% – e in Uganda che in Italia, per non parlare del fatto che ogni week-end troviamo nelle chiese cattoliche delle Filippine un numero di persone superiore all’intera popolazione italiana, e ne troviamo venti milioni in India, nonostante in alcune regioni chi è cattolico rischi discriminazioni o peggio.
Non certamente per abbandonare l’Europa – la cui nuova evangelizzazione non potrà che rimanere una priorità –, ma per vedere i problemi della Chiesa con uno sguardo veramente cattolico, una parola che significa «universale», come hanno saputo fare il beato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Il Conclave terrà dunque certamente conto di questi due requisiti, per dirla ancora con Parsons, «funzionali»: una fibra in grado di reggere l’immane carico di un’organizzazione complessa, uno sguardo (e competenze linguistiche) non ristretto a un solo continente, ma universale.
E tuttavia, come tutti i Conclavi, privilegerà alla fine gli aspetti dottrinali. Ogni Pontefice ha le sue sfumature e peculiarità, ma esiste una «agenda Ratzinger» da cui è molto difficile che il successore possa discostarsi. Perché il pontificato di Benedetto XVI è stato straordinario quanto all’esposizione sistematica della dottrina. Il beato Giovanni Paolo II ha prodotto molti più documenti – alcuni a loro volta memorabili – ma Benedetto XVI, per la sistematicità con cui ha esposto il Magistero, può essere paragonato solo a Leone XIII (1810-2003), un Pontefice dei cui documenti non a caso in occasione del centenario del 2010 Papa Ratzinger ha raccomandato – purtroppo con scarsi esiti – lo studio sistematico e la presentazione ai fedeli.
Che cosa prevede l’«agenda Ratzinger»? Al centro di tutto sta quella che possiamo chiamare la chiusura dei conti lasciati aperti dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Il Papa lo ha ribadito nel lungo, sorprendente saluto della scorsa settimana ai parroci romani dov’è tornato al suo primo grande discorso, quello alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 in cui proponeva una «ermeneutica della riforma nella continuità».
Un’interpretazione del Concilio che metta in luce le riforme, e chieda alla Chiesa di accettarle come volute dai Pontefici e necessarie, senza sconti per nessuno, neppure per i seguaci di monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991), verso cui Benedetto XVI ha mostrato una grande benevolenza segnando però una linea rossa – la leale accettazione dei documenti del Vaticano II e dello stesso senso generale dell’evento come realmente lo vollero i Padri conciliari – oltre la quale non c’è la riconciliazione, ma solo lo scisma. Nello stesso tempo, un’interpretazione che inviti a leggere le riforme nella continuità con il Magistero precedente, e non come se si trattasse di bombe a orologeria deposte nella Chiesa da sovversivi e intese a distruggere tale Magistero.
E a chi – «da destra» o «da sinistra» – va ribadendo che i Padri che dominarono teologicamente il Concilio volevano sovvertire la Chiesa com’era stata prima del Vaticano II, ancora nell’ultimo discorso ai parroci Benedetto XVI ha ribadito che così si fa cattiva storia e si confonde il Concilio reale dei Padri con un «Concilio virtuale» inventato – certo con la complicità di tanti uomini di Chiesa – dai media. Il prossimo Pontefice non potrà che continuare – con toni e stili che gli saranno propri – questa grande battaglia per la corretta interpretazione del Concilio, dove si giocano il presente e il futuro della Chiesa.
L’«ermeneutica della riforma nella continuità» è la chiave per comprendere il pontificato di Benedetto XVI, la chiave che spiega tutti gli altri grandi temi, che saranno pure ben presenti al Conclave. Il primo – per numero d’interventi e importanza – è l’interpretazione secondo questa ermeneutica di uno degli insegnamenti più «difficili» del Concilio, quello sulla libertà religiosa. Benedetto XVI è stato il Papa della difesa intransigente della libertà religiosa contro l’ultra-fondamentalismo islamico, i regimi che ancora soffocano la religione in nome del comunismo, i nazionalismi aggressivi a base religiosa di Paesi come l’India, il laicismo di troppi governi occidentali.
Ma questa difesa è stata fondata su una rigorosa ricostruzione teologica e filosofica della nozione stessa di libertà religiosa come la presentò il Concilio, che non ha niente a che fare con il relativismo o con la falsa idea che tutte le religioni sono di ugual valore, ma è un concetto giuridico che chiede agli Stati moderni, per loro stessa auto-definizione incompetenti in materia di religione, di non interferire con il processo che porta ciascuno a formarsi le sue convinzioni religiose.
Dal momento che – in modi diversi se parliamo di Paesi musulmani o comunisti o dell’Occidente laicista – questa «immunità» voluta dal Vaticano II non è affatto garantita alle religioni, il successore di Benedetto XVI si troverà di fronte, e dovrà assumere, le stesse grandi sfide e dovrà essere pronto a reagire alle violazioni della libertà religiosa, che purtroppo non accennano a diminuire. La difesa della libertà religiosa ha sempre avuto, per Benedetto XVI, come altra faccia della medaglia, la denuncia costante del relativismo, anzi della dittatura del relativismo. Anzitutto, del relativismo morale e delle sue trascrizioni politiche. La «laicità positiva» degli Stati moderni è accettabile se significa che in una società pluralista le leggi devono essere indipendenti da ogni confessione religiosa. Ma non è accettabile se implica che le leggi siano indipendenti dalla morale e dalla verità, che valgono per tutti gli uomini dotati di ragione.
Nasce da qui la terza grande eredità di Benedetto XVI che sarà certamente al centro del Conclave, dopo l’interpretazione del Vaticano II e la difesa della libertà religiosa: il grande rilancio della dottrina sociale della Chiesa intorno ai principi non negoziabili della vita, della famiglia e della libertà di educazione. La sfida mortale lanciata alla Chiesa dall’ideologia del gender e dal numero crescente di Paesi che introducono il matrimonio omosessuale – di cui il Papa ha parlato con accenti accorati e drammatici negli auguri alla Curia Romana del 21 dicembre 2012 – conferisce un tono di particolare urgenza alla dottrina dei principi non negoziabili, la quale implica a sua volta la fondazione del diritto positivo nel diritto naturale richiamata con vigore nel discorso al Bundestag, il Parlamento tedesco, del 22 settembre 2011, nell’orizzonte del corretto rapporto fra fede e ragione, contro ogni laicismo e ogni fondamentalismo, spiegato nel celebre discorso del 12 settembre 2006 a Ratisbona.
Infine, un quarto punto che peserà nel Conclave. La denuncia della dittatura del relativismo e la stessa collocazione del Vaticano II nella storia della Chiesa e del mondo s’inseriscono in un quarto pilastro dell’eredità di Benedetto XVI, un altro rilancio, quello della teologia della storia. Nella grande enciclica «Spe salvi» del 2007 – un testo davvero fondamentale del pontificato – il Papa, sviluppando il discorso di Ratisbona, ci presenta una lettura teologica della storia dell’Occidente come progressivo abbandono della sintesi fra fede e ragione faticosamente costruita attraverso le tappe del protestantesimo, dell’Illuminismo e delle ideologie del XX secolo fino alla rivoluzione culturale iniziata nel 1968 che attacca la vita e la famiglia.
Questa putrefazione finale del processo di scristianizzazione è stata collegata esplicitamente, nel viaggio del 2010 in Portogallo, a quanto previsto nel messaggio di Fatima. Ed è in questo contesto che Benedetto XVI ha letto – al di là di tutte le provvidenze disciplinari e pratiche, che certamente saranno da subito sul tavolo anche del nuovo Pontefice – anche la tragedia dei preti pedofili, a sua volta spia di una crisi del sacerdozio cui si è cercato di porre rimedio con l’Anno Sacerdotale del 2009-2010, che ha però avviato un processo ben lontano dall’essersi concluso.
Saper trasmettere questo senso di fine di un mondo, che ha fatto da sfondo anche alla decisione «apocalittica» delle dimissioni, sarà un requisito fondamentale che i cardinali cercheranno nel nuovo Papa. Parlando di un avvenimento elettorale molto meno importante del Conclave, le elezioni politiche italiane, mi sembra che abbia colto perfettamente il punto, in un suo comunicato della settimana scorsa, l’arcivescovo di Bologna cardinale Carlo Caffarra: «La vicenda culturale dell’Occidente è giunta al suo capolinea: una grande promessa largamente non mantenuta. I fondamenti sui quali è stata costruita vacillano, perché il paradigma antropologico secondo cui ha voluto coniugare i grandi vissuti umani (per esempio l’organizzazione del lavoro, il sistema educativo, il matrimonio e la famiglia …) è fallito, e ci ha portato dove oggi ci troviamo. Non è più questione di restaurare un edificio gravemente leso. È un nuovo edificio ciò di cui abbiamo bisogno. Non sarà mai perdonato ai cristiani di continuare a essere culturalmente irrilevanti».