Il Timone n.223 Dicembre 29022
Tornati al centro dell’attenzione, i «free party» hanno decenni di storia. E uno a scopo: assecondare, a colpi di droghe e decibel, il delirio dionisiaco
di Mario A. Iannaccone
Da almeno trent’anni i giornali riportano la notizia di raduni illegali, i rave, organizzati senza le minime precauzioni di sicurezza, in cui gruppi di giovani si ritrovano a ballare per giorni assumendo droghe. Gli esperti di musica pop elettronica tracciano le origini dei rave sin dai primi anni Ottanta, quando ci furono forme di raduno analoghe a quelle attuali, gli «acid party»; il fenomeno è diventato massiccio nel decennio successivo in gran parte del mondo occidentale.
I rave sono adunanze organizzate, anche se semiclandestine, nelle quali viene suonata musica mixata da uno o più disk jockey in presenza, che “lavorano” brani registrati o semplici basi. Si tratta di musica elettronica che comprende numerosi sottogeneri, come Drum&Bass, Trance, Industrial, Techno, Hardcore, a seconda dei suoni usati e di particolari stilemi. Una caratteristica peculiare di queste musiche elettroniche e il ritmo delle percussioni molto elevato, tipicamente 100 74 battiti per minuto, è la presenza di sistemi di diffusione molto potenti ad altissimo volume virgola che provocano saturazione sonora.
La regina della “crew”
Ciò che però distingue un rave da eventi simili che si tengono in discoteche, e che deve essere organizzato in modo clandestino o semiclandestino, senza avvisare le autorità, in luoghi possibilmente isolati, come vecchie fabbriche dismesse, campi aperti se e state, o hangar. E’ un “evento” che ha bisogno di un grande spazio, molta gente e una certa segretezza per evitare che venga preventivamente vietato dalle forze dell’ordine, visto che la “libertà” è un prerequisito dei rave.
Quando viene fissato luogo e giorno dagli organizzatori, la crew – composta spesso dai dj che porteranno musica, generatori e amplificazioni – invia i dettagli di partecipazione con poco preavviso sui social. I frequentatori di rave li definiscono «free party», che indica la loro gratuità (non si paga alcun biglietto) e la libertà di comportamento concessa. Un elemento ineludibile di questo tipo di ritrovi, senza il quale i rave non sarebbero tali, è l’associazione con le droghe. La “cultura del rave” è fortemente collegata alla “cultura della droga”. In inglese to rave significa delirare vale a dire perdita di consapevolezza di tempo e spazio, di inibizioni e logica, follia temporanea insomma, ricercata con le droghe e virgola la musica, la fatica.
Acidi e pasticche
Per facilitare l’ingresso in una vera e propria trance ipnotica che superi fatica inibizioni, gli spacciatori vendono droghe, perlopiù sotto forma di pasticche che appartengano spesso alla famiglia indicata dagli acronimi Mda e Mdma, “club drug” o “party drug”, perché creano un senso di eccitazione e di estasi che rende più facili i rapporti sociali. Forte è anche il consumo di anfetamine, metanfetamine e cocaina, che eccitano e non fanno sentire la fatica, oltre agli psichedelici Lsd e ketamina.
Molto presenti sono anche gli acidi organici Ghb, Gbl, Db, chiamati anche droghe dello stupro, perché inibiscono la volontà. Non manca mai la cannabis, che oggi si trova in concentrazione di principio attivo sino a venti volte più alta rispetto a venti o trent’anni fa. Ogni droga ottiene un effetto diverso, ma sono preferite quelle che fondono la percezione del danzatore con la musica, annullando il senso di tempo e spazio. In altri casi l’effetto che si ricerca e l’isolamento, senza alcuna implicazione sociale
Zone temporaneamente autonome
Attorno ai rave gira un mondo, una “cultura”. Il sociologo Peter Lamborn Wilson, alias Hakim Bey (1945- 2022) – sostenitore della pedofilia rituale -, teorico di un tecno-anarchismo neopagano, scrisse un’opera considerata fondamentale per chi segue il fenomeno: Taz. Zone temporaneamente autonome (prima ed. 1993). Secondo Wilson, i rave sono TAZ come la Tortuga dei pirati o le comuni anarchiche disseminate nelle rivolte della storia.
L’atmosfera dei rave sarebbe favorevole alla trasformazione libertaria dell’individuo, alla distruzione di condizionamenti, alla condensazione di zone “libere” da ogni autorità. Il delirio dionisiaco indotto da droghe e suoni percussivi che aumentano la frequenza cardiaca equivale a riappropriarsi della propria libertà, a sciogliere inibizioni, condizionamenti e logica. Wilson (e altri) hanno dato una sorta di supporto teorico o giustificazione al «delirio» dei rave. Durante i rave, il consumo di droghe può portare a comportamenti sessuali rischiosi o anche all’annullamento del senso di pericolo.
Polizia (quasi) impotente
Molte droghe eliminano la consapevolezza del mondo circostante e fanno sì che i giovani ballino per ore, soli, davanti a casse che sparano migliaia di watt di suoni e percussioni. Con l’assunzione di alcol e droghe si perde il senso del tempo, della fatica, del proprio corpo, e questo porta molti individui a esporsi a rischi di disidratazione, intossicazione, attacchi cardiaci e violenza. Le ragazze soprattutto possono essere esposte a rischi di violenze e stupri.
Le droghe si presentano sotto forma di pasticche colorate, poco costose, e inducono ogni tipo di comportamento rischioso, oltre ai rischi di intossicazione al fegato. Nei rave non vi è alcun controllo, i servizi d’ordine raramente offrono una protezione seria. Il vero “rave” non è quello addomesticato delle discoteche estive, è uno sballo rischioso.
I casi di intossicazioni, morti, psicosi non sono rari. Sapere che un figlio o una figlia giovane va a un rave dovrebbe mettere in allarme un genitore. I rave sono una festa soprattutto per spacciatori occasionali o professionali. Se anche le forze dell’ordine vengono chiamate, è difficile che intervengano con successo durante l’evento perché far defluire masse di giovani confusi o drogati e rischioso. Tipicamente la scena che si presenta, alla fine di un evento rave, è quello di un mare di cartacce, persone semi svenute, adolescenti che vomitano, individui che vagano sperduti, innestato confusionale e danneggiamenti. Per favore non chiamiamole «feste»
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