Articolo pubblicato su Il Borghese n.18
del 1999
Mammona, la dea cui si dedicano gli edifici più belli e imponenti, le banche (come i cristiani medievali elevavano a Gesù cattedrali), ha veramente il volto ambiguo e seminascosto di un demone: per lei si combattono le guerre e si commettono le peggiori turpitudini, di lei si parla nelle prime pagine degli inserti interni, a lei si è genuflessa la divinità dei due secoli precedenti, la politica.; eppure solo i suoi sacerdoti possono dire di conoscerla.
di Rino Cammilleri
La scorsa settimana elogiammo gli italiani per aver compreso, primi al mondo, la portata della rivoluzione keynesiana in economia. Ora ciò accade dopo la grande crisi di Wall Street, e l’Italia era entrata del famigerato Ventennio. Dunque, a scanso di equivoci e di denuncie per apologia del disciolto partito fascista, dobbiamo dedicare anche questa puntata all’argomento (d’altra parte, ai digiuni di economia alcuni chiarimenti sono d’obbligo).
Economia, questa sconosciuta. Sì, perché la regina del mondo moderno. Mammona, la dea cui si dedicano gli edifici più belli e imponenti, le banche (come i cristiani medievali elevavano a Gesù cattedrali), ha veramente il volto ambiguo e seminascosto di un demone: per lei si combattono le guerre e si commettono le peggiori turpitudini, di lei si parla nelle prime pagine degli inserti interni, a lei si è genuflessa la divinità dei due secoli precedenti, la politica.; eppure solo i suoi sacerdoti possono dire di conoscerla. Conoscerla? Forse, dal momento che uno dei nostri più importanti economisti, Sergio Ricossa, la definisce “scienza inesistente”.
Se il denaro è davvero lo sterco del demonio, realmente la cosiddetta scienza economica ne è l’icona. Satana è il senza volto, l’Ambiguo, il Menzognero e l’Omicida per eccellenza, colui che si muove nelle tenebre e vive di penombra. E’ un caso che gli adepti della setta economica per antonomasia, i marxisti, siano quelli che di economia ne sanno meno? E’ un caso che dei veri padroni del mondo, quelli che non rispondono ad alcun elettorato, solo pochi sono in grado di dire nome e cognome, e ancora minore è il numero di coloro che sappiano riconoscerne il viso?
L’economia moderna ha come padre uno scozzese (forse non a caso), Adam Smith: significativamente il nome del primo uomo e il cognome più diffuso che esista. Costruì il suo castello di parole su una massima, poi divenuta il Primo Principio: comportamento razionale è cercare di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo. Questo è il bullone che sostiene l’intera opera. Smontatelo, tutto crollerà. Infatti, personaggi esemplari come San Francesco s’Assisi risultano, in base a tale principio, assolutamente irrazionali. E altrettanto irrazionale appare anche un altro grande italiano, San Tommaso d’Aquino, l’unico che abbia risolto il problema principale di tutta la scienza economica, quello del prezzo.
Da Smith in poi questo problema ha lacerato il mondo in due. Da una parte, la cosiddetta scuola liberista ha stabilito che è l’incontro tra la domanda e l’offerta a stabilire il prezzo. Così una cosa vitale come l’aria è gratis; una inutile come un diamante è costosissima. Dall’altra parte c’è Marx, l’economista che perdeva (i soldi di Engels) regolarmente in Borsa, il quale inventò il concetto di valore-lavoro: il prezzo di una cosa è dato dal lavoro in essa contenuto. Ergo, il padrone della fabbrica, che non produce direttamente, è un ladro.
Ma il problema del prezzo è come quello dell’origine dell’uovo e della gallina: è un non-problema, assolutamente irrisolvibile con criteri esclusivamente economici. Poiché le scienze, tutte, fanno cap all’uomo, e poiché l’uomo non è fatto di sola razionalità, i problemi posti da una disciplina devono e possono essere risolti con i criteri di un’altra. E San Tommaso lo sapeva benissimo, infatti risolse il dilemma ricorrendo alla morale. Diceva: il prezzo del pane? Non troppo alto, sennò il povero non può comprarlo, né troppo basso, altrimenti chi lo fabbrica non ne è remunerato. Dunque (ed ecco intervenire un’altra scienza, la politica), sia l’autorità a fissare il “giusto” prezzo. E il discorso è chiuso.
Nel nostro secolo, l’unico a cercare di rimettere mano al bullone di Smith (di cui sopra) fu Toniolo, l’economista cattolico tanto citato quanto poco letto dai politici democristiani. I quali, prevalentemente laureati in lettere e filosofia, lasciarono le lettere e la filosofia ai comunisti, e l’economia ai socialisti. Ma adesso ritorniamo al nostro Keynes, quia de eo fabula narratur (quelli che non sanno il latino ringrazino i ministri della pubblica istruzione italiana, i quali tennero per sé il dicastero e abbandonarono al altri la scuola). Keynes diceva: signori, la situazione è caratterizzata da magazzini pieni di merci che nessuno ha i soldi per comprare. Infatti, i crac a catena provocati dalla crisi di Wall Street generarono fallimenti, i quali generarono licenziamenti, i quali generarono miseria.
Ma era una crisi finanziaria, cioè di carta: i beni c’erano, e in abbondanza. Solo che i disoccupati non potevano acquistarli. Allora ci voleva qualcuno che regalasse denaro a chi non ne aveva. Quest’ultimo lo avrebbe speso, cioè dato ad un negoziante. Il quale, vuotato il magazzino, avrebbe ricostituito le scorte. Ma è noto che il salumiere, venduta l’ultima fettina di salame, compra dal suo fornitore un salame intero. Ciò vuol dire che una minima spesa iniziale genera un’ulteriore spesa, ma moltiplicata. Keynes calcolò esattamente quanto si sarebbe moltiplicata una certa cifra iniziale, e disse che occorreva fare attenzione alla “propensione al consumo” di ognuno: cioè, incassate cento lire. Quante di queste spendo e quante ne conservo. La statistica ci può dire con precisione qual sia la propensione al consumo di un popolo. Conosciutala, è facile calcolare la cifra iniziale che devo mettere in circolo per vederla moltiplicarsi nella misura desiderata.
Già, ma chi li tira fuori, i soldi iniziali? Semplice: lo Stato, l’unico ente che non ha scopo di lucro ma ha i soldi, soldi che può farsi dare quando vuole, in virtù del suo potere impositivo dai cittadini. Quella keynesiana fu una vera rivoluzione perché fino a quel momento l’economia era vista con gli occhiali di Paperon de’ Paperoni: spendere il minimo, incassare il massimo. L’etica calvinista (o talmudiana) dei grandi magnati nordamericani faceva il resto.Marx Weber, che analizzava solo i prussiani, era idolatrato.
La “mano invisibile del mercato” – cioè gli operai minacciati di licenziamento e dunque disposti ad accettare riduzioni di salario – avrebbe risolto le cose “nel lungo periodo”. Solo che il “lungo periodo” si rivelò più lungo della vita di un uomo, più lungo della vita delle imprese, più lungo del sistema capitalistico. Ed è n discorso troppo importante per non tornarci sopra la prossima volta.