Alleanza Cattolica 4 Febbraio 2023
«La morte non è mai una soluzione. “Dio ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte” (Sap 1,14)».
di Chiara Mantovani
Il Messaggio dei vescovi italiani, per la 45a Giornata dedicata alla Vita è, quest’anno, particolarmente incisivo. È un’occasione di bilancio: la ‘cultura’ di morte ha colpito senza distinzione, si è insediata nel pensiero delle élite come delle persone semplici ed è divenuta il rimedio rapido, apparentemente indolore, proposto per tutti i problemi seri della vita.
Riecheggiano, nelle considerazioni vescovili, la consapevolezza e la franchezza delle consegne affidateci dal nostro fondatore, Giovanni Cantoni: lucidità nelle diagnosi, forza d’animo per affrontare la realtà quale essa è, coraggio perché la storia non è un cieco vagare, ma ha una direzione di salvezza. C’è sempre, ma proprio sempre, un bene possibile da compiere. Però bisogna essere consapevoli che c’è un mondo in rovina da ricostruire, nello specifico c’è la corretta concezione della persona umana da far accettare alla ragione e al cuore dei contemporanei. Nessuna civiltà potrà mai ricostruirsi sul fraintendimento di base di chi è l’essere umano, ogni alternativa – a maggior ragione la reificazione dell’umano che oggi governa il mondo – è un vagare nel deserto dove domina la morte.
Il titolo della Giornata di quest’anno è una citazione del libro della Sapienza, ma il testo scritturale [Sap 1,16] continua, ed è spietato:
[Sap 1,16] “Gli empi invocano su di sé la morte con gesti e con parole, ritenendola amica si consumano per essa e con essa concludono alleanza, perché son degni di appartenerle”.
“Ritenendola amica”, reputandola buona, la propongono, la difendono, la impongono quasi fosse un diritto anziché una ferita. Che cosa è, altrimenti, il rifiuto anche di prendere in considerazione l’ipotesi che le donne siano stanche di abortire e che desiderino vedere valorizzato il valore sociale della maternità, non con le medaglie, ma con condizioni favorevoli? Perché, se non per una insana ‘amicizia’ con la morte, scartare le persone se non sono perfette, se sono difficili da accudire, se fanno tristezza nella malattia, se ‘costano’ denari e impegno? Se si ama, nulla pesa. Se si disprezza, nulla si sopporta. In mezzo ci sta la fatica e il dolore, che chiedono di essere sollevati, compresi, dichiarati senza vergogna e insieme accuditi senza pietismi.
La nostra società, che deve fare i conti sia con l’economia che con l’antropologia, sembra più interessata alla prima che alla seconda. Eppure, i cattivi maestri hanno vinto con le idee prima ancora che con i soldi.
E dunque, ancora una volta, riprendiamo il fardello, invero non alleggerito dopo 45 anni, per opere di carità materiale e intellettuale che costruiscano una cultura amante della ragione e della vita: questo abbiamo scelto per noi, fino alla nostra morte, che sappiamo essere nelle mani amorevoli di un Padre. Vogliamo costruire rifugi di civiltà, con parole di verità, con umile ma solida certezza: la vita si difende nel costruire la città degli uomini, bella solo se assomiglia alla città di Dio.
Noi siamo un altro popolo che vaga «nel deserto, nella steppa, non trovando il cammino per una città dove abitare, siamo affamati e assetati, viene meno la nostra vita. Abitiamo nelle tenebre e nell’ombra di morte, prigionieri della miseria e dei ceppi, perché ci siamo ribellati alla parola di Dio. Ma il Signore ci libera dalle nostre angustie, sazia il desiderio dell’assetato, e l’affamato ricolma di beni, ci conduce sulla via retta, perché camminiamo verso una città dove abitare» [cfr. Sal 107, 4-11].