a cura di Gianfranco D’Ettoris
Paghino i ricchi. Chi più ha, più paghi. Frasi simili corrono frammischiate a promesse elettorali, programmi, minacce, desideri, auspici, normalmente con una pesante dose di populismo e di demagogia. Come tutte le parole d’ordine, sono sovente svincolate dalla realtà e intrise di rozzi schematismi.
Per ammantare di pretesi orpelli giuridici simili motti, si fa ricorso alla Costituzione, segnatamente all’articolo 53: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”
Come viene normalmente inteso questo articolo? Nel senso, appunto, di “chi più ha, più paghi”. Ovviamente, in bocca a molti sputasentenze non si fa alcuna differenza fra reddito e patrimonio. Eppure, la disponibilità di beni che non producono reddito non fornisce alcuna “capacità contributiva” al cittadino. Infatti, per “concorrere alle spese pubbliche” costui è costretto o a ricorrere a redditi diversi da quelli (non) derivanti dal proprio patrimonio o ad alienare una parte del patrimonio stesso per trarne un introito da girare in conto imposte.
In entrambi i casi viene impoverito, come ovviamente capita per qualsiasi obbligo tributario, ma non già sui propri redditi, come è invece nel caso d’imposte non patrimoniali.Ciò premesso, se si rilegge il dibattito svoltosi alla Costituente quando fu discusso e approvato l’articolo 53, ci si rende conto che ben diversa era la volontà dei patres rispetto alla vulgata posteriore. La materia tributaria fu trattata direttamente in aula, nella seduta del 23 maggio 1947, sotto forma di emendamenti. Dalla fusione di alcuni di essi emerse il testo unitario, approvato, entrato e rimasto pari pari nella Carta.
Dal dibattito si capisce che “progressività” e “capacità contributiva” erano viste come due facce di una sola medaglia: lo scopo dei proponenti era tutelare i più disagiati. Si voleva, insomma, evitare che, fondandosi sulla “capacità contributiva”, si potessero colpire redditi minimi o bassi, per esempio non tenendo in conto i carichi familiari. Era quindi il timore di eccessivo fiscalismo a muovere i costituenti, non già la volontà fiscalistica di “punire i ricchi”, come poi si è preteso.
Era altrettanto palese che la progressività non poteva colpire tutti e singoli i tributi. Il principe dei costituenti, ossia Meuccio Ruini, presidente della commissione per la Costituzione, fu molto chiaro nel rilevare come “non tutti i tributi diretti possono essere applicati con criterio di progressività” e del pari come “ai singoli tributi indiretti non si addice il metodo della progressività”. Dopo aver ricordato la necessità di concedere esenzioni, citando i “primi anni nella costruzione di case”, Ruini collegava il problema della “capacità contributiva” al criterio della “progressività”, rilevando che bisogna fermarsi al principio “che l’onere complessivo dei tributi che gravano su ogni cittadino sia progressivo”.
In una seconda replica Ruini spiegò come progressivo fosse il sistema tributario nell’insieme, non già i singoli tributi. Le sue parole erano inequivocabili: “Non tutti i tributi possono essere progressivi; e ve ne sono, di diretti e di reali, che debbono essere necessariamente proporzionali; ma ciò non toglie che il sistema tributario debba essere, nel suo complesso, ispirato a criteri di progressività.” Diversamente dal comune sentire di certa classe politica, la Corte costituzionale ha sempre rigorosamente rispettato tale principio, sancendo che progressivo dev’essere “il sistema tributario nel suo complesso”, senza che i singoli tributi debbano risultare tali.
Le sentenze non sono isolate, perché si susseguono ripetendosi. Va rilevato come essenziale sia sempre stato ritenuto il legame fra “principio di progressività” (che presuppone un incremento dell’aliquota al “crescere del reddito”) e “reddito individuale del contribuente” (sentenza n. 159 del 1985). Non si capisce, quindi, come taluni politici possano fantasticare di un’Imu “progressiva”.
Sempre il giudice delle leggi aveva sancito (sentenza n. 128 del 1966) che la “progressività” è applicabile sì alle imposte personali, ma non indifferentemente a tutte le altre diverse imposte, anche perché “non tutti i tributi si prestano, dal punto di vista tecnico, all’adattamento al principio della progressività, che, inteso nel senso dell’aumento di aliquota col crescere del reddito, presuppone un rapporto diretto fra imposizione e reddito individuale di ogni contribuente”.
Concetti simili erano stati espressi alla Costituente, nella consapevolezza che l’imposta patrimoniale, proprio perché non direttamente indice del reddito del contribuente, non si presta alla progressività.
Nemmeno si capisce perché si contesti talora la riduzione delle aliquote, denotandone la supposta incostituzionalità. Gli atti della Costituente chiariscono a iosa che deduzioni e detrazioni hanno effetti di “progressività”, volti a tutelare il principio della “capacità contributiva” che primariamente stava a cuore ai redattori della norma costituzionale.