Abstract: Conservatori, non reazionari. Un convegno a Roma con Marcello Pera e Giovanni Orsina per ripensare il conservatorismo dal punto di vista politico e culturale senza nostalgie reazionarie. La crisi del regime storico liberale radicale, l’antropologia realistica e il contributo dell’Italia. Cosa può essere il conservatorismo oggi? Un movimento culturale anti ideologico, anti astratto, pragmatico, reattivo, che si specchia nel suo nemico e ne diventa il peggior nemico.
Tempi 4 Aprile 2023
Che cosa possono conservare i conservatori
Un convegno ieri a Roma con Pera e Orsina per ripensare il conservatorismo dal punto di vista politico e culturale senza nostalgie reazionarie. La crisi del regime storico liberale radicale, l’antropologia realistica e il contributo dell’Italia
di Pietro Vietti
Chi è il conservatore? E soprattutto, cosa deve e può conservare? Se lo sono chiesti ieri a Roma politici e studiosi intervenuti al convegno “Conservatori del futuro”, organizzato presso la Biblioteca del Senato da Alleanza Cattolica e dal network di associazioni Ditelo sui tetti. Non una riunione di nostalgici reazionari, ma una riflessione approfondita che parte da un dato di fatto: le circostanze attuali in Italia impongono di non perdere l’occasione per iniziare un movimento politico e culturale che nel nostro paese non ha mai avuto ufficialmente spazio, e che non può essere la mera riproposizione di schemi presi in prestito da altre tradizioni, quella anglosassone in primis.
I conservatori e l’uomo «parte di una comunità»
«Se alla fine di una giornata come questa i conservatori avranno un po’ più di coraggio a definirsi tali credo che avremo raggiunto già un buon risultato», ha detto aprendo i lavori il senatore Marcello Pera, che ha ricordato quando l’aula in cui si è svolto il convegno era stata inaugurata dall’allora cardinal Ratzinger, «che io definisco grande conservatore, anche solo perché voleva conservare la fede cristiana». Nel suo intervento Pera ha insistito sul fatto che quella conservatrice è «una famiglia politica importante, e adesso abbiamo un presidente del Consiglio che si è richiamata con coraggio e orgoglio al conservatorismo, non bisogna avere ritrosia a definirsi così». Ma che cosa vuole conservare un conservatore oggi, si è chiesto l’ex presidente del Senato.
Se il liberalismo mette al centro della sua visione politica e culturale «l’uomo in sé, l’uomo in quanto uomo, dotato di diritti universali che dunque possono e devono essere anche “esportati”», e la socialdemocrazia ha invece a cuore «l’uomo sociale», il conservatorismo mette al centro l’uomo «in quanto parte di una comunità, con relazioni che hanno una storia che per esistere necessita di una patria, di una nazione… Un uomo che è figlio della propria tradizione, che è ciò che è oggi perché condizionato dalla storia a cui appartiene». Il conservatore «conserva la tradizione»
Pera: «Conservare la tradizione europea, che è cristiana»
Dobbiamo «comprendere la nostra tradizione e lasciare la storia priva dell’illusione palingenetica. I conservatori devono conservare la tradizione europea, di cui il principio fondamentale è il cristianesimo. Per il liberale e il democratico la religione è un ostacolo, per il conservatore eliminare la religione vuol dire eliminare l’identità. Chi sono io? Se non abbiamo una risposta forte a questa domanda diventiamo preda di chiunque». La teoria del conservatore non è “non cambiare niente”, ha sottolineato il senatore: «La società cambia, e i programmi politici aiutano il cambiamento, ma non tutti i programmi politici sono accettabili. Il conservatore accetta le novità, ma è scettico nei confronti di cambiamenti e riforme che non siano compatibili con il massimo della tradizione grazie a cui noi viviamo». Il Parlamento europeo, ha concluso Pera, «ci dà un diritto al giorno, e non ci si può opporre perché, ci dicono, “è progresso”. Ma quella legislazione non può essere accettata dal conservatore, perché è anticristiana, se la accolgo scompare la mia identità e quindi scompaio io».
Giudicare il presente, non innamorarsi del passato
«Per conservare il futuro bisogna giudicare il presente», ha detto Domenico Menorello, coordinatore di Ditelo sui tetti, citando il «cambiamento d’epoca» di cui parla Papa Francesco: «L’uomo non sa più chi è, la tradizione non c’è più, non sappiamo più cosa conservare. Bisogna tornare a fissare di nuovo le cose stesse, sapendo – come diceva Montale – che “tutto porta scritto più in là”, che l’uomo è un essere mendicante di senso, è homo religiosus». Da qui nascono, come conseguenze pratiche, politiche, una «prudenza nell’uso della legge», un impegno pubblico e l’importanza della sussidiarietà.
«Il conservatore è un innamorato dell’eterno, non del passato», ha detto il reggente nazionale di Alleanza Cattolica, Marco Invernizzi, che ha ricordato una frase di Giovanni Cantoni: «Chi sbaglia storia sbaglia politica». Il mondo che ci vogliono imporre è quello di un’alternanza progresso-conservazione, ha dettagliato Invernizzi, con i conservatori ridotti al ruolo di chi ogni tanto deve rassicurare la gente dalle eccessive fughe in avanti del progressismo, vagheggiando un improbabile ritorno al passato. Invece bisogna «partire dall’esistente per cambiarlo in meglio: evitare il moderatismo, che si appella al compromesso sui valori per stare in equilibrio, ma anche non prescindere da cinque secoli di modernità, dimenticare il presente, volere tutto e subito». Partire dalla realtà, non pensare che il mondo cambierà e diventerà improvvisamente migliore perché a settembre ha vinto la destra, non sopravvalutare le possibilità dell’azione politica, essere consapevoli che il lavoro da fare è «lento e progressivo».
Orsina: «Il regime storico liberale radicale è in crisi»
Ma cosa vuol dire essere conservatori nel contesto storico in cui siamo? Lo ha spiegato bene Giovanni Orsina, professore di Storia contemporanea all’Università Luiss Guido Carli di Roma, partendo dall’osservazione che il contesto in cui viviamo, e che Orsina definisce come “lacerazione della storia” è «un’opportunità per ripensare il conservatorismo anche da un punto di vista culturale. Abbiamo vissuto una ribellione politica “populista”, anche se il termine è impreciso, figlia di una generale scontentezza. Scontentezza di cosa? Di un “regime storico”, di un modo di organizzare la vita delle democrazie, che è entrato in crisi». Orsina lo chiama “regime storico liberale radicale”, la dove per “regime” non si deve pensare al nazismo o al comunismo sovietico.
Il politologo si riferisce all’individualismo e al globalismo, presentato per anni come “inevitabile e positivo”, e all’anti-tradizionalismo, «tre elementi che definiscono l’utopia della decontestualizzazione: l’essere umano viene decontestualizzato, gli si dice che il suo contesto è il globo, che può autocostruitosi perché libero e senza contesto. La prima conseguenza di questo atteggiamento è l’abbassamento dell’intensità della politica, che ha bisogno di una polis per funzionare. Parallelamente c’è l’enfasi sugli strumenti non politici: il mercato, il diritto, le tecnoscienze, i processi di rimoralizzazione attraverso il cosiddetto politicamente corretto, che trasforma la morale e si declina nell’ottimismo progressista prima (“comportati bene e tutto andrà per il meglio”) e nel catastrofismo poi (“comportati bene o tutto finirà male”)».
Il limite storico di individualismo e globalismo
Da dove viene questo regime? Non solo da sinistra, spiega Orsina: lì nasce negli anni Sessanta, con la negazione della tradizione. Ma a partire da allora si innesca un «gioco di specchi» tra progressismo e neoconservatorismo che spinge alla costruzione del regime storico liberale radicale: «La reazione conservatrice degli anni Ottanta, quella di Reagan e Thatcher, è centrata sul mercato, si adatta al regime liberale radicale, e scivola anch’essa verso decontestualizzazione. La sinistra a sua volta risponde al conservatorismo anni Ottanta con la cosiddetta terza via».
Tutto questo entra in crisi nel 2001, con il ritorno dei conflitti identitario i, e il tentativo fallito di Bush di mettere i muscoli al servizio del regime. Poi vengono gli anni della grande recessione, quando la gente si accorge che l’ottimismo non ha mantenuto promesse, e appare evidente a molti «il limite antropologico della decontestualizzazione: funziona poco e per pochi. Da qui parte la triplice ribellione triplice: contro le promesse non mantenute, contro i nuovi pericoli di un mondo che era stato descritto come in pace perché globalizzato, contro un’antropologia non soddisfacente». Si è così aperta una frattura nella società, «le classi dirette rifiutano la promessa di futuro delle classi dirigenti. Orsina paragona la crisi del regime liberale radicale a quella del regime comunista: «entrambi falliscono quando fallisce la loro promessa di futuro». È la «ribellione del vistocongliocchi contro il sentitodire».
Il contributo dell’Italia a ripensare il conservatorismo
E allora cosa può essere il conservatorismo oggi? Il professore della Luiss lo definisce come un movimento culturale «anti ideologico, anti astratto, pragmatico, reattivo, che si specchia nel suo nemico e ne diventa il peggior nemico. Parte dalla storia, non può fare astrazione. Ecco perché immaginare di tornare indietro sarebbe un errore. Il conservatore oggi deve prendere atto della storia che è passata, sapere che anche tornare in quella tradizione sarebbe un sentitodire. Possiamo pensare di ricostruire, non di “tornare”. La ribellione populista è un fatto, una dimostrazione del fatto che la gente rifiuta l’ordine storico liberale radicale. Da qui si può partire e mettersi a specchio e immaginare un regime storico diverso, liberal conservatore».
Orsina parla di «antropologia realistica: la ribellione è stata contro la antropologia riflessiva. Mounier diceva che “l’uomo è solido solo sotto forma di leghe”. L’antropologia liberale radicale fa emergere solo il desiderio di libertà, che è sacrosanto ma non basta». La natura umana è sempre “ancorata” a qualcosa, «la tabula non può essere rasa del tutto, ci sono esigenze dell’animo umano che non puoi fare fuori». Da dove partire? Non dal conservatorismo anglosassone, come ha sottolineato in un suo intervento successivo anche il deputato di Fdi Lorenzo Malagola, parlando di «conservatorismo mediterraneo». Secondo Orsina l’Italia può «dare un grande contributo al ripensamento del conservatorismo: è un paese di “piccole patrie”, come diceva Pasolini: eterogeneo, orgoglioso, più privato che pubblico, appartiene all’Occidente ma è anche periferico. Conosce l’antropologia realista perché già la sperimenta sulla propria pelle».
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