di Dino Cofrancesco
Capita spesso, soprattutto in Italia, di imbattersi in “intellettuali militanti” che, in nome di una generosa estensione dei “diritti sociali”, prospettano “riforme di struttura” così radicali —negli assetti familiari, nella proprietà, nell’amministrazione di scuole, ospedali, tribunali, apparati di polizia, nella gestione dei “beni comuni” — da indurre a chiedersi: ma che cosa li distingue dai massimalisti d’antan? Persino il loro pacifismo (non sempre ingiustificato sol che si pensi alle guerre volte all’esportazione della democrazia) assume toni e valenze da rimettere in questione la logica stessa degli stati e dei loro confini.
Cosa hanno a che vedere con Stalin loro che si battono contro la violenza delle istituzioni, che insorgono contro la repressione del dissenso, che sono sempre lì pronti a denunciare il fascismo che si annoda nelle più diverse relazioni sociali — dalla famiglia al sindacato? Non tener conto di questo riflesso condizionato libertario, significa assimilarli ai guardiani del Gulag, loro che del Gulag sarebbero le prime vittime a causa delle loro denunce sempre pronte contro le prevaricazioni del potere.
A non pochi amici liberali, che pur dissentono nettamente dalla loro posizioni ideologiche, questa attitudine “fa tenerezza”: tale indulgenza è motivata dal sospetto (o dalla speranza) di avere a che fare, in fondo, con liberali estremisti, che non hanno certo capito la natura e i vantaggi della “società aperta” ma che potrebbero essere affidabili compagni di strada qualora una nuova dittatura (di destra o di sinistra) minacciasse il nostro paese.
Confesso che a sentirli parlare, a leggere i loro articoli, saggi e proclami, non riesco a reprimere un sentimento opposto e certo politicamente scorretto: una grande, irreprimibile, simpatia per il compagno Stalin, quello “regolarmente iscritto al partito” come lo definisce il protagonista del Dormiglione, una esilarante satira politica di Woody Allen (sulle orme di George Orwell). Perché tanta “tenerezza”? Per la ragione molto semplice che Stalin non è un’”anima bella” ma un politico “che si sporca le mani”, che si assume la parte del “cattivo”, nella consapevolezza che se si vogliono raggiungere certi fini (in soldoni, la distruzione del “mondo borghese”) è inevitabile il ricorso a certi mezzi.
In questa tragica determinazione — che, a ben guardare, lo accomuna a Robespierre, persecutore implacabile di ogni lacerto dell’ancien régime ma tutt’altro che sadico e crudele: le teste tagliate gli sembravano una dolorosa necessità — Stalin incarna la weberiana “etica della responsabilità” (nei confronti della “causa” che intende servire, la quale, beninteso, non è la nostra): accetta la sfida della storia e, come Machiavelli, è disposto a vendere l’anima pur di fondare lo stato nuovo.
Il segretario del PCUS non è un rivoluzionario da salotto o un “radical chic”: è uno che conosce bene la “feccia di Romolo”, sa quanto gli uomini siano inaffidabili (per questo gli stessi fedelissimi vengono controllati dalla polizia segreta) e sa fin troppo bene che aristocratici, capitalisti, borghesi, reali e archimandriti vari non si lasciano portar via la “roba” senza reagire.
La politica, per lui, non si fa coi pater noster ma neutralizzando gli avversari con la soppressione fisica o l’internamento in glaciali campi di lavoro e di “rieducazione”.
L’antistalinismo dell’estrema sinistra, in virtù di queste brevi considerazioni, diventa un insopportabile “lusso dello spirito” ma, soprattutto, un segno di leggerezza e di ingratitudine. Significa volere qualcosa ma ripudiare o demonizzare chi è disposto a venire a patti con le “potenze infernali” sapendo che è l’unico modo per ottenerla. E’ l’attitudine dei figli ricchi e viziati che criticano (e disprezzano) i padri per i modi con cui “hanno fatto i soldi” ma che non sono affatto propensi a rinunciare agli agi di una vita comoda.
Quanti invocano, a ogni pié sospinto, l’estensione e il rafforzamento dei “diritti sociali” sembrano non rendersi conto di una legge storica inaggirabile: che quanto più si vuol riformare l’esistente, tanto più bisogna rassegnarsi a un potere, accentrato e formidabile, in grado di imporre i cambiamenti necessari alla palingenesi sociale.
Per converso, in una società rispettosa dei diritti civili e politici, conquistati gradualmente nel corso dei secoli, basta uno “stato minimo” (quello liberale non autolimitato ma limitato dalla Costituzione, non importa se scritta o non scritta) per garantire il rispetto dell’ordine e della legge
Pretendere di realizzare il programma di Stalin – l’eguaglianza tra i cittadini, il benessere assicurato a tutti, servizi pubblici gratuiti ed estesi in ogni campo sociale – senza Stalin, significa dimenticare quanto sostenne molti anni fa, in un’intervista sull’URSS Guido Carli, ovvero che la pianificazione sovietica poteva avere qualche chance di successo solo coi metodi del dittatore georgiano.
Ci troviamo dinanzi a uno “stile di pensiero” che può albergare solo nelle menti di certi costituzionalisti critici da sinistra del PD e degli innumerevoli filosofi, sociologi, letterati che alla lettura del vecchio Marx hanno sostituito quella dei saggi che rivendicano “il diritto ad avere diritti”.
Forse è venuto il tempo della fine delle illusioni, delle ingenuità, delle adulterazioni del linguaggio politico, forse la crisi in atto sarà il veicolo del “ritorno al reale”. Come disse, in una memorabile seduta della Camera il Migliore, alias Palmiro Togliatti: ”E ora fuori i pagliacci!”