Studi Cattolici n. 751 – settembre 2023
di Giuseppe Brienza
Il servo di Dio Pier Carlo Landucci è stato un grande teologo ma anche un filosofo della scienza originale e documentato, in grado di anticipare di diversi decenni quel dibattito critico sull’evoluzionismo che, in Italia, si è sviluppato particolarmente in occasione del bicentenario della nascita di Charles Darwin (1809-1882). Tale anniversario, infatti, che ha coinciso peraltro con quello dei centocinquant’anni dalla prima pubblicazione dell’Origine delle specie, ha dato modo ad alcuni autorevoli studiosi di diverse appartenenze culturali e disciplinari, di confrontarsi a Roma sulla fortuna delle teorie darwiniane, mettendone in luce le diverse criticità e raccogliendo le rispettive riflessioni negli Atti di un convegno tenutosi nel 2009 per iniziativa della Vice Presidenza del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).
Dalle pagine del volume significativamente intitolato Evoluzionismo: il tramonto di una ipotesi (a cura di Roberto de Mattei, Edizioni Cantagalli, Siena 2009), tale teoria, scientifica e filosofica insieme, risulta inadeguata per rispondere ad alcune questioni basilari riguardanti l’origine della vita e il mistero dell’esistenza umana. Tematiche affrontate “monograficamente” da mons. Landucci nel libro La verità sull’evoluzione e l’origine dell’uomo, un testo di 108 pagine pubblicato nel 1984 dalla piccola casa editrice romana La Roccia.
Sacerdote “romano d’adozione” (si stabilisce nella Città eterna a 19 anni e vi rimane fino alla morte), Pier Carlo Landucci è nato il 1° dicembre 1900 a Santa Vittoria in Matenano, un paesino in provincia di Ascoli Piceno, da famiglia di origine toscana. Studia quindi dapprima a Firenze, poi a Pisa e, infine, nella Capitale.
Laureato a nemmeno 23 anni in Ingegneria civile, Landucci è nominato professore di matematica e topografia alla Scuola Agraria di Cagliari, città nella quale trascorre due anni durante i quali matura la vocazione al Sacerdozio. Quando ne è certo entra nel Pontificio Seminario Romano, (26 luglio 1926) e qui riceve la formazione teologica e filosofica di base.
Ordinato il 25 maggio 1929, l’anno seguente riceve i primi incarichi pastorali insegnando contemporaneamente Filosofia delle scienze presso la Pontificia Università Lateranense.
Direttore spirituale del Seminario Romano maggiore
Rettore nel 1935 del Seminario Romano Minore, diviene l’anno successivo Direttore spirituale del Seminario Romano maggiore, dove per 7 anni contribuisce a formare una generazione di preti generosi e attivi. Per 44 anni (1942-86) Landucci è vissuto in due stanzette nel quartiere dell’Appio-Latino, unicamente dedito all’orazione e al servizio dei confratelli nella confessione e nella direzione spirituale, attività inframezzate da predicazioni di esercizi al clero ed a laici impegnati.
Sempre contrassegnato da una profonda umiltà e serenità, Landucci è stato strumento di conversione e conforto per tante anime. Comprensivo del dolore e del senso dell’abbandono dell’uomo contemporaneo, il servo di Dio lo è stato perché rimasto anche lui solo a cinque anni, orfano di padre e, sempre giovanissimo, privato dell’amatissima madre, Teresa Naldini. Nonostante queste grandi croci, Landucci riesce ad eccellere negli studi, arrivando a laurearsi precocemente all’Università di Roma “La Sapienza”. Subito dopo non rifugge dall’indossare la divisa dell’Esercito italiano, prestando servizio militare come ufficiale nell’Arma del Genio.
Frequenta in quegli anni un ottimo direttore spirituale, il gesuita Agostino Garagnani (1881-1944), che lo aiuta a capire il modo migliore per lui di servire il Signore, incoraggiandolo a lasciare tutto.
Tra i suoi allievi, come Direttore spirituale del Seminario Romano maggiore vi sono il futuro card. Pietro Palazzini (1912-2000) e il Venerabile Bruno Marchesini (1915-1938).
Esemplare nella virtù della obbedienza
Un episodio particolarmente difficile della vita di mons. Landucci si è avuto nel 1942, quando è improvvisamente costretto a lasciare tutti gli incarichi al Seminario Romano per ritirarsi in umiltà, povertà e silenzio nel piccolo appartamento presso le suore di Namour, nella clinica “Madonna della Fiducia”, a causa di incomprensioni con l’allora Rettore mons. Roberto Ronca (1901-1977). I due si conoscevano fin dai tempi della facoltà d’Ingegneria all’Università “La Sapienza” (anche Ronca, infatti, era ingegnere), e facevano parte di un affiatato gruppo di studenti cattolici, tra i quali vi era anche il servo di Dio Ulisse Amendolagine (1893-1969). Nel suo “rifugio” alla “Madonna della Fiducia”, mons. Landucci visse tutta la vita, studiando, scrivendo libri di teologia, di mariologia, di filosofia della scienza e ricevendo molti sacerdoti e laici che dirige spiritualmente fino agli ultimi momenti prima della morte.
Non si lamenta mai di questo suo “confino”, dando un grandissimo esempio di sopportazione ed obbedienza cristiana. Rimanendo Canonico lateranense, il servo di Dio si è dedicato anche alla predicazione di esercizi spirituali al Clero, ai Seminari e al preziosissimo ministero delle Confessioni.
Sentinella della fede
Durante il Concilio Vaticano II (1962-65) Landucci è scelto come “perito” e, proprio in questi anni, comprende definitivamente che il suo compito nella Chiesa è quello di essere “sentinella della fede”, quindi in primo luogo dell’autentica teologia, al fine di segnalare in tempo gli errori di un’epoca difficilissima per la salvaguardia dell’integrità della dottrina.
Come testimoniato dal card. Palazzini, mons. Landucci «in ogni momento dimostrò di conoscere l’angoscia e le povere esaltazioni di chi credeva che la Chiesa avesse inizio solo con il Concilio Vaticano II; le incertezze profonde fino allo smarrimento di chi, non solido nella teologia e non fermo nella preghiera, si sentiva stordito nel travaglio di tesi contrapposte. Medicò più di una di queste anime, assisté pazientemente anime turbate; riprese anche energicamente con l’energia cristiana dell’amore. E non fu mai tra gli equilibristi della teologia, i “prudentiones” a loro dire, che si barcamenano tra ideologie opposte. La Verità è una sola. Mons. Landucci prese posizione e con quella sua logica stringente andava fino in fondo. Era difficile controbatterlo, perciò si preferiva farlo tacere» (Mons. Pier Carlo Landucci, maestro, guida e padre, L.D.C., Torino 1990, pp. 16-17).
In tutti i suoi scritti e discorsi mons. Landucci non ha mai avuto timore di andare controcorrente, convinto che «la sapienza cristiana non consiste nel nuovo che cambia, ma nel Vero che resta, quel Vero che la Chiesa da sempre ripete alle anime».
Per fare un solo esempio, memorabile è stata la sua difesa, in pieno “post-Concilio”, di una delle tipiche preghiere della Tradizione cattolica che, come molte altre del resto, non erano più proposte dagli equilibristi della teologia, ovvero quelle un tempo innalzate dalla Chiesa durante le calamità naturali. Su Studi Cattolici, scriveva ad esempio: «Si sta perdendo, almeno praticamente, la consuetudine liturgica, pastorale e ascetica di indire e innalzare suppliche e di fare penitenza per impedire o per interrompere calamità naturali quali i terremoti, le alluvioni, le carestie, le epidemie. Tutti ricordano, per esempio, certe apposite invocazioni delle Litanie dei santi o, in riferimento anche a calamità di minor grado, le preghiere prescritte ai sacerdoti Ad petendam pluviam o Ad petendam serenitatem, eccetera. Oggi, silenzio. Sullo sfondo si delinea, a giustificazione della nuova prassi, una preoccupazione in sé lodevole di aggiornamento, di razionalità dottrinale e anche di ripensamento teologico […]. Si tratta, al riguardo, di dissolvere qualche equivoco e compiere qualche precisazione […]. Un tempo era convinzione comune del popolo cristiano che le calamità naturali fossero vere punizioni dei nostri peccati. Perciò si innalzavano preghiere e si facevano manifestazioni anche pubbliche di penitenza, per placare la divina giustizia (si ricordi la peste di Milano e san Carlo Borromeo). Chi osa dirlo, oggi, alle popolazioni scampate a un terremoto?» (Perché la preghiera nelle calamità naturali, in Studi cattolici, n. 295, settembre 1985, p. 543).
Ha lasciato scritto nel suo breve ma intenso testamento frasi come queste, che riassumono plasticamente la sua personalità: «Accetto e offro il dono della morte, in spirito di riparazione per me e di propiziazione per il Papa, la Chiesa e le anime».
Nel 1994 la sua salma dal cimitero romano del Verano è stata traslata nella chiesa di San Giovanni Battista de Rossi, nel quartiere nel quale ha vissuto per oltre quarant’anni dedito esclusivamente allo studio, alla contemplazione e al servizio del prossimo.
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