Intelligenza artificiale e lavoro che cambia

Nuove tecnologie e intelligenza artificiale.

Esperienza del limite e desiderio di infinito

l'intelligenza artificiale cambia ii lavoro

 Cuneo 21-24 Settembre 2023

Relazione della professoressa

Ivana Pais

all’Incontro nazionale di studi delle Acli nazionali

TEMPI E LUOGHI DEL LAVORO CHE CAMBIA

(testo non rivisto dal relatore)

L’Università di Princeton mette al primo posto delle professioni da eliminare con l’avanzare dell’intelligenza artificiale (IA) generativa gli operatori di call center, e poi i professori di varie discipline, prevalentemente universitari; in mezzo c’è anche la professione del sociologo. Devo però dire che sono sempre meno appassionata a queste classifiche, infatti se ricordiamo una decina di anni fa è uscita una ricerca di Frey Osborne secondo la quale il 47% delle occupazioni sarebbe stata eliminata dalle tecnologie. Ebbene, i dieci anni sono passati e il 47% delle occupazioni non sono state eliminate. Secondo alcuni sono sbagliate le unità di misura, nel senso che non bisogna considerare le professioni ma le competenze e vedere come cambia il lavoro. Questa è una parte importante su cui mi soffermerò. L’altra, su cui faccio un breve cenno, è che oltre a guardare il lavoro eliminato o modificato dalla tecnologia bisogna prestare attenzione al lavoro che la tecnologia nasconde

IA e il lavoro oscurato

Quando raccontiamo le nuove tecnologie, ad esempio l’intelligenza artificiale (IA) generativa o ChatGPT, l’approccio è un po’ magico e oscura quello che c’è dietro; anche il lavoro. Uno dei lavori oscurati ad esempio è il lavoro intellettuale che viene utilizzato da queste tecnologie. Il New York Times ha fatto causa e ha bloccato l’estrazione dati di Open AI, l’azienda di ChatGPT, perché utilizzava gli articoli prodotti dall’intelligenza umana (giornalisti) e che alimentano l’intelligenza artificiale generativa. Ebbene tutti questi dati sono prodotti dal lavoro umano e anche degli scrittori hanno fatto causa. Altro lavoro è quello di tutti coloro che fanno letteralmente gli spazzini dei dati elaborati dalla IA generativa.

Anche in questo caso ha fatto notizia la situazione che si è creata in Kenya in particolare, in cui l’inchiesta di un quotidiano americano ha rivelato come dei lavoratori passassero le giornate ad analizzare video di estrema violenza per etichettare i contenuti e fare in modo che non entrassero nel flusso che “addestra” l’intelligenza artificiale avendone un notevole impatto psicologico. L’inchiesta ha generato un dibattito pubblico tale che l’azienda che operava per conto di Open AI e per Facebook ha interrotto i contratti con i committenti. Come conseguenza duecento lavoratori sono stati licenziati. Tra l’altro quei lavoratori sono andati a bussare all’azienda committente chiedendo di tornare a svolgere quel lavoro, che seppure sporco e dal devastante impatto psicologico permetteva loro di vivere. Questa questione ci riporta ai dilemmi di sempre, che rivediamo in forma nuova con la tecnologia ma che si sono sempre riproposti.

COME CAMBIA IL LAVORO

Ma vediamo le trasformazioni del lavoro. Proviamo ad allargare lo sguardo andando anche un po’ indietro; anche perché quando si parla di tecnologia o restiamo schiacciati sull’oggi o proiettiamo lo sguardo troppo avanti.

Richiamo un film – Tempi Moderni che fa riferimento alla organizzazione scientifica del lavoro, ai tempi e agli spazi di lavoro che quel modello di organizzazione ha introdotto e la tecnica ha supportato. Il punto che qui interessa è che la catena di montaggio è il simbolo di una modalità – l’organizzazione scientifica del lavoro – che prescinde dalla catena di montaggio e che è ben rappresentata da aziende come la Ford ma che per “sgocciolamento” è andata a interessare ambiti diversi della nostra vita: sia dell’organizzazione del lavoro di altre aziende, sia dell’organizzazione sociale più in generale.

L’immagine del lavoro di ufficio che si vede nel film Founder racconta bene come una modalità di organizzazione scientifica del lavoro non ha riguardato solo le aziende automobilistiche o le fabbriche ma è arrivata in tutte le sfere della nostra vita organizzativa. Mc Donald è un esempio di razionalizzazione che segue la logica della catena di montaggio arrivando nella sfera dei servizi.

Tre forme di organizzazione del lavoro

Se saltiamo poi alle forme di organizzazioni successive – pensiamo alla delocalizzazione – oggi abbiamo tre ingredienti in gioco: Aziende che costruiscono nuove forme di organizzazione del lavoro, che nascono in alcune aziende simbolo – Ford, Toyota, Nike –  dove la nuova organizzazione del lavoro la si vede meglio, ma che da lì arrivano poi ovunque.

Quali sono la Ford, la Toyota, la Nike do oggi? Se dovessimo fare questo gioco probabilmente le aziende che individueremmo sarebbero Uber, Amazon o altre che comunque sono aziende piattaforma, ovvero oggi rilevanti da diversi punti di vista: aziende più importanti per capitalizzazione finanziaria, che hanno l’impatto più forte sul nostro quotidiano, che stanno interpretando una nuova forma di organizzazione del lavoro. La domanda che ci stiamo ancora facendo e di cui non abbiamo ancora la risposta è: l’organizzazione del lavoro che vediamo in quelle aziende per “sgocciolamento” diventerà l’organizzazione del lavoro di riferimento di altre aziende o settori? Alcuni elementi di quella organizzazione del lavoro, come successo in passato per le altre, alla fine le andremo a ritrovarcele nelle nostre università, nelle nostre aziende di servizi, all’interno di organizzazioni di volontariato?

Il film che ho scelto per rappresentare questo modo di organizzare il lavoro è un film denuncia che mette in luce gli aspetti critici di questa organizzazione del lavoro. E’ di Ken Loach, Sorry we missed you, e mette in luce con molta forza questi aspetti anche attraverso fatti di cronaca, come l’autista governato dall’algoritmo per la consegna dei pacchi al quale l’algoritmo dice esattamente che strada fare, quali tempi rispettare. Nella scena iniziale il protagonista prende servizio nell’azienda e un collega gli si avvicina dandogli una bottiglia e dicendo: ti servirà e lo capirai. E infatti poi il protagonista si servirà della bottiglia perché non avrà il tempo di andare in bagno.

Da una parte Ken Loach e dall’altra le rappresentazioni che facciamo dell’intelligenza artificiale, che ci permetterà di diventare “nomadi digitali” – che, non si capisce perché, vanno tutti in spiaggia a lavorare -. Due narrazioni contrapposte che mettono in luce opportunità e vincoli di queste nuove forme di organizzazione. Come dicevo l’esercizio che stiamo facendo è che per capire cosa potrebbe essere, se non cosa sarà, dobbiamo vedere qual è l’organizzazione del lavoro nelle aziende piattaforma e quali sono i loro ingredienti per vedere se e come quegli stessi ingredienti si trovano altrove.

La frase: “il tuo capo è un algoritmo” ha suscitato molte analisi e riflessioni. L’idea è che stiamo passando da una forma di organizzazione scientifica del lavoro ad una organizzazione algoritmica. Cosa vuol dire organizzazione algoritmica del lavoro? Innanzitutto c’è un algoritmo. Il collega Francesco Bonifacio ha fatto una bella ricerca sui rider il cui progetto ha presentato quattro anni fa, quando i rider erano il prototipo del lavoro povero e precario. Intervistando un rider questi gli parla dell’applicazione che gli assegna il lavoro e gli dice che non sempre sa far bene i sui conti perché un giorno sale il punteggio e il giorno dopo scende; sembra che il meccanismo che dovrebbe essere trasparente e intuibile in realtà non è intuibile da nessuno e talvolta non sanno dare spiegazioni anche se le chiedi. E qui vediamo un primo punto critico: l’opacità.

GLI ALGORITMI

Una delle questione che si pone con queste nuove forme di organizzazione del lavoro è che spesso l’algoritmo viene utilizzato intenzionalmente per non dichiarare le regole di funzionamento dell’organizzazione del lavoro. Per le ricerche che faccio sono all’interno dei gruppi di discussione su Facebook dei lavoratori di piattaforma che fanno i lavori più vari e l’oggetto principale delle loro conversazioni è cercare di ricostruire quali sono le regole di funzionamento del loro lavoro. L’opacità è uno degli elementi fondamentali e se l’affianchiamo alla riflessione su queste organizzazioni anche come regolatori privati – le soft law – diventa ancora più rilevante perché queste organizzazioni stanno diventando sempre di più dei regolatori privati.

In questi mesi stiamo ragionando tanto di salario minimo. Nel 2014 la piattaforma che allora si chiamava Odesk poi diventata Appwork, che fa incontro tra domanda e offerta di lavoro e lavoratori free lance in tutto il mondo e per cui lavorano milioni di persone, ha introdotto la regola che all’interno della piattaforma non si possono pagare i free lance meno di tre dollari l’ora e questo ha costituito di fatto un salario minimo globale che ha cambiato le regole di funzionamento di quella piattaforma. Sono state fatte tantissime ricerche che dimostrano l’impatto di quel salario minimo globale stabilito dalla piattaforma.

IL POTERE DELLE PIATTAFORME

Quando si parla di piattaforme spesso si dice che queste disintermediano. Vero; c’è il rischio che ad usare questa parola però non si mette abbastanza in luce quanto le piattaforme mantengano una centralizzazione del potere che soprattutto là dove è opaco hanno un impatto rilevante sulla vita dei lavoratori. Uno degli esempi che viene fatto più spesso riguarda Uber, dove i lavoratori hanno ricostruito che quando gli autisti hanno una media di punteggio valutazionale – quindi di reputazione che danno i passeggeri – scende sotto 4,7 in una scala da 1 a 5 il lavoratore viene disconnesso dalla piattaforma e non può più lavorare: l’equivalente del licenziamento. Questa cosa però Uber non la dichiara da nessuna parte.

In una foto di tanti anni fa – che io trovo ancora molto potente – si vede un albero con appesi tanti telefonini in un parcheggio americano di Amazon. Gli autisti lì funzionano un po’ come Uber: quando c’è un pacco da recapitare un algoritmo trova l’autista più vicino e lo manda a consegnare. Ad un certo punto gli autisti si sono detti che se l’algoritmo li geolocalizzava vicino al magazzino era più probabile gli desse la commessa, per cui hanno preso i loro telefonini e li hanno appesi fuori dal magazzino attivando il trasferimento di chiamata ad un altro che tenevano in tasca nella speranza che questo consentisse loro di ottenere più commesse. Dopo un mese un programmatore ha creato una app per cambiare la geolocalizzazione ed evitare di andare ad appendere i cellulari all’albero però l’idea qual era? Cercare di ricostruire il funzionamento dell’algoritmo e fare in modo di farlo giocare a nostro favore.

La decentralizzazione del controllo

A fronte di questa centralizzazione del potere c’è una decentralizzazione del controllo. La storia più curiosa che rappresenta bene questa vicenda della decentralizzazione passa da Ring, una telecamera che costa poche decine di dollari, venduta da Amazon sul proprio sito. Le persone comprano la telecamera e la mettono sulla loro porta e ogni volta che passa qualcuno davanti manda una notifica sul cellulare, così che il proprietario possa vedere cosa accade davanti alla propria casa. Le numerosissime persone che hanno comprato Ring quando gli si chiede perché lo hanno fatto rispondono che lo hanno fatto per controllare che non arrivino ladri in casa ma quando gli si chiede come la usano rispondono che gli serve a controllare il corriere che consegna i pacchi di Amazon. Qual è il risultato di questa cosa? Che non solo Ring permette di vedere ma anche di videoregistrare e condividere online i video e si è creato un genere su Youtube di video, in se anche abbastanza divertenti, in cui i corrieri di Amazon fanno qualsiasi cosa; però cosa sta succedendo? Il cliente compra su Amazon e paga, gli viene consegnato a casa un pacco e con Ring, che ha pagato di tasca sua, sorveglia il lavoratore di Amazon che gli sta consegnando il pacco denunciando il fatto che il corriere che dipende da Amazon sta facendo male il suo lavoro. Il cliente fa tutto e Amazon, geniale, ha esternalizzato tutto: dalla vendita dei prodotti al controllo dei dipendenti.

IL NASTRO DI MOBIUS

Quando parliamo di organizzazioni spesso si usano delle metafore: per l’organizzazione scientifica del lavoro la piramide; poi la rete e una cosa che ci stiamo chiedendo è: qual è la metafora che può raccontare queste organizzazioni? David Stark della Columbia University, ha scritto un paper in cui dice che l’immagine migliore per rappresentare le organizzazioni piattaforma è il nastro di Möbius. Supponiamo che una persona cammini o un oggetto rotoli su quel nastro dove non c’è un dentro e non c’è un fuori. Questa è una delle caratteristiche di questa organizzazioni, che non hanno dei confini e questo ha delle implicazioni contrattuali molto forti, perché non si capisce bene chi è dentro e chi è fuori, chi fa cosa quanto è dentro e quanto è fuori. Il cliente che fa sorveglianza del lavoro è come il manager che sorveglia il lavoratore? Gli stessi lavoratori sono dentro o sono fuori?

In una intervista che ho fatto io al manager di una piattaforma per la produzione di contenuti digitali – dove le persone che vi lavorano sono più o meno l’equivalente di un giornalista – ha detto che chiunque vuole scrivere può registrarsi sulla piattaforma senza essere per forza un giornalista o un redattore di professione. Questo fa cadere i confini.

IL PROFILO DIGITALE

Due ultimi passaggi. Per giocare questo confine dentro-fuori due sono gli ingredienti che stiamo riscontrando essere sempre più rilevanti: il profilo digitale. L’identità professionale che prima passava attraverso altri canali oggi passa sempre di più attraverso un profilo digitale. Questo cambia il modo con cui lavoriamo. Ho intervistato una baby sitter che lavora tramite piattaforma la quale ha detto: «Prima non mi venivano a chiedere le mie competenze, serviva semplicemente qualcuno che tenesse un bambino; invece adesso ci ho fatto più attenzione e nel profilo ho scritto cose vere ma che potessero attirare le persone. Nel contesto di prima non avrei chiesto a mia madre di farmi pubblicità perché studio tante lingue o sono gentile perché era una questione di conoscenze e di relazioni. Ora invece ci ho dovuto pensare. Come mi descriverei a uno sconosciuto?».

l'intelligenza artificiale ha cambiato il di di rappresentare la reputazione

L’intelligenza artificiale ha cambiato il di di rappresentare la reputazione

In questo momento sto facendo una ricerca sulle piattaforme di incontro tra domanda e offerta di servizi medici in cui ci sono medici che offrono consulenze online. Una delle caratteristiche che mi ha sorpreso, anche se ormai non mi sorprendo più facilmente, è che questi medici, anche primari di ospedali prestigiosi– che ci rappresentiamo come una professione con un certo status – quando si descrivono il racconto prevalente è: ho due gatti; oppure parlano dello sporto preferito. Siamo in una situazione in cui il medico – che io che sono un po’ anziana continuo a rappresentarmi come una figura che si presenta pubblicamente con alcune caratteristiche – racconta i fatti propri su una piattaforma. Perché lo fa? La baby sitter racconta della sua laurea e il medico racconta dei suoi gatti… Sto facendo ora una ricerca sulla badanti che hanno capacità pazzesche di personal branding riuscendo a fare profili che neppure un influencer riuscirebbe a fare perché hanno capito che è importante per loro.

Come cambia la valutazione della reputazione

Lo fanno per la reputazione. Per il medico che lavora tramite piattaforma digitale il sistema di valutazione di riferimento resta rilevante, come in passato, il giudizio dei suoi pari ma è meno rilevante; conta per l’ingresso ma una volta in quel mercato  tutto si gioca sul giudizio che definiamo “profano”, ovvero dei pazienti. I pazienti come fanno a valutare le sue competenze professionali? Non hanno legittimamente elementi quindi valutano gli aspetti relazionali. Qualcuno può pensare: ben venga! perché in linea di massima i medici non trattano benissimo i propri pazienti e se cominciano a fare più attenzione alle relazioni siamo felici. Ma se la relazione col paziente diventa l’unico criterio di valutazione, come cambiano i nostri sistemi professionali?

All’inizio ho detto di fare attenzione al fatto che alcuni elementi di questo modello organizzativo li ritroviamo un po’ ovunque. Non so nel vostro ma nel mio è così. Quando sono diventata professoressa sono stata valutata dai colleghi; oggi quando entro nelle commissioni per valutare i giovani che si avviano alla carriera professionale uno degli elementi che devo prendere in considerazione e che diventa sempre più importante è la valutazione degli studenti. Stiamo assistendo ad uno slittamento che può essere interessante e non necessariamente sbagliato ma che certo sta cambiando il mod con cui costruiamo i nostri sistemi professionali e la nostra organizzazione del lavoro.

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Ivana Pais professoressa di sociologia economica nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Saccro Cuore. I suoi principali interessi di ricerca riguardano l’economia di piattaforma e il lavoro digitale. E’ editor-chief, insieme a Elena Esposito e David Stark di Sociologica

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