Con la teoria del «gene egoista» negli anni ’90 si è imposto un nuovo darwinismo sociale. Che oggi viene messo in discussione
di Maurizio Blondet
Un paio d’anni fa uscì un saggio di psicologia evoluzionista dal titolo Storia naturale dello stupro. L’autore, il socio-biologo Randy Thornhill, vi esponeva la seguente tesi: certi uomini, emarginati nella «lotta per la vita», commettono violenze carnali per avere una possibilità di perpetuare il loro patrimonio genetico. Certe idee non nascono dal nulla; questa discende dall’iperuranio dell’evoluzionismo più (si fa per dire) «scientifico».
È stato infatti il più rispettato etologo del nostro secolo, custode dell’ortodossia darwinista, Richard Dawkins, a ridefinire l’evoluzionismo con la teoria del «gene egoista». Per Dawkins, l’evoluzione è fondamentalmente «una lotta fra geni all’interno di linee di discendenza per replicarsi». Vistosi piumaggi, grandi corna, ali, artigli del mondo vivente servirebbero allo scopo di perpetuare il Dna a danno di altri Dna.
Gli organismi viventi non saranno dunque che i «veicoli» con cui i «replicatori genetici» mirano a diffondersi di generazione e generazione. I viventi non sono dunque il fine della vita, ma soltanto un mezzo con cui si diffonde il patrimonio genetico, l’apparato biochimico «replicatore». È una forma estrema, ed estremamente sofisticata, di riduzionismo scientifico, cui molti scienziati anglosassoni aderiscono con fede fanatica. Dando vita a una forma aggiornata, ma non meno pericolosa, di darwinismo sociale: una famiglia operaia che si sacrifica per mandare i figli all’università, lo farebbe per affermare il proprio patrimonio genetico nella lotta per la vita.
Quest’ideologia permea tutto lo scientismo contemporaneo: dalle teorie sociologiche che spiegano ogni comportamento anche altruista come dettato da «geni egoisti», fino ai documentari naturalistici della Bbc che ci dicono come i dinosauri si estinsero perché «primitivi» e lasciarono lo spazio a forme di vita più «evolute», come i mammiferi. L’evoluzionismo è diventato «la Scienza di Ogni Cosa”», ha ironizzato il biologo Allen Orr.
Contro questo andazzo ha combattuto Stephen Jay Gould, il grande paleontologo scomparso recentemente. Il dibattito fra Dawkins (e i suoi ammiratori) e Gould s’è incendiato per un decennio negli anni ’90 sulle riviste scientifiche anglo-americane, con violenza e ironie e sarcasmi eleganti; senza che in Italia le pubblicazioni anche scientifiche – e non parliamo dello scientismo divulgativo, pedissequamente darwinista – ne dessero notizia.
Perciò è benvenuta la pubblicazione in italiano del saggio di Kim Sterelny, La sopravvivenza del più adatto: Dawkins contro Gould (Raffaello Cortina Editore, pagine 138, euro 14,00) nella collana “Scienza e idee” diretta da Giulio Giorello. Sterelny parteggia per l’ideologia di Dawkins, forse non a caso (non è un biologo, ma un filosofo neozelandese). Ma il lettore accorto apprezzerà la posizione di Gould per un fatto preciso ed evidente: il paleontologo americano si attiene di più ai dati fattuali della sua scienza.
Ciò che vede l’esperto di fossili negli strati geologici non è il graduale migliore adattamento delle forme di vita, prodotto dal caso e dalla necessità (selezione naturale cieca) presupposto da Dawkins, ma il contrario: l’apparizione «esplosiva» di forme di vita già «in stato di evoluzione avanzata» fin dal Cambriano, 600 milioni di anni fa. Allora comparvero sulla Terra, simultaneamente, quasi tutti i gruppi animali (phyla). Questi non si evolvono, ma per milioni di anni restano uguali a se stessi, discendenza dopo discendenza.
Il coccodrillo e lo squali sono nel mondo da milioni di anni, senza variazione. Invece sono scomparsi i dinosauri, animali molto più «evoluti» di rettili e squaloidi (avevano cuore a quattro ventricoli e sangue caldo come i mammiferi). Non c’è stata «evoluzione», ma ci sono state massicce estinzioni, dovute probabilmente a fattori traumatici, come la cadute di un meteorite gigante. Questi i dati, i fatti. Gould, che era pur sempre un evoluzionista, per salvare l’evoluzionismo ha dovuto escogitare l’ipotesi degli «equilibri puntuali».
L’evoluzione avverrebbe «di colpo», dopo lunghi periodi di stati: e non con minimi miglioramenti che favoriscono gli individui nella «competizione per la vita», ma con enormi mutamenti. Per esempio il pipistrello non è solo un topo alato, ma è dotato di un complesso apparato sonar, e appare nel mondo con queste sofisticate caratteristiche senza apparente storia evolutiva. «Di colpo» in termini geologici.
Siccome fra uno strato geologico e l’altro corrono, diciamo, 50 mila anni, Gould finisce per archiviare lì, in questi angoli ciechi della paleontologia, quell’evoluzione che non si vede in atto negli altri milioni di anni. Non a caso Gould è stato chiamato «il Gorbaciov del darwinismo», perché ha scosso dalle fondamenta l’evoluzionismo cercando di salvarlo. Ma proprio come Gorbaciov è, in fondo, più simpatico di Stalin, così Gould finisce per piacere più di Dawkins, il Beria dell’ortodossia darwiniana.