Marcello Foa, autore del libro «Gli stregoni della notizia» analizza gli scenari di guerra nell’ex repubblica sovietica: pubblichiamo per gentile concessione un articolo uscito questa mattina sul «Corriere del Ticino»
Marcello Foa
Confusamente tu, lettore, avrai capito che il popolo vuole entrare nell’Unione europea, mentre Yanukovich e, soprattutto, Mosca si oppongono. Fine.La realtà, però, è un po’ diversa e assai più interessante. Per capire cosa stia succedendo davvero occorre partire da un po’ più lontano, da una ventina d’anni fa, quando una delle menti più raffinate dell’Amministrazione Usa, Zbigniew Brzezinski – ancora oggi molto influente – indicò nell’Ucraina un Paese fondamentale nei nuovi equilibri geostrategici; da sottrarre alla Russia e portare nell’orbita della Nato e dell’America. Allora iniziò una grande partita a scacchi tra Washington e Mosca. Anzi, una lunga guerra, combattuta con armi non convenzionali.
Ad esempio usando le “rivoluzioni pacifiste”. Il metodo si ispira alle teorie dell’americano Gene Sharp e fu applicato per la prima volta in Serbia nel 2000 in occasione della caduta dell’allora presidente Slobodan Milosevic. Funziona così: proteste di piazza in apparenza spontanee sono in realtà pianificate con cura e guidate per il tramite di Organizzazioni non governative, Associazioni umanitarie e partiti politici; in un crescendo di operazioni pubbliche amplificate dai media internazionali e con appoggi all’interno delle istituzioni, in particolare dell’esercito, che finiscono per provocare la caduta del “tiranno”.
L’esperimento serbo piacque molto al Dipartimento di Stato che decise di sostenerlo altrove: nel 2003 in Georgia (Rivoluzione delle Rose) e l’anno dopo in Ucraina, quando, a Natale, il candidato progressista Viktor Juschenko (ricordate? Quello col viso butterato) sconfisse in piazza proprio Yanukovich, durante la Rivoluzione arancione.
Un capolavoro, che però, risvegliò Putin, il quale si accorse di tali metodi e, ossessionato dal timore che potessero essere usati nelle strade di Mosca contro di lui, avviò la “nuova guerra fredda” con gli Stati Uniti. I rapporti da cordiali divennero glaciali. E i suoi servizi pianificarono la riconquista dell’Ucraina, usando, a loro volta, strumenti non convenzionali quali ricatto del gas, sabotaggio dell’economia, disagi sociali, tecniche spin per demotivare e indebolire i partiti della coalizione arancione. Risultato: nel 2010 Yanukovich fu eletto presidente e l’Ucraina lasciò l’orbita americana per tornare in quella russa.
Arriviamo così ai giorni nostri, con l’emergere di un’ulteriore, sorprendente variante. La protesta da pacifica, diventa, almeno in parte, violenta. Per opera di chi? Non certo direttamente di soldati stranieri sul campo, bensì di estremisti. E che estremisti! Come ormai noto, ad assaltare i ministeri di Kiev non sono stati i pensionati ucraini, bensì milizie paramilitari neonaziste, ben istruite e ben armate.
I pacifisti sono serviti da corollario, soprattutto mediatico, ma a rovesciare Yanukovich sono stati guerriglieri antisemiti, fanatici e ultraviolenti. Autentiche canaglie, il cui tempismo è stato perfetto: la sommossa ha raggiunto il suo apice durante i Giochi di Sochi ovvero nell’unico momento in cui la Russia non poteva permettersi rovinare il ritorno di immagine delle Olimpiadi. Kiev bruciava ma il Cremlino era costretto a tacere.
Operazione sofisticata e magistrale, ufficialmente senza paternità, che però – ammainate le bandiere olimpiche – ha innescato la risposta del Cremlino, meno raffinata ma altrettanto spregiudicata. Obama non immaginava che Putin potesse occupare la Crimea, così come il Cremlino non si aspettava la guerriglia filoamericana di Kiev. Si sono sorpresi a vicenda. E non finisce qui. La guerra, sporca e asimmetrica, durerà a lungo sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale che assisterà a tutto senza capire, ancora una volta, nulla.