Il green trasforma in business l’ipocrisia

La Verità martedì28 maggio 2024

Manager o magnati alla Bill Gates usano jet privati e vivono in ville smisurate, ma assicurano di avere un impatto zero perché «compensano» piantando alberi. Spesso però le loro sono solo parole, come mostra la ricercatrice (ecologista) Adrienne Buller

di Francesco Borgonovo

Un tempo, se non altro, apparivano leggermente meno ipocriti. Manager e gestori di grandi aziende non nascondevano di avere come fine il profitto, dopo tutto il capitalismo funziona così. Oggi, invece, l’obiettivo rimane il medesimo ma le stesse persone hanno la necessità di apparire buone, impegnate nella difesa di giuste cause, dedite al perseguimento della giustizia sociale. Non c’è grande compagnia o fondo di investimento, ad esempio, che non mostri di occuparsi dell’ambiente e di avere a cuore la sostenibilità.

Come scrive Adrienne Buller, direttrice della ricerca nel think tank progressista Common Wealth e firma del Financial Times, «negli ultimi anni l’industria della finanza “sostenibile”, “verde” o “etica” ha visto un boom di popolarità e profitti, in particolare per quanto riguarda i fondi pubblicizzati come Esg (Environmental, Social and Governance).

Al momento in cui ne scrivo le stime del totale dei beni investiti in strategie “sostenibili” variano molto – è una sfida trovare due persone che concordano su come si determini cosa sia “sostenibile” e cosa no – ma a fine 2020 i prodotti legati a fondi Esg avevano passato la soglia dei mille miliardi di dollari, mentre il totale dei beni (non solo fondi) investiti globalmente sulla base di criteri Esg era intorno ai trentamila miliardi».

Secondo Blomberg, «entro il 2025 gli Esg rappresenteranno un terzo di tutti i beni globali gestiti da società d’investimento». Nel frattempo, continua Buller, «le “obbligazioni verdi” – diverse dalle loro colleghe Slb nel dover dichiarare esplicitamente che i loro profitti saranno usati per iniziative ambientali – hanno superato un’emissione complessiva di mille miliardi di dollari al termine del 2020.

L’industria della “finanza sostenibile” si è ingigantita a tal punto che sia il settore privato a fini di lucro sia la società civile hanno oggi interi sotto-settori dediti a plasmare l’agenda, dai certificatori di obbligazioni “verdi” agli enti non profit che forniscono analisi gratuite del rischio di una transizione green per i portafogli degli investitor, fno ad agenzie interamente dedicate a informare questi ultimi sulle pratiche di sostenibilità delle aziende.

La Task Force on Cliate-Related Financial Disclouses (Task force per la trasparenza finanziaria  in materia di clina, ndr), presieduta da Mike Bloomberg, fornisce alle aziende linee guida per la trasparenza nel rendere pubblica “la loro gestione dei rischi e delle opportunità finanziarie che il cambiamento climatico presenta per il loro business, e sostiene di avere oggi nell’industria centinaia di sostenitori con un portafoglio combinato di beni da centosettantacinquemila miliardi di dollari.

L’idea di far leva sul notevole potere del sistema finanziario privato per combattere il collasso climatico “spostando i miliardi” verso investimenti “verdi”, è sempre più un mantra anche per molti governi e istituzioni, dalla conferenza Cop26 presieduta dal Regno Unito fino al Parlamento europeo e all’Onu».

La Buller è l’esatto contrario di una negazionista climatica. La si può considerare un’attivista ecologista, e per questo risulta ancora più interessante osservare con quanta perizia smonti la grande bolla del capitalismo verde. Il suo bestseller Quanto vale una balena (Add editore) decostruisce la narrazione prevalente sulla transizione ecologica. La quale appare, al netto della retorica, come un riassestamento del sistema, una opportunità per guadagnare altri soldi fingendosi attenti alla natura.

«La missione di massimizzare la crescita degli asset e i profitti dell’investire sostenibile», scrive, «implica una strada per la decarbonizzazione predicata su un’immensa crescita di investimenti “sostenibili” – come energie rinnovabili, veicoli elettrici, grandi progetti materiali come l’intrappolamento di CO2, su vasta scala e relative strutture di stoccaggio e sempre più terreni espropriati per progetti di compensazione mirati a sostenere emissioni ancora elevate».

L’obiettivo finale, dunque, non è davvero «salvare il pianeta ma sostituire gli attuali metodi di guadagno con le loro versioni “decarbonizzate”». Risulta così evidente «dove giacciano le priorità di questa visione della decarbonizzazione: non nel soddisfare i bisogni dell’umanità, o nell’aiutare i più vulnerabili ad affrontare gli impatti climatici già in corso (e a riprendersi da essi), bensì nell’assicurare la creazione di nuovi mercati e progetti su cui investire all’interno di economie decarbonizzate».

Un caso emblematico è quello della cosiddetta compensazione, di cui è maestro tra gli altri il caro Bill Gates. I magnati come lui si muovono su aerei privati e vivono in dimore lussuose e smisurate, ma assicurano comunque di avere impatto zero perché, appunto «compensano».

Ebbene, la Buller demolisce il giochino: «I titani del settore privato, da quelli finanziari alle multinazionali del petrolio, sono quasi unanimi ne loro entusiasmo verso la compensazione e gli obiettivi di “neutralità” da essi supportati. Shell, per esempio, ha fatto delle “soluzioni basate sulla natura” il suo slogan principale, tappezzando i suoi spazi espositivi e materiali promozionali di immagini patinate di foreste; Bp, intanto, ha annunciato una policy di “neutralità” tutta sua, impegnandosi a compensare al 100% entro il 2050 le emissioni dei sui impianti e della sua produzione (ma quelle legate all’uso finale dei suoi prodotti, cioè la stragrande maggioranza delle emissioni dell’azienda, solo al 50%). Sia Shell sia la major petrolifera francese Total hanno iniziato a vendere gas fossile “neutro”, e Total ha incluso un pagamento di circa seicentomila dollari – destinati alla gestione boschiva e a un parco eolico in una compravendita di gas per diciassette milioni di dollari».

In realtà. Quella della compensazione è per lo più una bella favola. «Pur essendo diventati un’industria miliardaria globale cui partecipano le più grandi aziende al mondo, gli offset sui mercato volontari del carbonio sono del tutto privi di supervisione», dice Buller. Si tratta di un «selvaggio west di compravendita e speculazione». Piccolo esempio: «I seicentomila dollari pagati da Total per potere (assurdamente) dichiarare “neutro” un carico di gas naturale liquefatto da diciassette milioni di dollari sono stati in parte investiti in progetti di gestione boschiva in Zimbawe; ma anziché finanziare il ripristino di foreste o paludi destinate  intrappolare CO2 hanno pagato volontari e lavoratori locali per sgombrare a mano il fitto sottobosco come misura preventiva contro gli incendi.

L’entità e il valore della compensazione sono stati poi determinati in base alle emissioni teoricamente evitate, confrontando uno scenario in cui la foresta fosse andata a fuoco con uno in cui non fosse successo. L’assenza di equivalenza tra le due cose è strabiliante e indifendibile».

E’ solo un piccolo esempio, appunto, ma mostra con chiarezza il livello di ipocrisia raggiunto dai grand sponsor del capitalismo verde, che andrebbe finalmente visto per quello che è: un modo per creare nuove opportunità di arricchimento. E potrebbe anche non essere un male se questa bella rivoluzione non la facessero pagare a noi tutti.

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