E Stalin spiegò a Tito cosa dire a Churchill

La Verità domenica 9 Giugno 2024

Nell’affascinante «Il fronte segreto», lo storico Tommaso Piffer racconta con una mole di documenti inediti la vicenda delle infiltrazioni inglesi, americane e russe nel campo di battaglia dell’Europa occupata. Anticipando la genesi della Guerra fredda

di Tommaso Piffer

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo stralci del libro Il fronte segreto di Tommaso Piffer (Mondadori, 410 pagine, 28 euro). Il volume, frutto di un lunghissimo lavoro di ricerca dello storico italiano dell’università di Udine, è la traduzione italiana dell’edizione uscita quest’anno in America e  Inghilterra (The Big Three Allies and the European Resistance, Oxford UniversityPress), e indaga con documenti inediti la storia delle infiltrazioni delle tre potenze (Usa, Russia e Regno Unito) sui campi di battaglia dell’Europa occupata, e il loro intrecci con i movimenti della Resistenza. Il brano proposto tratta la missione, voluta da Churchill tra il ’43 e il ’44, per stabilizzare la situazione in Jugoslavia. Nel complesso equilibrio tra le milizie cetniche e l’esercito del Maresciallo Tito, il primo ministro inglese scrive direttamente al dittatore. Non sapendo che la replica è «ispirata» personalmente da Stalin, che eterodirige Tito tramite Dimitrov. Uno dei tantissimi episodi che, come documenta il libro, hanno anticipato sul campo – e spesso in segreto – i futuri assetti della Guerra fredda.

il parlamentarismo può essere la peggior forma di governoAnche in Jugoslavia, dove pure, nel dicembre 1943, Churchill aveva compiuto una scelta molto chiara, la politica inglese alimentò lunghe discussioni. Qui il problema era come comportarsi con Mihailovic [Draza Mihailovic, fondatore delle milizie cetniche, ndr]. Churchill era convinto che il cetnico fosse «una palla al piede del piccolo re» e che rappresentasse il vero ostacolo a un accordo con Tito.

Convenne quindi che bisognasse lasciar perdere subito Mihailovic e ritirare tutte le missioni inglesi tra i cetnici. Eden [Anthony Eden, allora ministro degli Esteri inglese, ndr], invece, premeva perché si raggiungesse un accordo con Tito prima di buttare a mare Mihailovic. Churchill non aveva capito chi fosse realmente Tito e che cosa volesse.

Affidandosi esclusivamente a Deakin [Frederick William Deakin, capo della missione britannica in Jugoslavia, ndr] e Maclean [Fitzroy Maclean, «inviato» speciale di Churchill in Jugoslavia, ndr], finì per credere che il problema non fosse tanto l’implacabile ostilità ideologica di Tito verso il mondo capitalista, quanto una mancanza di fiducia che poteva essere superata instaurando buone relazioni personali.

Confidava dunque molto nell’operato di Maclean e del proprio figlio Randolph, che inviò presso i partizani come suo rappresentante personale. Paradossalmente, quando seppe della missione di Randolph, Stalin diventò ancora più sospettoso nei confronti di Churchill . «I figli dei premier non si fanno paracadutare nel quartier generale altrui senza una ragione plausibile» osservò.

Ma l’insistenza con cui Eden cercava di costringere Tito a un accordo che avesse anche la benedizione sovietica era altrettanto ingenua. Come ha scritto la storica Elisabeth Barker, sia il premier sia il ministro degli Esteri «inseguivano una chimera».

In ogni caso, poiché Mihailovic era ancora il ministro del governo in esilio, Churchill pensò che dovesse essere il re, e non gli inglesi, a fare il primo passo per abbandonarlo al suo destino.

Ancora una volta il Foreign Office cercò il sostegno sovietico e ancora una volta Molotov lasciò che gli inglesi percorressero da soli la strada che si erano scelti. Stavolta il ministro degli Esteri sovietico ricordò agli inglesi con una punta di sarcasmo che il suo governo aveva suggerito quella linea d’azione «fin dall’agosto 1942», per poi aggiungere, in maniera abbastanza incongrua, che non aveva sufficienti informazioni per esprimere un’opinione sull’ipotesi di intervenire direttamente presso il re, come chiedeva Londra.

Nel contempo, l’ambasciatore sovietico al Cairo ribadì il suo scetticismo sulla possibilità di un accordo fra Tito e il governo.

I sovietici avevano buoni motivi per essere pessimisti: mentre fingevano che la situazione non li riguardasse, dietro le quinte stavano suggerendo a Tito di rifiutare qualsiasi accordo con il governo jugoslavo in esilio. Fu Churchill a prendere l’iniziativa. Il 5 febbraio il primo ministro inglese scrisse a Tito una lettera in cui gli chiedeva se la destituzione di Mihailovic avrebbe aperto la strada a un accordo tra i partizani e il re.

Maclean consegnò il messaggio a Tito e fece sapere a Londra che, prima di rispondere, il Maresciallo doveva «consultare il Consiglio antifascista». In realtà, Tito inoltrò la lettera a Dimitrov, osservando che, sebbene avesse diversi motivi per rifiutare accordo, la questione era abbastanza «seria» da meritare che se ne riferisse a Stalin in persona. Tito, che era abituato a ricevere reprimende da Mosca tutte le volte che alzava i toni con il governo in esilio, questa volta ricevette una risposta diversa.

Attraverso Dimitrov, Stalin e Molotov gli suggerirono di rispondere «all’inglese» che anche lui era favorevole all’unità degli jugoslavi e che, proprio per questo, il governo in esilio, compreso Mihailovic, andava tolto di mezzo, il Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia (Avnoj) doveva essere riconosciuto come l’unico governo legittimo della Jugoslavia e il re doveva rimettersi a ciò che l’Avnoj avesse decretato.

Se il re fosse stato disposto ad accettare tali condizioni, dissero, l’Avnoj non avrebbe avuto niente in contrario a collaborare con lui, ma naturalmente il destino ultimo della monarchia sarebbe stato deciso soltanto dopo la fine della guerra.

Tito scrisse la sua risposta a Churchill il 9 febbraio, usando le stesse espressioni del testo inviatogli dal Cremlino. Quando l’ambasciatore inglese a Mosca mostrò a Molotov i messaggi intercorsi fra Tito e Churchill , pare che il ministro degli Esteri sovietico abbia commentato che in quel modo «non avevano fatto progredire granché le cose».

La politica inglese era dunque giunta a un’impasse. Tito aveva rifiutato la proposta di Churchill di mediare tra lui e il re, e il re resisteva alle pressioni con cui Londra lo esortava a liquidare Mihailovic. In un ulteriore tentativo di guadagnarsi la fiducia di Tito, il 25 febbraio Churchill gli comunicò che era in corso il ritiro degli agenti britannici presso i cetnici, ma non riuscì a estorcergli alcun impegno sulla questione del sovrano.

Nei primi mesi del 1944, Churchill in persona si dedicò a un’estenuante serie di incontri con funzionari del Foreign Office e agenti del Soe per stabilire che cosa fare di Mihailovic e dei cetnici in Serbia.

Nel corso delle discussioni, la fiducia che il primo ministro riponeva in lui diede un chiaro vantaggio a Maclean, con grande frustrazione del Soe, secondo il quale Maclean considerava la propria missione «una sorta di corpo autonomo» e dichiarava «alcune volte la propria fedeltà solo al primo ministro, altre al Foreign Office, il cui rappresentante in effetti egli era, e altre ancora al quartier generale delle forze alleate».

In febbraio Maclean riferì che i messaggi personali di Churchill avevano prodotto un clima estremamente positivo e che a suo parere si sarebbe dovuto accettare la richiesta di Tito. Non rendendosi conto che il capo partigiano aveva un ghost writer a Mosca, sostenne che al Maresciallo «stava sinceramente a cuore l’indipendenza della Jugoslavia» e che, «nel suo tentativo di preservarla, egli avrebbe assai gradito il nostro sostegno».

Maclean era contrario alla proposta di mantenere una missione del Soe presso Mihailovic, perché la cosa sarebbe stata fraintesa dai partizani. Bailey [Stanley William Bailey, colonnello britannico e consigliere politico della missione jugoslava, ndr] dissentì, in quanto, disse, Tito sopravvalutava le proprie forze e i cetnici erano tutt’altro che indeboliti in Serbia.

A suo avviso, i suoi uomini avrebbero potuto dare un prezioso contributo nel momento in cui vi fosse stata la ritirata tedesca. Richiamare gli agenti britannici avrebbe ulteriormente aggravato la guerra civile, e questo sarebbe andato a detrimento delle operazioni contro i tedeschi.

Ma come si potesse tradurre tutto ciò in una politica pragmatica era difficile da immaginare, e lo stesso Bailey ammise in alcune circostanze che forse l’unica soluzione era quella di lasciare che la guerra intestina tra partizani e cetnici si risolvesse da sola, senza influenze esterne.

Nelle settimane successive, mentre i primi gruppi partigiani penetravano in Serbia, furono presi in considerazione diversi piani. All’inizio dell’anno Mihailovic aveva tentato di riprendere l’iniziativa, effettuando una nuova campagna di sabotaggi contro i tedeschi e convocando un congresso in cui discutere di un programma per la Jugoslavia postbellica che andava al di là della mera restaurazione del regime anteguerra.

Fu il suo «canto del cigno»: benché non fosse emersa alcuna prova inoppugnabile della sua collaborazione personale con il nemico, tutti sembravano convenire che il problema fosse proprio lui, Mihailovic, e non lo scoppio di una guerra civile in cui il paese era irreparabilmente coinvolto.

La convinzione erronea che i cetnici fossero un movimento rigidamente controllato dal centro favoriva tali ipersemplificazioni: si elaborarono piani per riportare in Jugoslavia il re e fargli assumere il controllo delle formazioni cetniche o per fomentare una rivolta contro Mihailovic da parte di qualche suo ufficiale.

Churchill dichiarò che, «se possibile», avrebbe preferito evitare di «liquidare» Mihailovic e catturarlo vivo. Alla fine, quasi tutti i piani furono scartati in quanto irrealizzabili. All’inizio di maggio il primo ministro britannico, che Bailey ave va trovato alquanto «disinformato sulle condizioni della Jugoslavia», era ancora convinto che si potesse arrivare a una soluzione dando vita a un nuovo governo cui partecipasse direttamente Tito

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