Corriere del Sud 22 novembre 2012
di Giuseppe Brienza
Gandhi: “cattivo maestro” e “mito” da sfatare? Sì, almeno da due punti di vista: l’eredità politica della sua “missione” ed il giudizio espresso su di lui dalle élites del mondo tradizionale indù.
Nato nel 1869 nella città indiana di Porbandar (Gujarat), il “Mahatma”, che in sanscrito significa la grande anima, apparteneva alla casta dei Bania, cioè dei commercianti. Questa sua origine andrebbe tenuta in considerazione per tratteggiare la fisionomia del personaggio.
In India infatti, ad ogni casta corrispondono determinate concezioni morali, intellettuali e religiose e, come spiega uno fra i maggiori esperti di cultura tradizionale indiana, il francese Alain Daniélou (1907-1994), le caratteristiche della casta dei Bania si identificano con un «estremo puritanesimo, nel vegetarismo più assoluto, nell’assenza totale di preoccupazioni metafisiche o filosofiche e, in compenso, con il più grossolano sentimentalismo religioso […]. Un puritanesimo glaciale maschera la disonestà in tutto ciò che concerne le questioni di denaro e d’affari. Ovunque si trovino, i mercanti indiani finiscono per impossessarsi di tutto» (A. Daniélou, Storia dell’India, tr. It., Ubaldini Editore, Roma 1992).
Giovanissimo, Gandhi partì per la città-tempio del mercantilismo mondiale, Londra, per attendere a studi di giurisprudenza. Divenne avvocato del foro della City, cominciando a vestire all’occidentale e cercando in tutti i modi di farsi accettare da una società che lo considerava invece, per insuperabili motivi razziali, un cittadino di seconda categoria. Trascorse in tutto tre anni abbastanza infelici in Inghilterra, tornando alla fine in India per esercitare la sua professione di legale.
Non ebbe però successo nemmeno in patria e, nel 1893, si trasferì quindi in Sudafrica, colonia boera dove esisteva una numerosa comunità d’immigrati indiani. Anche qui si scontrò con un razzismo fortemente discriminatorio anche nei confronti degli indiani e, a questo punto, iniziò quella sua metamorfosi che lo portò a diventare il “Mahatma”. Cambiò infatti personalità, obiettivi di vita e, perfino il suo aspetto, iniziando a vestire quel caratteristico lenzuolo filato e tessuto da lui stesso con il quale siamo abituati a riconoscerlo.
In questo periodo Gandhi passò insomma da giovane avvocato rivoluzionario anglicizzato a monaco indiano, seminudo e vestito di saio e, come riporta Daniélou, «Qualcuno affermò che questa trasformazione gli era stata suggerita dal leader musulmano, membro del Congresso, Mohammed Ali Jinnah [(1876-1948)]» (op. cit.).
Nel 1915 il “nuovo” Gandhi tornò in India, dove fondò numerose ashram, ossia comunità in cui viveva in povertà, dedicandosi alla preghiera, allo studio ed al lavoro manuale. Secondo lo storico britannico Paul Johnson, però, pare che Gandhi «mangiasse avidamente […] il suo cibo era scelto e preparato accuratamente. […] Il suo ashràm, con i suoi dispendiosi gusti “semplici” e le innumerevoli “segretarie” e domestiche, riceveva le sostanziose sovvenzioni di tre ricchi commercianti. Uno della sua cerchia osservò: “Far vivere Gandhi in povertà costa un sacco di soldi!”» (cit. in Vittorio Messori, Gandhi, in Id., Le cose della vita, Sugarco, nuova ed., Milano 2009, p. 42).
Nel 1917 cominciò il suo intervento a pieno titolo nella vita politica. Gandhi riuscì in poco tempo ad attirare al movimento nazionale indiano non solo i rappresentanti delle classi medie che avevano dato vita nel 1885 all’Indian National Congress (Partito del Congresso) ma anche gli operai e i contadini del suo Paese. Le famose battaglie ispirate al metodo della “non violenza” gli fecero conquistare una supremazia indiscussa in seno al Partito del Congresso, che portò però a posizioni di totale rigetto della civiltà occidentale e, quindi all’abbandono anche della opposizione “lealista” alla dominazione coloniale britannica che il partito aveva mantenuto fino al 1920.
Eppure nella sua autobiografia (cfr., tr. It., Treves, Milano 1931) desumiamo un iniziale atteggiamento di stima e collaborazione anziché antagonismo nei confronti dell’Impero del Commonwealth, avendo persino partecipato ad iniziative a sostegno delle guerre coloniali britanniche. Da leader del Partito del Congresso nella conferenza di Nagpur (dicembre 1920), Gandhi si fece invece promotore di clamorose deliberazioni che chiusero totalmente i ponti con il “vecchio continente”, dal patto di unità d’azione fra indù e musulmani al boicottaggio dei prodotti d’importazione britannica.
I vari digiuni e manifestazioni che costellarono la sua azione politica negli anni 1920-30, alcune delle quali sfociarono in rivolta con scontri con la polizia e centinaia di morti e feriti sia fra i dimostranti sia fra le autorità coloniali, esiti non voluti da Gandhi ma neanche da lui responsabilmente previsti, provocarono una progressiva deriva estremistica del movimento indipendentista.
E questo proprio nel momento in cui, durante la seconda guerra mondiale, a seguito dei tentativi del Giappone di conquistare l’India, la Gran Bretagna si era dimostrata disponibile a promettere l’autogoverno indiano non appena terminato il conflitto. Gandhi rispose però di no: l’autogoverno doveva venir concesso subito e finì, come altre volte, nelle prigioni britanniche. I musulmani, invece, assecondarono lo sforzo militare di Londra, guadagnando l’appoggio per la costituzione del loro futuro Stato.
Nell’agosto 1947 fu proclamata la fine del dominio britannico e, oltre alla costituzione dell’India indipendente, che divenne una repubblica sovrana il 16 gennaio 1950 con l’entrata in vigore dell’attuale costituzione, fu consentita come concordato anche la nascita dello Stato islamico del Pakistan, nel quale venne ammessa soltanto la legge coranica. Fu praticamente solo con Gandhi e con il suo successore Pandit Jawaharlal Nehru (1889-1964), scelto dal “Mahatma” come suo stretto collaboratore nonostante fosse agnostico, che il governo di Londra decise questo assetto politico per il subcontinente indiano, dato che i partiti indù non furono al proposito nemmeno consultati.
Dopo l’indipendenza, come ha drammaticamente descritto Daniélou, «Più della metà dei Musulmani restarono in India; al contrario gli Indù del Pakistan furono spogliati, massacrati, privati dei diritti civili e di ogni protezione. I sopravvissuti abbandonarono in massa le loro abitazioni, le loro terre, i loro villaggi, in un esodo che fu uno dei più sbalorditivi dei tempi moderni. Milioni di sventurati trovarono rifugio in un’India già sovrappopolata. Parecchi morirono di fame e di miseria in campi improvvisati o nelle strade di Calcutta, trasformate in corte dei miracoli. I massacri e i trasferimenti di popolazione che seguirono alla divisione furono davvero spaventosi. Secondo una stima moderata i morti furono 500.000 e 10 milioni i profughi» (op. cit.).
Gandhi fu assassinato il 30 gennaio del 1948 a Delhi da un giovane bramino e, le sue veci, d’allora furono definitivamente prese da Nehru, primo ministro Indiano dal 1947 al 1964. Quest’ultimo, anche prima dell’assassinio del “Mahatma”, iniziò a formulare quelle politiche di stampo socialista che hanno influenzato l’India fino ad oggi. Una tale svolta appare piuttosto sinistra alla luce di quanto ci è stato successivamente testimoniato dagli archivi dell’Unione sovietica e cioè che, fra le nazioni del Terzo mondo, quella «su cui il KGB decise di concentrare i propri sforzi operativi durante la guerra fredda fu l’India» (Christopher Andrew-Vasilij Mitrokhin, L’archivio Mitrokhin. Una storia globale della guerra fredda. Da Cuba al Medio oriente, Rizzoli, Milano 2005, p. 306).
Nel 1951 Nehru redasse quindi il primo piano quinquennale sugli investimenti governativi nell’industria e nell’agricoltura subordinando definitivamente la linea del Partito del Congresso agli imperativi tipici dei Paesi di “democrazia popolare” con obiettivi di pianificazione economica, creazione di un’industria pesante sotto il rigido controllo del governo centrale e “redistribuzione” della terra in grave danno al principio della proprietà privata.
Come veniva descritto nelle informative del servizio segreto dell’U.R.S.S., Nehru risultava infatti convinto «che la rivoluzione sovietica avesse fatto compiere un grande passo in avanti alla società umana e avesse acceso una fiammella luminosa che non avrebbe potuto essere spenta» (C. Andrew-V. Mitrokhin, op. cit., p. 306). Anche dopo che, nel 1989, la bandiera del Cremlino fu ammainata e, quindi, la “fiammella” “spenta”, anche l’altra erede del “Mahatma”, Sonia Gandhi, finì per chiedere l’ammissione come membro a pieno titolo dell’Indian National Congress all’Internazionale socialista, concessa nel 2007.