Alta terra di lavoro 26 Luglio 2024
di Luca Fantini
«Di quale “contemporaneità” Spengler ritenesse degna la mia rivoluzione, non mi spiegò (…) Sarei stato fiero se egli avesse appaiato temporalmente, ideologicamente, il fascismo ai sogni giacobini di Robespierre, di Saint-Just, di Rossel, di Cipriani, i puri della rivoluzione militante (…)» B. Mussolini, in Y. De Begnac, “Taccuini mussoliniani”, Bologna 1990, pag. 598
«Mussolini non si stanca di celebrare sempre di nuovo la Comune di Parigi, “sangue fecondo, sangue che ci è sacro”. Solo il sangue porta avanti la storia (…) Per Mussolini quella che Marx e Lenin considerano una visione scientifica del corso necessario della storia (…) si costituisce come una “fede” (…) “Nessuna vita senza spargimento di sangue”»
E. Nolte, “Il giovane Mussolini”, Varese 1993, pp. 22-63
«Non sorprende che, nelle conversazioni con Emil Ludwig, Mussolini citi Blanqui. Il rivoluzionario francese, una citazione della quale sarà da lui posta come motto nella testata del “Popolo d’Italia” nel 1915, non è forse l’erede di una sinistra giacobina incarnata da Babeuf in Francia e da Buonarroti in Italia, e che coniuga radicalismo repubblicano, comunismo utopistico e patriottismo rivoluzionario?» P. Milza, “Mussolini”, Roma 2000, pp. 42-43
Come è noto, Renzo De Felice, prima di affermarsi a livello mondiale come lo storico per eccellenza del fascismo (movimento e regime), dedica le sue ricerche al giacobinismo. Il giacobinismo italiano è infatti il suo principale tema di ricerca e di studio fino all’inizio degli anni sessanta (1); le sue ricerche e le sue interpretazioni mirano, in proposito, ad abbattere il mito storiografico di un’«Idra giacobina dalle mille teste e dalle mille forme» (2).
Lo storico reatino manifesta insoddisfazione anche verso quella storiografia, che riprende, mediante l’interpretazione gramsciana, il concetto di “rivoluzione passiva”, elaborato da Vincenzo Cuoco (3).
Egli vuole infatti pervenire (come avverrà ugualmente durante la profonda analisi del fenomeno fascista) alla definitiva definizione storica del giacobinismo, attraverso lo studio del fenomeno nei suoi molteplici aspetti – economici, politici, sociali, religiosi e psicologici – sia individuali che collettivi, in una connessione continua tra realtà soggettiva e realtà oggettiva. (4).
Sviluppando una sintesi delle vicende italiane nel periodo rivoluzionario, De Felice descrive anzitutto il fenomeno oggettivo, cioè «l’occupazione francese della penisola e la sua “democratizzazione” in funzione degli interessi politici, economici e militari francesi», per poi passare al fenomeno soggettivo: «L’aspetto soggettivo risulta comunque prevalente nell’analisi defeliciana del giacobinismo. Dalle sue ricerche, De Felice era giunto a ritenere che un momento centrale nell’esperienza rivoluzionaria fosse costituita dal problema religioso, quale appariva attraverso una varietà di espressioni, che andavano dalle esigenze di riforma della religione cattolica alla ricerca di nuove forme di religione razionalistica e al misticismo rivoluzionario, generato dal fervore palingenetico della rivoluzione francese e da un rinnovato millenarismo apocalittico che esso aveva rianimato» (5).
De Felice individua infatti nel «misticismo rivoluzionario apocalittico» (6) la vera essenza del giacobinismo, l’elemento fondamentale che differenzia radicalmente l’idea rivoluzionaria giacobina dagli altri movimenti di radice illuministica.
La stragrande maggioranza dei rivoluzionari visse la Rivoluzione religiosamente; convinta di essere il soggetto di un evento sostanzialmente sovraumano, si accese in loro una tensione mistica ed immanentistica, per la quale rivoluzione politica significava, immediatamente, rivoluzione sociale, rivoluzione morale, rivoluzione religiosa.
«Certo i confini tra aspetto politico, aspetto sociale e aspetto religioso sono estremamente vaghi e difficili a cogliersi. Essi infatti fanno un tutto unico, si riassumono in quello che abbiamo chiamato l’aspetto psicologico-morale, in qualche cosa che non si può definire, che rimane allo stadio di sensibilità, ma che in ultima analisi rappresenta la vera essenza del giacobinismo. È la fede nella Rivoluzione, nella grande opera rigeneratrice di essa. È ciò che negli altri democratici del ’96-99 manca e che fa dei giacobini qualcosa di ben definito, una forza nuova (…) Irridere o anche solo passar sopra a questa sensibilità e ai suoi aspetti più trascendenti e a volte ingenuamente teologici vuol dire precludersi la possibilità di comprendere qualcosa di quel grande fenomeno storico (…) che fu appunto il giacobinismo. Visti dall’angolo visuale della fede nella Rivoluzione e della rigenerazione tutti gli aspetti del giacobinismo acquistano significato preciso» (7).
È dunque la religiosità rivoluzionaria apocalittica il tratto più caratteristico dell’ideologia rivoluzionaria democratico-totalitaria giacobina (8); i giacobini italiani stessi sono contraddistinti da una grande forza del tutto spirituale, psicologico-morale: «la fede nella Rivoluzione e nella sua forza di rigenerazione» (9); nell’azione dei giacobini italiani si può infatti riscontrare un’essenza religiosa che anticipa il Risorgimento e Mazzini (10).
In seguito, dopo una vita di ricerche dedicate al fascismo ed alla visione del mondo mussoliniana, De Felice specifica che i concetti realizzati, o parzialmente realizzati dal fascismo, di totalitarismo, di patriottismo, lo stesso concetto più significativo e storicamente più rivoluzionario appartenente alla visione mussoliniana, quello di “uomo nuovo”, affondano le radici in una concezione dell’universo e della società di tipo chiaramente giacobino, inseribile nel filone della tradizione della sinistra rivoluzionaria europea.
L’uomo nuovo fascista, per De Felice, deve effettivamente realizzarsi come un nuovo tipo umano, prodotto storico della rivoluzione fascista; a differenza dell’uomo simbolico del nazismo tedesco, nel quale il motivo razziale fondamentale rimanda a dinamiche e visioni di tipo pre-rivoluzionario (precedenti dunque i motivi dell’89), l’idea mussoliniana di uomo nuovo appartiene in pieno alle rivendicazioni storiche di un tipo di totalitarismo che deve essere considerato di sinistra e progressivo rispetto ai motivi fondamentali della Rivoluzione Francese (11).
Il fascismo opera il proprio processo rivoluzionario su un piano essenzialmente politico, a differenza del nazismo che opera attraverso un piano essenzialmente razziale, ed il marxismo ortodosso che assegna la parte centrale alle dinamiche di tipo economico (sarebbe da fare un discorso a parte per la visione del mondo che si impone in URSS con la concezione del «socialismo in un solo paese», che finisce per valorizzare in modo radicale il fondamento slavofilo e mistico-cristiano della rivoluzione russa, ma non è questo il contesto).
Il fascismo è una autentica religione politica fondata sul “culto del littorio” (12); l’idea fascista di “uomo nuovo”, tutta centrata sulla potenza immanentista rivoluzionaria dello Stato pedagogico totalitario, è «una manifestazione di carattere rousseauiano»; «se leggiamo la “Congiura di Babeuf”, tanto per fare un esempio» continua De Felice (13)«vediamo che nei programmi dei babuvisti uno dei punti centrali è proprio questo. E non solo dei babuvisti: è tutta una mentalità illuministica, rousseauiana, blanquista, proudhoniana. Ciò è molto significativo, perché le radici culturali di questa idea mussoliniana sono tipiche della sua formazione giovanile che si riallaccia a un certo radicalismo di sinistra (e non a un radicalismo di destra, come fa invece il nazismo)».
Questo punto fondamentale sottolineato dal più profondo storico del fenomeno fascista permette appunto di considerare l’equivoco di fondo di un presunto “fascismo europeo”; se le radici degli altri movimenti definiti impropriamente fascisti affondano in una dimensione ideologica e filosofica pre-rivoluzionaria o esplicitamente controrivoluzionaria, il “padre filosofico” del Mussolini Rivoluzionario, sottolinea appunto De Felice, è Rousseau.
È molto importante considerare che tale visione, di una diretta discendenza del fascismo mussoliniano dal giacobinismo, era già rilevata, nel 1972, con grande lucidità da uno dei più profondi ideologi della Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana, P. F. Altomonte, il quale, in un documento, “Schema di mozione conclusiva in vista dell’Assemblea Nazionale della FNCRSI”, (Verona 8 gennaio 1972), afferma che il fascismo si contrappone al marxismo economicistico, ma si pone storicamente come rivoluzione progressiva di tipo politico rispetto alla rivoluzione teorizzata nella filosofia marxiana. Il fascismo è, per Altomonte, una prosecuzione di una visione e di una prassi di tipo giacobino-rousseauiano (dunque appartenenti alla sinistra radicalista europea) rispetto alla visione deterministica ed economicistica marxiana.
Il fascismo non è, per l’ideologo della FNCRSI, un movimento rivoluzionario-conservatore, ma, viceversa, un movimento rivoluzionario, dell’«estrema sinistra storica»: «ogni tentativo di ridurre il fascismo alla funzione di una “destra politica nazional-conservatrice” o neo-tradizionalista», sostiene Altomonte, «deve essere considerato un chiaro disegno volto a diffamare le intenzioni rivoluzionarie mussoliniane, per la difesa di quegli interessi che ne provocarono la sconfitta militare e lo scempio corporeo».
Oltremodo significative, in proposito, le tesi marxiane sul giacobinismo; Marx, sebbene per taluni versi si possa affermare che mostri una molto tiepida simpatia per i giacobini, muove delle critiche a suo modo definitive verso i giacobini: Marx denuncia in termini inequivocabili il “terrore giacobino” (14) e la dittatura giacobina non è per lui assolutamente un modello per la futura rivoluzione comunista; la dittatura giacobina vuole infatti superare l’antitesi tra stato e società civile con la forza politica pura e tale volontà reca in sé i germi del fallimento stesso, poiché non può essere, per Marx, la politicizzazione della società civile la via risolutiva, ma solo la consapevolezza dell’universalità dell’individuo, sintesi di particolarismo ed universalismo. I giacobini, specifica Marx (15), vedono nell’economia una sfera marginale, affidano alla volontà politica (“principio della politica è la volontà”) il ruolo centrale; non può così stupire che cadano nel terrore, deviazione soggettivistica, che cadano nella venerazione simbolica della polis classica. Il terrore è infatti, secondo la visione marxiana, contrassegnato dalla volontà tutta rousseauiana di eliminare la volontè des tous per realizzare la volontè gènèrale: «Il terrore avrebbe voluto sacrificarla (la società civile) a una vita politica antica» (16).
Nulla, ancora, quanto al contenuto teorico, Marx ed Engels ritengono di poter riprendere da Babeuf e da Buonarroti, da tale letteratura che nel “Manifesto” definiscono addirittura “reazionaria” (17); la rivoluzione giacobina, secondo Marx (1848), è infatti una rivoluzione politica e lo stesso fallimento delle èmeutes giacobino-blanquiste del giugno 1848 non è affatto considerata una sconfitta per il proletariato, ma per le illusioni repubblicano-giacobine, che hanno spinto i lavoratori nell’illusione che la sconfitta del 1793 si sarebbe tradotta nella vittoria del 1848 (18).
Anche in questo caso, è la linea fermamente anti-soggettivista di ascendenza hegeliana a trionfare nella visione marxiana (19); è infatti il soggettivismo giacobino a fornire a Marx l’argomento fondamentale contro gli elementi blanquisti (20); l’intimo bisogno del movimento operaio di emanciparsi dal terrorismo e dal giacobinismo si mostra anche nell’attività di Marx in seno all’Internazionale (21).
Il 9 settembre del 1870 Marx mette ancora in guardia contro la vecchia trappola insurrezionalista del radicalismo francese, che porta a reiterare l’errore illusorio del 1793; la condanna marxiana della prassi dell’insurrezione della classe operaia non potrebbe essere formulata in termini più netti ed espliciti: «La classe operaia francese si trova dunque ad agire in circostanze estremamente precarie. Ogni tentativo di rovesciare il nuovo governo, mentre il nemico batte quasi alle porte di Parigi, sarebbe una disperata follia. Gli operai francesi devono compiere il loro dovere di cittadini; ma nello stesso tempo essi non devono lasciarsi sviare dai souvenirs nazionali del 1792 (…)» (22).
Riguardo peraltro la relazione teoretica tra Marx e Rousseau, mi sembrano giuste le riflessioni di Colletti (23) indirizzate al Della Volpe autore peraltro di un saggio sull’argomento (24); tesi importante affermata da Colletti è che Marx, nella formazione del suo pensiero nell’interpretazione di Rousseau, è fortemente condizionato da Hegel che interpreta il “Contratto” in chiave essenzialmente giusnaturalistica; fatto che ha operato come elemento di ritardo e di freno prima che da parte marxista si potesse arrivare a un rinnovato esame del pensiero di Rousseau (25).
Lo stesso Hegel, non a caso, è un grande nemico della società politicizzata; elaborando ad esempio la teoria delle garanzie istituzionali della libertà borghese, Hegel evita una consequenzialità radicale, sviluppando “un minimalismo rivoluzionario” (26); Hegel precisa quindi nei Lineamenti che l’idea della sovranità popolare va collocata tra le idee confuse che nascono dal rappresentarsi il popolo come privo di ogni ordine; per Hegel, esclusivo fine dello stato è di impedire che il popolo possa pervenire al potere: «Alla sua critica della società politicizzata Hegel è stato provocato dalla prassi politica di Robespierre e dalle teorie politiche di Rousseau e di Fichte. È a questa provocazione che noi dobbiamo quelle grandi sezioni (…) della Fenomenologia della Spirito e della Filosofia della storia che intendono essere descrizione ed interpretazione di quella volontà popolare che ha voluto realizzarsi come governo della virtù (…) Per contrasto, Hegel ha ammirato e glorificato Napoleone perché costui ha (…) politicamente restaurato (la) ragionevolezza liberale» (27).
Non è dunque casuale, a tal riguardo, che Ugo Spirito muova al “totalitarismo” marxista-leninista quale fondamentale critica quella di essere una perfetta incarnazione della filosofia politica hegeliana, motivo principale per cui non vi è l’annientamento della separazione astratta e trascendentistica tra burocrati e masse popolari (28).
Viceversa, sarebbe errato vedere nella concezione fondamentale teoretica del “totalitarismo” fascista impulsi di tipo neo-hegeliano; prescindendo in questo contesto dall’analisi della riforma teoretica dell’hegelismo compiuta da Gentile in senso rivoluzionario, immanentistico, anti-contemplativistico, va comunque precisato, come sostenuto da un discepolo, (29), che Gentile non solo non appartiene alla destra hegeliana, ma nemmeno è definibile come un hegeliano.
Come specifica proprio Del Noce (30) la funzione principale svolta da Gentile, filosofo del fascismo movimento (31), è proprio quella di contendere l’essenza della “dottrina fascista”, di cui egli è in “regime fascista” il massimo teorico, alle correnti conservatrici, tradizionaliste e nazionaliste della destra.
Va ancora considerato che Gentile, nella sua visione filosofica politica, si riallaccia in modo molto più pronunciato alle correnti risorgimentali e patriottiche italiane nelle quali è evidente, come riconosciuto da De Felice, l’influsso dei giacobini italiani, piuttosto che a correnti filosofico-politiche tedesche di radice hegeliana. Lo Stato, secondo la filosofia politica attuale, è Stato di popolo in quanto potenza immanente nell’interiorità dell’uomo, creazione morale ed etica, antitetico a quello della destra nazionalista, che fa della nazione un presupposto dello stato; nell’idea del mondo fascista di radice gentiliana è lo Stato totalitario-popolare che ha la missione di nazionalizzare, poiché la nazione «dal punto di vista fascista, si realizza nello spirito, e non è un presupposto».
La potenza etica e “religiosa” dello Stato non deriva, come nelle dottrine controrivoluzionarie, reazionarie, di stampo legittimista, dall’alto: la “democrazia totalitaria” teorizzata da Gentile sostiene che lo Stato popolare fascista esiste in quanto è il popolo, mediante l’azione e la mobilitazione continua della volontà generale, che lo fa esistere; la forza storica dello Stato di popolo è in effetti la potenza immanentistica e laicamente “religiosa” del popolo nazionalizzato in un atto di eticizzazione e politicizzazione continua interpretato dallo Stato.
Totalitarismo, non a caso, nell’ottica gentiliana, equivale a politicizzazione ed eticizzazione totale della società, affermazione del momento dinamico dell’anti-economia e dell’anti-utilitarismo, processo caratterizzato dall’integrazione dinamica tra l’individuo e lo Stato, che incarna progressivamente il principio dell’immedesimazione con le virtù civili dell’individuo (33).
Lo Stato totalitario è in Gentile lo Stato popolare per eccellenza, ma nega alla base la dottrina liberal-democratica e rappresentativistica dello stato borghese, nel quale ha la sua più significativa legittimazione la visione dell’individualismo atomistico; è, secondo Ugo Spirito (34), un “socialismo totalitario”, e la prassi del “socialismo totalitario” è il massimo apporto filosofico dato da Giovanni Gentile alla dottrina fascista.
Evidente l’influsso mazziniano; la caratteristica dello stato mazziniano è la sua spiritualità, la dinamica immanente mediante cui lo stato si attua come patria o sostanza spirituale unificatrice della società civile. Lo stato è il tessuto di una comunità puramente politica, sostenuta da una religione civile, che si sprigiona da uno stato realmente etico «quando esso non nasce come accordo o compromesso inter homines, lasciando poi inter homines un legame tutto sommato estrinseco se da ultimo è l’interesse economico (…) bensì come comunione morale» (35).
Importante al riguardo specificare che il concetto mazziniano di “popolo” ripreso da Gentile è intrinsecamente impregnato dall’essenza ideologica di tipo giacobino-buonarrotiano che è fondamentale e centrale nella prima fase formativa del pensiero mazziniano (36); la stessa concezione buonarrotiana della “dittatura rivoluzionaria” e della “dittatura popolare” finirà per influenzare in modo molto più fondato correnti della sinistra fascista piuttosto che correnti del marxismo rivoluzionario.
Sebbene, a causa della visione fortemente “anti-contrattualista” promossa dalla filosofia attuale, possa sembrare una forzatura definire in senso identificativo il giacobinismo con la visione teologico-politica gentiliana dello stato, va specificato che Gentile nello sviluppare un vero ideale di libertà in antitesi a quello negativo, nell’indicare il modello dell’autentico cittadino totalitario, l’uomo nuovo, il “cittadino soldato”, giunge non soltanto a formulare «la più radicale teoria dello stato totalitario»(37), ma a delineare implicitamente il fondamento rousseauiano di tale visione (38).
D’altronde, come specificato in diversi contesti da Renzo De Felice, il discorso del Talmon sulla “democrazia totalitaria” (39) rimane fondamentale per comprendere le connessioni tra giacobinismo e fascismo; inoltre, rimane indubbio il fatto che il fascismo è il frutto storico più maturo di quel processo di sacralizzazione della nazione, avviata in Europa dalla rivoluzione francese, ponendosi esso stesso come una vera e propria religione politica, che continua in senso progressivo e moderno la visione del Rousseau, in base a cui lo Stato nazionale non solo ha la missione immanentistica di riunire “le due teste dell’aquila” (potere politico e potere religioso) istituendo una autentica “religione civile” (40), ma ha anche quella di essere un vero e proprio Stato educatore, e dunque di edificare cittadini virtuosi (l’“uomo nuovo” mussoliniano) inculcando nel loro animo i fondamenti mistici della “religione civile” (41).
La concezione fascista dello stato, secondo gli stessi documenti del Partito Nazionale Fascista (42), annovera infatti Rousseau tra i propri padri: «Il contratto sociale non è all’origine storica dello stato, ma criterio intrinseco di razionalità, sia che ne intenda l’essere profondo, sia che orienti l’azione sua secondo un ideale di giustizia. La volontà generale non è più la volontà di tutti, ma l’universale volontà che gli è immanente e che, come legittima la legge, fonda altresì l’autorità. In questo senso il Rousseau inaugura quelle profonde vedute dello stato che (…) perverranno a noi (…) Lo stesso popolo, su cui egli tanto insiste, non è moltitudine disgregata, in cui ciascuno conta per uno (…) secondo l’interpretazione democratica, ma il depositario di un valore, che va oltre la vita singola, perché dello spirito, di un valore perenne che è l’associazione, il vincolo, l’unità».
Il fascismo, continuando così la tradizione rivoluzionaria giacobina, diviene religione politica fondata sul culto sacralizzante della patria il cui principale fine storico è la creazione dell’ “uomo nuovo”, di cui il patriota risorgimentale prima, l’ardito-squadrista poi, che mostra un «coraggio fascista di fronte alla morte», rappresenterebbero un indubbio simbolo ispiratore (43).
Il fascismo, contrapponendosi alle correnti democratico-individualiste uscite sostanzialmente vittoriose dall’89 dopo l’annientamento storico del giacobinismo rivoluzionario, si riallaccia chiaramente, con la sua liturgia politica, con la sua pedagogia di massa, fondate sul “culto del littorio”, alla tradizione rivoluzionaria e “totalitaria” del ’93 più che quella dell’89 (44); i fascisti vengono definiti da Emilio Gentile i «tralignati discepoli di Rousseau», la cui azione fondamentale è finalizzata all’applicazione dei suoi precetti sulle feste civili per l’edificazione di una “repubblica della virtù” (45):
«Il richiamo alla rivoluzione francese non appariva (…) ingiustificato (…) Un giornalista francese (…) esaminando con notevole acume il misticismo e il simbolismo politico dei fascisti alla fine del 1924, riscontrò varie analogie fra rivoluzione francese e rivoluzione fascista, al punto da parlare di una “filiazione” del fascismo dal giacobinismo. Come i giacobini, scriveva De Nolva, il fascismo vuole creare un mondo virtuoso, e per compiere la sua missione proclama la necessità e la legittimità della dittatura rivoluzionaria, consacrandola con il culto della patria» (46).
La stessa concezione mussoliniana del progresso, che ispira la visione fascista dell’uomo nuovo, essendo tutta fondata sul motivo immanentistico della centralità dell’uomo creatore è, per Manco, di chiara ascendenza giacobina; l’architettura ed il simbolismo fascista, altresì, risentirebbero di eguali influssi ideologici:
«L’espediente di Rousseau, metodologico e psicologico, rovescia alla base le tesi pessimistiche dei reazionari sulla condizione umana priva di speranza.
La riutilizzazione dell’esaltante periodo della storia di Roma, dell’immaginario antico (eroi, miti, fatti storici) fu talmente grande in Francia da portare, talvolta, allo stesso parossismo staraciano, come in occasione della traslazione delle ceneri di Voltaire da Selliers alla Chiesa di Sainte-Geneviève a Parigi, trasformata in Pantheon degli eroi della repubblica. Uomini in tunica sorreggevano la statua di Voltaire, gli strumenti dei musicisti erano stati appositamente costruiti a imitazione di quelli romani, il corteo ricalcava fedelmente la descrizione dei cortei classici.
Il fascio littorio simboleggia il potere solare del popolo unito (…) a questo proposito, si ricordi la colossale statua, in Place des Invalides, di Ercole (personificazione del popolo) che irretisce, armato di manganello, il feudalesimo personificato in una sirena che cerca di levarsi dal fango.
Tanto in Francia quanto in Italia erano riti di massa, il popolo faceva parte della scena (…) doveva sentirsi attore (…) L’arco di trionfo è un monumento della Roma imperiale, ma nella Parigi di Robespierre, e più visibilmente nella Roma di Mussolini, è il popolo e non il singolo ad attraversare la scena da trionfatore» (47).
Ugo Spirito, nelle profonde riflessioni presenti nella conferenza tenuta nel 1955, “Cristianesimo e Comunismo”, sostiene che l’essenza rivoluzionaria del cristianesimo, durante il periodo rivoluzionario, era incarnata dalla corrente giacobina, il cui fine era l’attuazione su un piano spiritualistico e immanentistico dei concetti assolutamente cristiani di “libertà, eguaglianza, fraternità”, non dalle correnti reazionarie cattoliche, continuatrici, secondo Spirito, delle esigenze egoistiche della controrivoluzione cattolica anticristiana.
Ne “La Congiura di Babeuf”, non a caso si afferma (48): «Se il cristianesimo non fosse stato sfigurato da coloro che ingannanò per asservire, avrebbe potuto essere un grande aiuto (…) La pura dottrina di Gesù, presentata come un’emanazione della religione naturale, da cui non differisce, potrebbe divenire la base di una saggia riforma e la fonte di una morale veramente sociale, che non possono raggiungersi con il materialismo (…)».
La stessa tesi del “complotto” considerato dalla corrente reazionaria cattolica la causa principale della rivoluzione giacobina, viene oggi impietosamente scartato dalla storiografia:
«Non c’è un solo storico degno di questo nome che accolga oggi la tesi del complotto massonico: ci sono stati dei framassoni in entrambi i campi, mentre la chiusura o la cessazione di attività della quasi totalità delle logge massoniche a partire dal 1793 sono la prova dell’insostenibilità di un complotto di cui non può essere attestata alcuna traccia formale» (49).
È comunque importante specificare che la tesi defeliciana riguardante la connessione ideologica giacobinismo-fascismo sembra riguardare in modo particolare il “filo rosso” che attraversa la storia del fascismo, valorizzato integralmente durante la fase originaria e quella finale del movimento mussoliniano. Questo permetterebbe così di osservare in senso critico la fase del “fascismo-regime” che realizza solo parzialmente, a causa di un compromesso con le forze tradizionali della società italiana, la sua sostanza totalitaria e “popolare” di radice giacobina.
Va ugualmente ulteriormente specificato che al fascismo italiano, messo comunque a confronto con gli altri due massimi esperimenti totalitari del secolo trascorso quanto all’attuazione concreta della differente prospettiva del mito rivoluzionario, debbono essere mosse le medesime critiche che potrebbero essere ugualmente rivolte al comunismo russo ed al nazismo tedesco (50).
Già importante di per sé il fatto che di questi tre movimenti solo il fascismo italiano ha il mito dello Stato totalitario (51); il vero mito rivoluzionario del fascismo non è affatto, come si potrebbe viceversa credere, l’affermazione del nazionalismo italiano, ma è invece il superamento del nazionalismo di potenza e dell’imperialismo nella realizzazione storica della visione universale dello Stato totalitario come alternativa allo stesso «regime nazista, assertore di un predominio della razza germanica e di una nuova servitù fra i popoli europei» (52); certamente il mito fascista dello stato totalitario non è stato realizzato, come non è stato realizzato il mito bolscevico: tralasciando ora le finalità teorizzate da Lenin in “Stato e Rivoluzione”, lo stesso totalitarismo sovietico, spiega Emilio Gentile (53) peraltro è imperfetto, è più una dittatura fondata sul ruolo passivo delle masse che uno stato totalitario, basato sulla mobilitazione permanente delle folle; il mito nazista, ugualmente, per spiegare il quale Gentile riprende la tesi di Bracher, non avrebbe affatto realizzato il vero modello di totalitarismo (54):
«Hitler rinunciò a fondere stato e partito. In tutti i campi della vita pubblica istanze sociali continuano a sussistere o addirittura ne furono create di nuove. Così, al posto della promessa riforma del Reich, si ebbe la trasformazione dello Stato federale in un confuso sistema di satrapie (…) Le conseguenze furono conflitti di competenza, sprechi e inutili moltiplicarsi di funzioni, e ben presto si vide che questa non era solo una malattia infantile del sistema, ma apparteneva alla sua essenza».
Il fascismo è quindi un movimento politico di radice rivoluzionaria giacobina, socialista-risorgimentale, “garibaldina”, protocomunista (55), il cui carattere essenziale è il proporsi come una autentica “religione laica”, con i suoi riti e la sua “fede” di tipo radicalmente immanentistico (nel senso della filosofia attuale gentiliana) che è la sostanza dell’idea del mondo fascista. La stessa dottrina dello Stato totalitario di popolo finalizzato alla creazione dell’uomo nuovo convive indubbiamente, durante il regime, con quegli aspetti tradizionali che ne inquinano l’essenza più profonda, senza però, almeno secondo Emilio Gentile, mai deformarla.
Movimento della piccola-borghesia, dei ceti medi che assumono, uscendo dalla guerra, un ruolo politico rivoluzionario (56), si struttura sin dalla nascita come un movimento caratterizzato da un “senso religioso” della vita e della morte (57). Significative, al riguardo, le liturgie politico-religiose già vigenti all’interno delle prime squadre:
«Per i fascisti, la squadra non era soltanto un’organizzazione armata, ma un gruppo legato dalla fede comune, da vincoli di cameratismo, da un senso di comunione. L’esaltazione di questa comunione era il motivo dominante di tutti i primi riti della liturgia fascista. La partecipazione ad una spedizione delle squadre, per un nuovo aderente, era un rito di iniziazione in cui doveva dar prova di possedere le qualità dello squadrista (…) La morte era un’immagine dominante già nello stadio di formazione dell’universo simbolico del fascismo. Ciò però non era sintomo di una predilezione per una visione decadente e nichilista della vita, né esprimeva una compiaciuta voluttà di pessimismo votato alla dissoluzione. Al contrario, l’evocazione continua della morte era intesa come atto di sfida di un “ottimismo tragico attivo”, che in questo modo voleva affermare la propria fede nella vita e nell’immortalità. L’atteggiamento verso la morte era, per il fascismo, la più valida testimonianza della sua religiosità (…)» (58).
Se il misticismo di stato staliniano ed il culto del capo si impongono nell’URSS sull’esempio del modello offerto per la prima volta nell’universo (eccetto la breve parentesi giacobina) dal fascismo mussoliniano (59), se la visione fascista-gentiliana della nazione come nazione volontà è essenzialmente giacobina (60), non nazionalista o imperialista, se il calendario italiano viene, sull’esempio del medesimo modello giacobino, liturgicamente riformato in senso fascista («Lui [Mussolini], giacobino, rammentava che Robespierre aveva trasformato il 22 settembre 1792, giorno di fondazione della Repubblica, nell’1 Vendemmiaio Anno I …» (61), come sostiene giustamente De Felice il massimo esempio del giacobinismo fascista si ha nel tentativo di radicare nella storia italiana l’uomo nuovo; tentativo che attesterebbe, secondo lo storico italiano, la differenza assoluta tra fascismo e nazismo, che apparterrebbero “a due tradizioni, due storie” (62) completamente diverse.
Già dopo dieci anni di “regime fascista”, il fascismo sostiene di aver redento la folla trasformandola in massa liturgica che partecipa con gioia e con fede ai riti del regime (63); lo scenario dei riti di massa fascisti si presenta con piazze colme di gente gioiosa, uomini donne bambini che superano nel rito le differenze di classe: la festa del lavoro da festa di classe diviene infatti “festa nazionale” della totalità popolare (64):
«Il fascismo, spiegava un pedagogo del regime, proprio per la sua natura di movimento religioso, aveva ridato lustro e vigore ai miti, ai simboli, ai riti, riportando lo stile nella politica di massa. (…) Ancora una volta (…) i fascisti calcavano le orme della rivoluzione francese, ripetendo formule di pedagogia politica ispirate all’idea della rigenerazione morale del popolo, alla concezione dello Stato educatore, al mito dell’ “uomo nuovo”, alla sacralità della patria, alla “passione dell’unità” (…) traducendo la religione civile di Rousseau nella versione di un moderno totalitarismo, che (…) credeva nella plasticità del carattere, come espressione di tradizione storica, costume, credenze e moralità di un popolo» (65).
Esponenti comunisti incaricati dai vertici di “controllare” la situazione riconoscono, nel 1932, che la politica totalitaria del fascismo basata sul principio dell’«alfabetizzazione politica» dell’italiano, veicola in modo convincente la sua ideologia tra le masse (66); la religione fascista vede nel borghese, con la sua mentalità egoista e atomista, il nemico principale dell’uomo nuovo fascista, che è anzitutto “individuo sociale” (67); la logica totalitaria caratterizzante la religiosità laica fascista si fonda appunto sulla mobilitazione popolare che deve annientare l’indifferenza del cittadino verso le iniziative del regime ed il suo rifugio nella sfera privatistica (68).
Tutto ciò è appunto fondato su un unico motivo ispiratore di tutto il rituale fascista: il mito della comunità totalitaria di un popolo unito da una fede:
«La “fede” veniva ad assumere così il valore di un unico fattore egualitario in una società che manteneva le sue divisioni sociali, pur proclamando il regime di voler “accorciare le distanze” (…) Simbolo di questo egualitarismo della fede voleva essere l’uniforme, la camicia nera, la partecipazione comune d’ogni ceto alla celebrazione del culto del littorio. In questo modo, il fascismo presumeva di risolvere l’antitesi fra individuo e massa, integrando l’individuo nella comunità totalitaria, trasformando la massa stessa con la “pratica di un costume di vita che sia realizzatore di una coscienza della collettività”, attuando “forme di vita coesiva, destinate a generare stati d’animo collettivi, che da momentanei debbono trasformarsi in permanenti” (…) Per conseguire questo fine, era necessario intensificare in ogni aspetto della vita, specialmente delle nuove generazioni, un sistema pedagogico collettivista (…)» (69).
In conclusione, ove si accetti la tesi defeliciana, centrale ed insuperata, almeno sotto il profilo dell’analisi psicologica e soggettiva, nel discorso storico sul fascismo, si arriva di conseguenza alla conclusione che il fascismo italiano è innanzitutto un fenomeno singolare, da non confondere con altri movimenti che possono condividere con questo alcuni tratti, ma non l’essenza; in secondo luogo si può affermare che dall’analisi defeliciana scaturisce la certezza che il fascismo è una via rivoluzionaria (parzialmente attuata su un piano storico) nata dall’estrema sinistra del socialismo italiano, che acquisisce immediatamente un carattere spiritualistico e religioso, che si fonda sul culto sacrale della tradizione nazionale, che intende così superare da sinistra il determinismo economicistico e classista della vulgata marxista dell’Internazionale, grazie all’essenza fondamentalmente giacobina e blanquista della prassi e dell’idea del mondo del Rivoluzionario di Predappio.
Come il bolscevismo in Russia, il fascismo nasce all’estrema sinistra della corrente socialista ufficiale: Mussolini però, a differenza di Lenin (illuminanti in proposito le pagine dedicate da Colletti a commento dei “Quaderni filosofici” leninisti), si riallaccia con più determinazione, rispetto al capo bolscevico, che non abbandonerà mai sostanzialmente il proprio fondamentale quadro teoretico di riferimento, che è quello della “teologia astratta hegeliano-marxista”, alla corrente rivoluzionaria della sinistra giacobina francese penetrata in Italia già attraverso le correnti socialiste e patriottico-carbonare più “estremiste”.
L’orizzonte di tipo socialista giacobino messo comunque sempre al servizio della “patria proletaria” è, così come nel giacobinismo (il 9 luglio del 1792 teorizza ad esempio Robespierre che tutte le verità «saranno accolte dal patriottismo») (70), un orizzonte primario per il movimentismo fascista. Da qui l’analisi di De Felice che scorge nel nazismo (71) una reazione da destra al bolscevismo, nel fascismo una prosecuzione di taluni motivi del socialismo rivoluzionario e, al tempo stesso, una contrapposizione radicale all’internazionalismo delle sinistre in vista della più geniale e riuscita unificazione storica del secolo trascorso: Patria e Socialismo. Proprio le pagine di De Felice attestano che il fondatore dei Fasci Italiani di Combattimento è stato un “genio della rivoluzione”. Come è stato scritto da fonte non sospetta, la biografia mussoliniana è il migliore documento «per lo studio dell’idea di rivoluzione» (72).
Il proposito originario del fascismo, la sua essenza rivoluzionaria, il suo tratto distintivo, è la pretesa di ulteriorità rispetto alla rivoluzione russa: Mussolini si pone rispetto a Lenin in senso alternativo e concorrenziale, non antitetico, come faranno invece i nazisti. Questo il grande insegnamento storico di Renzo De Felice, filosoficamente interpretato da Augusto Del Noce. Scrive Nitti riguardo al pensiero socialista rivoluzionario che ha sempre ispirato l’azione del Duce:«Le sue origini rivoluzionarie gli ispiravano l’avversione per le istituzioni liberali e democratiche, il suo temperamento rivoluzionario lo portava all’apologia della violenza (…) Bisogna riconoscere che nella mutata azione di Mussolini vi è stato sempre un concetto della violenza come base dei rapporti sociali. (…) La sua ammirazione per il bolscevismo russo, di cui spesso segue i metodi, è sincera perché viene da uno stesso concetto della violenza» (73).
Trockij, nel 1923, addirittura invita i comunisti tedeschi a seguire l’esempio rivoluzionario del fascismo italiano, che è simile a quello giacobino ed a quello bolscevico, poiché Mussolini intende l’azione rivoluzionaria in senso creatore ed attivo in antitesi all’attendismo pseudo-rivoluzionario dei partiti socialisti ufficiali (74).
Da qui l’ammirazione continua di Stalin verso Mussolini (lo considerava non a caso il più grande capo rivoluzionario dell’epoca). Stalin fu infatti il creatore di una via socialista nazionale (definita da Gregor una forma di “fascismo imperfetto”, in quanto non legittimata teoreticamente da un “Gentile russo”) largamente impregnata di caratteri populistico-slavofili, addirittura dostoevskiani; è così spiegabile la reiterata volontà della guida politica sovietica di trovare un accordo con l’Italia fascista, la terribile miopia, in questo caso, del capo fascista, che dal ’36 al ’43, pur con una sostanziale autonomia dall’alleato tedesco, darà comunque un indirizzo reazionario alla politica estera italiana, la capacità, dal ’43 in poi, di tornare sui propri passi, arrivando addirittura, pochi istanti prima della morte, a salutare “il fratello comunista Iosif Stalin”, definendolo «il più grande uomo politico vivente» (75)
Note:
(1) E. Gentile, Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio, Bari 2003, pag. 37.
(2) R. De Felice, Il triennio giacobino in Italia (1796-1799). Note e ricerche, Roma 1990, pag. 79.
(3) E. Gentile, Ivi, pag. 38.
(4) Ivi, pag. 40.
(5) Ivi, pag. 41.
(6) Ivi, pag. 40.
(7) R. De Felice, Ivi, pp. 92-93.
(8) Id., L’evangelismo giacobino e l’abate Claudio Della Valle, in Italia giacobina, Napoli 1965, pag. 172.
(9) Id., Il triennio giacobino., cit, pag. 161.
(10) Ibid.
(11) R. De Felice, Introduzione, in Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Bologna 2000, pag. 17.
(12) E. Gentile, Il culto del littorio, Bari 1994.
(13) R. De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di M. A. Leeden, Roma-Bari 1975, pp. 53-54
(14) Non è questo il contesto per un simile approfondimento, ma va se non altro specificato che ciò che la storiografia di radice tradizionalista controrivoluzionaria o liberale ha strumentalizzato ideologicamente al fine di delegittimare gli impulsi rivoluzionari dei “patrioti” giacobini, il Terrore giacobino meriterebbe di essere fortemente ridimensionato o comunque contestualizzato nel motivo fondamentale, riconosciuto peraltro dallo stesso Joseph de Maistre, della “difesa della patria” e delle conquiste rivoluzionarie dalla violenza realista e controrivoluzionaria; A. Mathiez G. Lefebvre, La Rivoluzione Francese, Volume secondo, Torino 1952, pp. 19-20.
(15) K. Marx, Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Torino 1950, pp. 437-438.
(16) K. Marx – F. Engels, La sacra famiglia, Roma 1972, pag. 160.
(17) Riguardo questi aspetti si consigliano le pagine importanti presenti in D. Cantimori, Studi di storia, Torino 1959, pp. 627-628.
(18) S. Avineri, Il pensiero politico e sociale di Marx, Bologna 1997, pag. 244.
(19) Ivi, pag. 242.
(20) Ivi, pag. 245.
(21) Ivi, pag. 249.
(22) Secondo Indirizzo del Consiglio generale sulla guerra franco prussiana, in K. Marx, 1871 La Comune di Parigi. La guerra civile in Francia, Napoli 1971, pag. 107
(23) L. Colletti, Ideologia e società, Bari 1970, pp. 255-262.
(24) G. Della Volpe, Rousseau e Marx, Roma 1997, V edizione.
(25) L. Colletti, Ivi, pag. 257.
(26) H. Lubbe, Hegel critico della società politicizzata, in Il pensiero politico di Hegel, a cura di C. Cesa, Bari 1979, pag. 157.
(27) Ivi, pag. 166.
(28) U. Spirito, Il comunismo, Firenze 1979, pag. 166.
(29) V. Bellezza, La problematica gentiliana della storia, Roma 1983, pp. 221-227.
(30) A. Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, Milano 1970, pag. 130.
(31) A. Negri, L’inquietudine del divenire. Giovanni Gentile, Firenze 1992, pag. 63.
(32) G. Gentile, Origini e dottrina del fascismo, in Id., Politica e cultura, I, Firenze 1990, pag. 404.
(33) G. Gentile, Che cos’è il fascismo, in Id., Politica e cultura, I, cit., pag. 113.
(34) U. Spirito, Dall’attualismo al problematicismo, Firenze 1976, pp. 109-111.
(35) A. Negri, Giovanni Gentile. 1/ Costruzione e senso dell’attualismo, Firenze 1975, pag. 130.
(36) A. Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837), Torino 1972, pp. 335-345.
(37) E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, pp. 418-443.
(38) A. Del Noce, Giovanni Gentile, Bologna 1990, pag. 342.
(39) J. L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna 1967.
(40) E. Gentile, Il culto del littorio, cit., pag. 6.
(41) Si veda: Rousseau, Il contratto sociale, in Id., Scritti politici, Bari 1994, pp. 195-204.
(42) PNF, Dizionario di politica, vol. IV, Roma 1940, pag. 157.
(43) E. Gentile, Ivi, pp. 116-117.
(44) Ivi, pag. 168.
(45) Ibid.)
(46) Ivi, pp. 168-169.
(47) G. Luigi Manco, Illuminismo mussoliniano, in “Aurora”, mensile della Sinistra Nazionale, Gennaio 1998, pag. 12.
(48) F. Buonarroti, Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf, Torino 1971, pag. 62.
(49) M. Vovelle, I giacobini e il giacobinismo, Bari 1998, pag. 31.
(50) E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Bari 2002, pag. 108.
(51) Ibid.
(52) Ivi, pag. 109.
(53) Ivi, pag. 107
(54) K. D. Bracher, La dittatura tedesca, Bologna 1973, pp. 285-286.
(55) A. Del Noce, Lezioni sul marxismo, Milano 1972, pag. 17.
(56) E. Gentile, Ivi, pag. 102.
(57) E. Gentile, Il culto del littorio, cit., pag. 50.
(58) Ivi, pag. 50, 51-52.
(59) Ivi, pag. 310.
(60) Per la visione di nazione nel giacobinismo italiano, Cfr. A. M. Rao, Dalla Repubblica universale alla Repubblica italiana: nazione e democrazia nell’esperienza dei patrioti italiani, in Universalismo e nazionalità nell’esperienza del giacobinismo italiano, a cura di L. Lotti e R. Villari, Bari 2003, pp. 33-59.
(61) M. Staglieno, Arnaldo e Benito. Due fratelli, Milano 2003, pag. 252.
(62) R. De Felice, Fascism: an informal introducyion to its theory and practice, New Brunswick 1976, pag. 40.
(63) E. Gentile, Ivi, pag. 181.
(64) Ibid.
(65) Ivi, pp. 184-186.
(66) Ivi, pag. 190.
(67) Ivi, pag. 195.
(68) Ivi, pag. 192.
(69) Ivi, pag. 193.
(70) J. L. Talmon, Ivi, pag. 186.
(71) Ritengo che le pagine più profonde dedicate al tema della prosecuzione ideologica da parte del nazismo del “radicalismo aristocratico”, del radicalismo di destra fondato in larga parte sull’ideologia del controannientamento che le classi dominanti devono attuare contro il movimento rivoluzionario socialista, sul sottofondo teoretico nazista che affonda in una “lunga tradizione di critica della rivoluzione”, si possano trovare più che nell’analisi dedicata da Nolte al pensiero di Nietzshe,in quella dell’italiano D. Losurdo: Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Torino 2004, in particolare pp. 860-893.
(72) A. Del Noce, Idee per l’interpretazione del fascismo, “Ordine Civile”, 15 aprile 1960.
(73) F. Saverio Nitti, Bolscevismo, fascismo e democrazia, in Scritti politici, vol. II, Bari 1961, pp. 269-270.
(74) H. Abosch, Trockij e il bolscevismo, Milano 1977, pag. 47.
(75) A. Petacco, Chi ha davvero ucciso Mussolini, in “Panorama”, 16 settembre 2004, pag. 75.
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