L’Identitario 14 Ottobre 2024
L’opinione pubblica del Nord restava colpita dal modo sprezzante con il quale i briganti affrontavano la loro fine. Quando la sconfitta sembrava oramai inevitabile, combattevano con ancora maggiore accanimento, cercando la morte sul campo di battaglia. C’era qualcosa di eroico nel loro comportamento e questo poneva in dubbio l’immagine del brigante che il nuovo potere tentava di accreditare, descrivendolo praticamente come un malvivente. Gli autori vicini al regime dovettero inventare teorie al limite dell’inverosimile (come vedremo nelle prossime puntate) per giustificare tutto questo agli occhi dei Settentrionali.
L’eroismo dei briganti viene spesso descritto dagli stessi ufficiali responsabili della loro cattura o della loro morte e a volte capita che questi militari nei loro scritti privati lascino trapelare anche una certa ammirazione per l’avversario sconfitto. È questo il caso del tenente della cavalleria Enea Pasolini, che nelle lettere scritte al fratello così racconta la fine del brigante Catalano.
«Rossano, 5 luglio 1868. Caro Pierino, tu leggerai in questi giorni nei giornali che presso Rossano è stato preso il famoso capobanda Catalano, che da sette anni era in campagna e che è reo di 32 omicidi conosciuti e il cui nome è stato il terrore di questi paesi (non dimentichiamo che chi scrive è un ufficiale dell’esercito italiano/piemontese e forse avrebbe fatto meglio a dire: è stato il terrore delle nostre guarnigioni in questi paesi)».
«Naturalmente tu immaginerai che questo sia un pezzo d’uomo alto, robusto, dallo sguardo fiero, dall’aspetto imponente. È invece perfettamente il contrario; è un omino piccolo, mal fatto, curvo, con una fisionomia mezzo stupida. Un tipo di sagrestano. Quando me lo sono fatto condurre davanti e ho visto quell’omiciattolo con un sorriso sciocco sul labbro e che camminava sommesso, non ho potuto fare a meno di esclamare: “Come! Tu sei Catalano?” “Eccellenza sì, sono isso” fu la risposta, e fu la sola verità che mi abbia detto in mezz’ora che ho avuto il bene di essere con lui».
«Rossano, 13 luglio. Catalano è stato fucilato, e tal morì qual visse/ superbi formidabili feroci/ gli ultimi moti fur, l’ultime voci (si tratta di una citazione dalla Gerusalemme Liberata di Tasso). Egli non ha voluto palesare un complice, un manutengolo! Lo hanno tenuto un otto o dieci ore ai ferri incrociati (dalle parole del tenente Pasolini risulta, quindi, che la tortura per i nostri liberatori fosse una prassi corrente, addirittura la normalità. E questa sarebbe la grande civiltà che hanno portato al Sud!). Non so come abbia potuto resistere. E non ha voluto palesare niente».
«Finalmente a mezzanotte lo hanno condotto al cimitero (perché a mezzanotte? potevano farlo in qualsiasi momento della giornata; forse stavano facendo qualcosa che non doveva essere visto?); egli ha seguito i bersaglieri a passo di corsa; giunto sul posto l’ufficiale gli ha detto: “Ti do quindici minuti di tempo; se parli hai salva la vita, altrimenti ti fucilo qui.” Ed ha fatto caricare le armi in sua presenza. Passati dieci minuti ha detto: “Catalano, ancora cinque minuti hai da vivere se non parli; dici un solo nome di manutengolo e sei salvo”. Ed egli zitto».
«Finalmente l’ufficiale ha replicato: “Catalano! Hai un minuto; vuoi parlare?” “No!” ha risposto, e sì pochi secondi dopo era steso morto a terra (sbaglio, o questa è stata una fucilazione sommaria, senza prendersi neanche la pena di fingere una parvenza di processo? Altro grande esempio della civiltà che i liberatori stavano portando nel nostro Sud). Che curioso miscuglio di carattere! Morire piuttosto che svelare un complice! E questa virtù eroica in chi si trova?” Il tenente Pasolini si sorprende del comportamento eroico del suo prigioniero. Se avesse conosciuto veramente i briganti e se non fosse stato anche lui condizionato dalla pubblicistica di regime, si sarebbe dovuto sorprendere del contrario».
L’eroismo dei briganti viene spesso descritto dagli stessi militari dell’esercito di occupazione, i quali, però, non sempre sono disposti a riconoscere il valore dell’avversario sconfitto. Non sfugge a questa triste consuetudine il giovane sottufficiale Paolo Negri, che su incarico del colonnello Federico Rossi nella ‘Storia del 46° reggimento-brigata Reggio’ racconta le vicende della sua brigata dal 1860 fino al 1870.
Il 46° reggimento venne utilizzato nella lotta al brigantaggio e tra gli episodi che Negri racconta c’è quello della distruzione della banda Carbone, composta da 22 elementi, sorpresa in una masseria a Borreana, nei pressi di Venosa, da un drappello di suoi commilitoni guidati dal sottotenente Ricci.
Ecco quello che il militare scrive nel suo libro: “Già le uscite erano state occupate, il sottotenente Ricci intima alla banda di arrendersi non essedovi più scampo alla sortita. Si risponde con furibonde bestemmie e colla detonazione delle armi, di cui la banda era oltremodo provvista. In breve tempo il Ricci trova modo di fare avvertire la truppa di Venosa e di Lavello, e rimane l’intera notte di guardia ai 22 briganti, che feroci quasi come tigri, prima che arrivi il soccorso possono darsi ai più disperati partiti…
I briganti non si scoraggiano ed incominciano un fuoco vivo dalle finestre e da alcune feritoie che avevano praticato nei muri della masseria, ma la costanza ed il sangue freddo del Ricci e dei suoi soldati rendono vani gli sforzi dei briganti che vedono avvicinarsi la loro fine. Difatti all’albeggiare arriva da Lavello il luogotenente Garavaglia con 30 uomini, giungono pure i cavalleggeri di Saluzzo da Venosa e le guardie nazionali, e si decide di forzare la masseria.
Il luogotenente Podetti ed il sottotenente Ricci, sfondata una porta, si inoltrano nella masseria, ma una scarica micidiale li accoglie ed il soldato Sentimenti vi lascia la vita e diversi altri soldati rimangono feriti. Non volendo menomare un così bel risultato con altre ed inutili perdite, si prende la risoluzione di lanciare sul tetto materiale incendiabile, per abbruciare i briganti ostinati a non voler sentir parlare di resa.
Dopo quattro ore, sconquassate ed arse le porte in mezzo ad una nebbia di fumo, la truppa rinveniva gli avanzi non ancora del tutto bruciati degli uomini e dei cavalli, che componevano la banda del famigerato Carbone. Da diverse e molte detonazioni intese dentro la masseria pare che i briganti, che da due ore non facevano più fuoco, vista la impossibilità di scampo abbiano prima ucciso i cavalli e poi loro stessi,
lasciandosi abbruciare piuttosto che arrendersi. Meno le canne dei fucili, le lame dei pugnali, dei coltelli, e sette baionette, tutto rimase in preda alle fiamme. Noi non ascriveremo ad eroismo (come in quel tempo fu detto) il lasciarsi bruciare piuttosto che arrendersi; no di certo. Lo chiameremo invece fanatismo, una falsa credenza… ‘Chi muore combattendo contro i nemici della religione e del nostro Re Francischiello vola al godimento del regno dei cieli.’
Con questa fede troppo vecchia e inconcussa si affronta con disprezzo profondo la morte e lo abbiamo più volte veduto nel cinismo addimostrato dai briganti fatti prigionieri. I briganti da noi fucilati andavano alla morte con passo fermo, fumando e bevendo al grido di Viva Francischiello.”
Qui finisce il racconto di Paolo Negri, che tra le righe ci dice molto più di quanto lui stesso intendesse fare. Innanzi tutto il militare ci dice che la fine eroica dei componenti della banda Carbone non è stata per nulla un’eccezione.
Anzi, per i briganti (secondo le sue parole) era la regola affrontare la morte con dignità e coraggio. Paolo Negri ci dice anche (come anticipavo nel precedente articolo) che l’opinione pubblica restava colpita e ‘ascriveva a eroismo’ il comportamento dei briganti negli ultimi attimi della loro vita.
A questo proposito tenta di sminuire il loro valore, utilizzando argomenti generalmente utilizzati in casi simili dalla pubblicistica di regime e cioè parlando di fanatismo, di false credenze o di una fede antica. Non si rende conto, però, che in questo modo esalta le loro qualità di veri combattenti. Quale esercito non sarebbe onorato di avere tra le proprie fila uomini così fedeli al proprio leader e così profondamente convinti della causa per la quale combattono?
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