Alleanza Cattolica 10 Novembre 2024
La tassazione sulla religione nel mondo islamico (jizya) e i resti di giurisdizionalismo nell’Occidente germanico (kirchensteuer)
di Silvia Scaranari
Parlare di tassa sulla religione può sembrare cosa strana ed invece è fenomeno diffuso in molti Paesi, retaggio dei concordati firmati fra Santa Sede e governi dal XIX secolo in poi. In Europa un caso significativo e molto noto è la Repubblica Federale di Germania, ma fenomeno analogo esiste anche in Svezia, sebbene con sistema molto diverso. Differente il sistema italiano.
Il sistema di tassazione religiosa serve a coprire tutte le spese di amministrazione, organizzazione, attività dell’apparato di una determinata confessione religiosa cristiana.
Ad esempio in Germania, in base all’articolo 137 della Costituzione di Wiemar e all’articolo 140 della Costituzione tedesca emanata nel 1949, le comunità religiose e filosofiche sono considerate enti pubblici aventi il diritto di autofinanziarsi attraverso l’emanazione di “tasse”.
Per le Chiese cristiane il sistema si chiama Kirchensteuer e prevede che i cittadini dichiarino la propria appartenenza ad una determinata Chiesa, a cui devono pagare una percentuale calcolata sulla base delle proprie tasse. In questo modo hanno diritto a tutti i servizi religiosi: sacramenti, funzioni liturgiche, funerali. Ottengono anche la possibilità di assumere incarichi presso istituzioni religiose. Chi non paga è escluso da qualsiasi servizio.
Per la Chiesa cattolica la tassa varia secondo i diversi Lander, dall’8 al 9 per cento. Inutile dire che il sistema ha ricevuto più di una critica da parte di molte confessioni religiose di altri Paesi e ha causato negli ultimi anni un significativo allontanamento di fedeli.
Diversa la situazione in Italia, dove, come noto, chi vuole può versare lo 0,8 per cento (otto per mille) delle proprie tasse alla Chiesa cattolica o ad altre realtà religiose che abbiano firmato una intesa con lo Stato. Il pagamento è su base volontaria, viene devoluto direttamente dallo Stato alle confessioni religiose, senza aggravi sul cittadino e senza controlli di appartenenza.
Se in Occidente le forme di “tassazione religiosa” sono molto varie, dal contributo volontario a forme regolamentate dai governi, in altra parte di mondo la situazione per i cristiani è ben diversa.
Nell’islam, secondo il diritto tradizionale, i non musulmani erano tenuti al pagamento di una “tassa di sottomissione”, la jizya. Secondo il Corano gli appartenenti alle cosiddette “religioni del Libro” hanno diritto di continuare a praticare la propria fede in forma riservata, purché paghino una tassa supplementare che indica una condizione di sottomissione all’islam.
Con i governi moderni la pratica era caduta in disuso: ogni cittadino pagava le tasse allo Stato e, se musulmano, versava volontariamente la zakat, l’elemosina legale. Negli ultimi decenni, invece, abbiamo ricominciato a sentire parlare di “tassa per la religione”, soprattutto durante l’espansione dell’ISIS nel Medioriente. Oggi la vediamo ricomparire in Mali, come attesta una denuncia fatta da Aiuto alla Chiesa che soffre (ACS). La jizya è imposta, come forma di estorsione, da alcuni gruppi jihadisti che controllano larghe parti del territorio.
In Mali la presenza dei cristiani è nettamente minoritaria (2,5%), a fronte di un 92% di musulmani e di un 5% di animisti. La controversa situazione del territorio, sotto il controllo francese dalla fine dell’800 fino al 1960, anno dell’indipendenza, aveva garantito una certa serenità ai cristiani. Ma dal 1991 il Paese è in continuo fermento, con colpi di stato che si alternano a brevissimi periodi di apparente democrazia.
Dal colpo di Stato del 2012 ad oggi la situazione è diventata molto confusa. Nel 2012 la nomina a presidente di Dioncounda Traoré ha acuito le tensioni con le popolazioni Tuareg del Nord – alleate degli ANSAR-Dine, gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, definitosi “al-Qa’ida del Maghreb” islamico -, tanto da obbligarlo a chiedere un intervento della Francia, che è riuscita a riportare una parziale tranquillità. Nel 2013 nuove elezioni, sorvegliate dall’ONU, hanno visto eleggere come nuovo presidente Ibrahim Boubacar Keita. Nel 2020 nuovo colpo di stato, ad opera delle forze armate, che arrestano il presidente ed insediano una giunta militare, promettendo nuove elezioni per il 2022, slittate poi al 2024.
La generale confusione che vige nel Paese, l’altissimo tasso di corruzione, la presenza di forze jihadiste ben organizzate impediscono il controllo del territorio da parte del governo.
Così alcune regioni sono in mano a violenti islamisti, come nel caso della provincia di Mopti, al confine con il Burkina Faso. Prima il villaggio di Dougouténé, poi quello di Douna-Pen, a maggioranza cristiana, avevano già subito violenza negli ultimi anni, con il divieto di usare musica, canti e balli durante le cerimonie religiose. Chi conosce un po’ la tradizione africana sa quanto sia punitivo questo divieto.
Oggi le stesse comunità hanno visto i jihadisti imporre una tassa di circa 40 dollari a persona, la jizya, per poter continuare a professare il cristianesimo e mantenere i luoghi di culto. La minaccia è di distruggere chiese e cappelle e di uccidere chi non si sottomette.
Questa situazione non è solo ingiusta, essendo una chiara violazione dei diritti umani, ma diventa estorsione e finanziamento di forze eversive, che useranno i fondi raccolti per aumentare il proprio potenziale contro le popolazioni della zona e contro il governo. Dagli abitanti sale un accorato appello al governo per un immediato intervento in nome della laicità dello Stato, proclamata dalla vigente Costituzione, ma la speranza che questo avvenga è molto labile.
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