Fake news e bugie in rete: è tutto un complotto?

Abstract:  Fake news e bugie in rete: è tutto un complotto? Dopo un periodo iniziale di entusiasmo generale per l’aspettativa di allargamento della partecipazione, è cominciata  ad affiorare una crescente preoccupazione per le possibilità di manipolazione che  potevano compromettere l’obiettività, fino al dubbio che l’aspettativa iniziale di crescita democratica fosse fortemente da ridimensionare, per il rischio che le notizie diffuse su web si trasformassero più che altro in un mezzo di disinformazione e di corruzione dell’opinione pubblica.

Punto e… 24 Novembre 2024

Fake news e bugie in rete: è tutto un complotto

o c’è una anche una “meccanica”?

Post-verità o verità dei post? Partiamo da un domanda formulata in un articolo del 2017

1. Il fenomeno social: dall’entusiasmo alle preoccupazioni

I cosiddetti social si sono affacciati nelle nostre vite all’inizio del secolo, prodotti dall’evoluzione di Internet verso il Web 2.0, e in poco tempo hanno occupato un ruolo dominante non solo nella comunicazione, ma anche nella politica e e nel dibattito culturale. La ‘rete’ (Il Nett) ha consentito a milioni di persone – tendenzialmente a tutti gli abitanti del nuovo villaggio globale – di mostrarsi, esprimersi, condividere momenti della propria esistenza, intervenire con facilità nel dibattito pubblico.

Vediamo qualche numero: su 167 paesi analizzati (il 92% del totale mondiale) nel gennaio 2019, si registra una fortissima prevalenza di Facebook, con 2,5 miliardi di utenti attivi su base mensile. Segue Youtube, con quasi 2 miliardi di utenti mensili; Instagram, con un miliardo di utenti mensili, era già dato in crescita costante, mentre Twitter (l’attuale X) aveva un ruolo numericamente minoritario (330 milioni di utenti mensili), ma di decisiva importanza per l’uso che ne fanno leader politici e opinionisti.

Da non sottovalutare gli strumenti messaggistica istantanea come Whatsapp, Facebook Messenger, Viber e Telegram, che sono usciti progressivamente dalla zona della comunicazione individuale e hanno acquisito una crescente coloritura social, soprattutto attraverso le condivisioni attraverso i gruppi [1].

Dopo un periodo iniziale di entusiasmo generale per l’aspettativa di allargamento della partecipazione, cominciò ad affiorare una crescente preoccupazione per le possibilità di manipolazione che ne potevano compromettere l’obiettività, fino al dubbio che l’aspettativa iniziale di crescita democratica fosse fortemente da ridimensionare, per il rischio che si trasformassero più che altro in un mezzo di disinformazione e di corruzione dell’opinione pubblica.

Credo che questo capovolgimento di giudizio rappresenti una svolta decisiva che merita di essere analizzata meglio, non solo per i problemi sollevati in sé, ma per gli ambienti e le circostanze in cui è venuta progressivamente maturando, fino a diventare praticamente dominante. Possiamo farlo a partire da una figura simbolica dell’universo liberal e progressista, Barack Obama.

Nella campagna elettorale del 2008 l’uso dei social fu scientificamente organizzato con la creazione di un apposito Dipartimento, il Triple O[2]. Soprattutto con Facebook e Youtube Obama riuscì a penetrare nella fascia dei new voters, e a raggiungere il frastagliato elettorato statunitense con la segmentazione di messaggi destinati alle varie comunità etniche, asiatiche, latine e afro

.A distanza di un decennio lo stesso Barack Obama, intervenendo all’annuale Dreamforce Conference nel 2019 a San Francisco, lanciò un’accorata denuncia della manipolazione dell’opinione pubblica attraverso i social e della loro responsabilità nella frantumazione della società e nella diffusione dell’omofobia e del razzismo [3].

Cosa è successo nel frattempo? Perché si è verificato un cambiamento di opinione così netto da parte dei politici e degli intellettuali che avevano riposto le speranze di un mondo nuovo nell’allargamento della partecipazione alla discussione pubblica? Si tratta di un clima culturale che oggi facciamo fatica a ricordare, ora che l’allarme per le fake, gli hacker e i bot occupa molta parte della discussione sulle distorsioni della comunicazione, ma che aveva prodotto perfino una diffusa aspettativa di superamento della democrazia rappresentativa (con annessa delegittimazione morale dell’intermediazione della classe politica, ineluttabilmente ‘corrotta’) sostituita dalla consultazione permanente dei cittadini in rete: se ci ricorda qualcosa e qualcuno è perché una versione particolarmente virulenta e agitata di questa “aspettativa” l’abbiamo avuta in casa.

Sono due le letture prevalenti. La prima è quella che potremmo anche definire la teoria del complotto:  la purezza della rete, con le sue possibilità di sviluppo della democrazia dal basso e della diffusione ‘illuministica’ dei saperi, è stata consapevolmente contaminata da fattori esterni, rappresentati prevalentemente da gruppi di interesse politico o commerciale che fabbricano e alimentano le cosiddette fake news, moltiplicate poi da milioni di persone più o meno in buona fede, col risultato finale di coprire le notizie vere, insomma una specie di irresistibile invasione di moneta falsa ad opera di gruppi organizzati di spacciatori.

Questa teoria si basa su indizi veri e su  fatti che spesso però si rivelano imprecisi, e soprattutto finisce per essere utilizzabile a piacimento: le fake news alla fine sono quelle che diffonde il mio avversario o il mio concorrente, ovvero bugia è «esattamente il nome che tipicamente tutti assegniamo alle tesi contrarie alle nostre decisioni» [4]. Questa tesi è seguita solitamente da un corollario: le fake che hanno successo lo devono a organizzazioni che le propalano scientificamente.

Debole come lo sono di solito le teorie basate sul complotto, non è adeguata a spiegare in profondità – sia sul piano storico che su quello tecnologico e comunicativo – la propagazione virale del falso in rete. La seconda spiegazione – più complessa – parte da un ragionamento meno semplicistico, perché da un lato accoglie con molta cautela le spiegazioni complottistiche, giudicandole sempre bisognose di integrazioni e verifiche, dall’altro osserva che il giudizio sulla bontà intrinseca della rete, quello che prevaleva all’inizio, era basato troppo su un’aspettativa ottimistica e astratta, potremmo dire illuministica, e perciò sottovalutava imprudentemente la forza distorsiva del contesto storico e degli interessi storico-politici e culturali.

2. Fake news tra vecchie storie e vere novità

Il mondo degli addetti professionali, nelle università, nelle fondazioni, nelle biblioteche, nelle riviste impegnate, quello che di solito è in prima linea nelle guerre culturali, è stato investito in pieno dall’esplosione di questo fenomeno, e si è interrogato anche sugli aspetti operativi immancabilmente connessi (si deve controllare? chi deve controllare?) [5]

Ma, prima di tentare di rispondere a domande di questo tipo – cioè in soldoni se qualcuno debba predisporre degli strumenti di censura e, se sì, a che titolo – è meglio sgombrare il campo da qualche fake news di troppo sulle fake news. Intanto è bene ricordare che, anche se non si sono sempre chiamate così, le fake news sono sempre esistite. Lo documentano ampiamente due volumi abbastanza recenti: è un fatto incontrovertibile che moltissime persone, anche di livello sociale e culturale diverso, per lunghissimo tempo hanno creduto a notizie false [6].

In realtà sarebbe perfino superfluo ricordarlo, se nelle opinioni comuni non avesse ampio credito la narrazione di un piccolo mondo antico caratterizzato da una vita sociale tutta permeata di saggezza, di autenticità e di verità, prima dell’avvento di Internet e dei social, o addirittura prima della diffusione della radio e della televisione commerciale.

Ma c’è dell’altro, che ci permette di spostarne abbastanza indietro, al tempo dei giornali di carta, anche il nome e il riferimento alla finanza e alla politica: l’americanista Arnaldo Testi nel suo blog, ironizzando sul ‘penultimo spauracchio’ in fatto di fake news, ossia la televisione, ha riesumato la notizia che «nel suo congresso del 1910 la Kansas State Editorial Association sente il bisogno di darsi un ‘codice etico’ che riguarda molti aspetti dell’attività degli editori, dei redattori e dei cronisti.

Una sezione si occupa di fake illustrations, di fake interviews, di fake news dispatches, insomma di “menzogne”, di cose che vanno “contro la verità”, che, usate ad arte, possono manipolare le elezioni e la borsa» .

3. Cosa c’è davvero di nuovo?

Le novità che oggi abbiamo di fronte – dovute principalmente alla formidabile struttura tecnologica e comunicativa di cui disponiamo – sono le dimensioni, la facilità di penetrazione e, soprattutto, la velocità con cui la massa enorme delle informazioni viaggia e si afferma brevemente e mutevolmente.

Questi fattori hanno reso massiccia la diffusione di affermazioni false o incontrollate, e comunque non basate su fonti verificabili, scatenando una reazione difensiva non sempre appropriata nell’analisi e condivisibile nelle proposte di intervento. Scavando più in profondità, oltre il livello di base vero/falso (fake), si è parlato di verità veloce, ossia di «una verità che per salire alla superficie del mondo – cioè per diventare comprensibile ai più e per essere rilevata dall’attenzione della gente – si ridisegna in modo aerodinamico perdendo per strada esattezza e precisione e guadagnando però in sintesi e velocità» [7], con un termine che resta al di qua del giudizio vero/falso, ma che mette in evidenza la scomparsa non tanto della permanenza e della incontrovertibilità della verità, quanto di una ragionevole stabilità e attendibilità delle notizie in rapido ed effimero fluire.

Mi sembra che questo termine sia molto più persuasivo di quello, molto in voga con scopi prevalentemente polemici, di post-verità (post-truth), definito tout court bufala [8] da Alessandro Baricco e pure nonsense dal pensatore conservatore inglese Roger Scruton [9].

Bisogna precisare che nel linguaggio comune non si parla di post-verità in senso tecnico-filosofico [10], ma piuttosto per dire, con un termine enfatico e suggestivo, che negli ultimi tempi le informazioni false sono aumentate e che è sempre più difficile distinguerle da quelle vere.

Sgombrato il campo dalla post-verità, termine palesemente fuori contesto e frutto di enfatizzazioni legate alla lotta politica, restano in piedi le fake news, ovvero la falsificazione in senso stretto – che coesiste da sempre con la narrazione storica, la propaganda politica e la comunicazione pubblica – che possiamo definire ‘non-verità’, e quello delle ‘verità veloci’, che appartiene a pieno titolo al sistema comunicativo contemporaneo.

La combinazione perversa di notizie false e di verità semplificate e prive di precisione merita un serio approfondimento, perché è legata in modo più strutturale e alla comunicazione in rete, e – abbiamo visto- non è semplicisticamente il frutto di azioni ordite per corrompere il flusso pacifico delle informazioni ‘politicamente corrette’[11]

4. L’irruzione dell’Intelligenza Artificiale

Questo quadro, che già presentava complessità difficilmente governabili, negli ultimissimi anni si è ulteriormente ingarbugliato con l’apparizione della nuova frontiera, quella dell’ Intelligenza Artificiale, ovvero la capacità delle macchine di elaborare autonomamente analisi complesse e sintesi difficilmente distinguibili da quelle umane, e in certi campi – come per esempio la diagnostica medica – dotate forse di maggiore precisione.

I risvolti di questa nuova rivoluzione, che sta segnando gli anni 20 del secolo con le sue ricadute nelle imprese, nelle organizzazioni culturali, nella politica, sono molteplici (e rendono quasi quasi preistorico il dibattito sulle fake news che ha dominato la scena finora), sia per gli aspetti tecnologici e comunicativi, sia per le forti preoccupazioni etiche connesse. Il confine tra il vero e il falso, l’umano e il transumano si sta spostando vertiginosamente sotto i nostri occhi, ed è veramente difficile immaginare quali siano i comportamenti adottabili, oltre le generiche esortazioni a mantenere tutto dentro una  sfera eticamente accettabile [12].

5. La caduta di Aristotele, una vicenda plurisecolare: che fare?

Questo contesto così fluttuante spiega perché la tradizione culturale basata sulla verifica filologica delle fonti e sui processi cognitivi in grado di attingere al ‘vero’ reagisca proponendo controlli e verifiche che però, anche quando vengono messi in atto, sembra non producano un effetto riequilibrante apprezzabile. Si può facilmente verificare come una notizia falsa o esagerata che ha avuto sufficiente corso e veloce diffusione in rete non sia facilmente smontabile, prima di tutto perché esiste una specie di persistenza tenace e inossidabile di certi tipi di convinzione, o comunque un’aura inestirpabile che si crea attorno ad essi. Faccio un esempio quotidianamente verificabile.

Fase 1: dilaga in rete la notizia che il tale personaggio ha fatto un’affermazione, quasi sempre biasimevole; fase 2: qualcuno, anche autorevole, dimostra che è un falso; fase 3: il 50% continua a diffonderla (ovvero rispunta come nuova un mese dopo), un altro 50% ribatte che il problema non esiste, perché anche se non è vera potrebbe esserlo, e il personaggio potrebbe dire anche di peggio. L’esempio non riguarda solo la sfera politica: si applica alle asserzioni parascientifiche, alle bufale finanziarie, ai pregiudizi alimentari. Insomma, non è un problema riducibile a centrali di disinformazia più o meno identificabili.

Le radici di questo allontanamento dal vero affondano negli strati profondi della storia culturale dell’Occidente, cioè abbiamo a che fare con un macigno cognitivo favorito enormemente dalla tecnologia, ma in realtà frutto di un processo lungo, plurisecolare, di ‘democratizzazione’ dell’informazione:  l’immagine più calzante  e lo scenario più oscuro per il futuro è quello del rovesciamento del piedistallo di Aristotele, ossia la distruzione di ogni principio di autorità e di autorevolezza nella conoscenza, e – ancora oltre – della possibilità di raggiungere un’accettabile verità fattuale o scientifica attraverso gli strumenti della ragione, della concatenazione delle prove e della loro falsificazione.

Sebbene, come ho già detto, nel sentire comune non si tratta sicuramente dell’impossibilità teorica del discorso vero, ma della presunzione di ciascuno che la propria convinzione sia vera, e che quella altrui sia falsa, in realtà quello che viene a mancare in modo sempre più radicale è un punto di riferimento comune, un’autorità condivisa – morale, culturale, scientifica – che possa delimitare in modo (abbastanza) incontrovertibile la zona del vero e quella del falso. Ed è sicuramente inimmaginabile che questa funzione possa essere surrogata da entità come commissioni governative o parlamentari, e tanto meno da operatori socio-culturali come insegnanti e bibliotecari.

In un mondo contraddistinto dal pluralismo, il rischio di scivolamento verso posizioni di tipo censorio – e alla fin fine di strisciante totalitarismo – si può manifestare proprio a partire dall’intenzione benevola e progressiva di tutelare la veridicità delle affermazioni correnti nel discorso pubblico minacciata dall’invasione delle fake news e dalla cosiddetta post-verità, come tra gli altri hanno mostrato, a mio parere in modo molto convincente, sia il ricco articolo di Riccardo Ridi che ho ampiamente citato e utilizzato, sia il profondo intervento di Andrea Zanotti[13], entrambi apparsi nel medesimo fascicolo di AIB studi.

E ancora: il fatto che abbiamo di fronte non tanto o non solo manipolazioni deliberate, ma una tenaglia che da un lato ha un lungo processo di frantumazione della gerarchia del sapere (Zanotti ne ricostruisce il percorso a partire dalla perdita della centralità della teologia propria del sistema organico della cultura medievale e scolastica, e, in successione, della caduta di prestigio del ‘clero’ scientifico) e dall’altro lato una dinamica di velocizzazione e banalizzazione della verità intrinsecamente connessa alla rete, rende ancor più palese l’inadeguatezza del tentativo di costruire argini censori di qualunque tipo .

In particolare le istituzioni culturali non sono chiamate a discernere il vero e il falso contenuti nei documenti, attività che sarebbe prevaricante, perché questo compito spetta personalmente a ciascun lettore. La loro missione fondamentale continua anche oggi ad essere quella di conservare e trasmettere senza lacune il sapere depositato. Alcune potranno sì aiutare a far maturare nel lettore la consapevolezza di quanto l’uso accorto delle fonti sia preliminare ad ogni conoscenza ben fondata, ma evitando di assumere– sia pure in modalità light – comportamenti già praticati nei regimi totalitari del Novecento.

Di fronte alla crisi secolare del concetto di verità non sono pensabili soluzioni dirigistiche e neppure rieducazioni forzate.

«In questa sorta di Babele dove ognuno è libero di credere tutto e il contrario di tutto, può affermarsi un pensiero unico che tende verso un’organizzazione planetaria delle risorse e delle intelligenze. Esso assume il volto della tolleranza repressiva, di un’inquisizione a rovescio che tollerando e uniformando tutto, espelle, in verità, ogni elemento di differenza. In questa prospettiva, non c’è intervento pubblico che ci possa aiutare: la fatica della responsabilità personale e la ricerca di qualche principio sono gli strumenti che possiamo utilizzare» [14].

*Il testo riproduce ampiamente un mio contributo (Verità veloci, post-verità e notizie false nell’epoca dei social. C’è una nuova mission per le istituzioni culturali?) al volume L’orgoglio di essere bibliotecari: saggi in ricordo di Maria A. Abenante. Roma, AIB, 2020. Embrionalmente avevo trattato il tema in un mio breve intervento nella Tavola rotonda L’ecosistema dell’informazione oggi tra istituzioni pubbliche, formazioni sociali, mercato e nuovi media nel corso della giornata di studi La banalità della censura promosso dall’Associazione italiana biblioteche in collaborazione con l’Associazione italiana di public history e la Biblioteca di storia moderna e contemporanea, e con il patrocinio della Camera dei deputati, svoltasi a Roma presso la Biblioteca di storia moderna e contemporanea il 6 maggio 2019.

[1] Vincos Blog,World map of social networks, january 2019:  e Vincos Blog, Social media statistics

[2] Clarissa Pistello, La politica e la comunicazione social: il caso di Barack Obama, «Policlic», 18 giugno 2019,

[3] Obama, tecnologia e social frantumano società, «Ansa: Internet & social», 22 novembre 2019,

[4] Riccardo Ridi, Livelli di verità: post verità, fake news e neutralità intellettuale in biblioteca, «AIB studi», 58 (2018), n. 3, p. 462, nota 33

[5] Ampia rassegna in Riccardo Ridi, cit., p. 455

[6] Sarà vero: la menzogna al potere, falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia, di Errico Buonanno. Torino: Einaudi, 2019. Con una eloquente presentazione editoriale: «Millenni di imposture e truffe. Di bufale. In nome delle quali si sono mossi popoli, flotte, inquisitori, eserciti in battaglia. Dal favoloso Prete Gianni, alla sapienza di Ermete Trismegisto, alla setta dei misteriosi Illuminati di Baviera che, secondo alcuni, manovrano nell’ombra da secoli e forse ci governano, ai famigerati Protocolli dei Savi di Sion […]. Senza dimenticare il Santo Graal, la Donazione di Costantino, gli inafferrabili Rosacroce, i perenni Templari […]» e Dario Fertilio, Ultime notizie dal diavolo: i segreti della disinformazione dall’antichità alle fake news. Milano: Guerini Scientifica, 2019.

[7] Alessandro Baricco, The Game. Torino: Einaudi, 2018, p. 283. Il volume di Baricco affronta molti aspetti della trasformazione in corso, anche oltre le banalizzazioni correnti. Per la materia ‘verità veloci’ si veda pure Nicolò Pratelli Verità veloci ed etica nella narrazione dell’informatica [tesi di laurea]. Pisa: Università di Pisa, 2019. La tesi è basata su un interessante esperimento, denominato ‘retrologico’, nel corso del quale per 90 giorni sono stati diffusi ‘consapevolmente’ 101 post di ‘verità-veloci’ sulla storia dell’informatica.

[8] «Avrei una notizia da dare: questa storia della post-verità è una bufala. Vorrei essere più preciso: sarebbe bello se la smettessimo, tutti, di usare l’espressione “adesso che viviamo nell’epoca della post-verità” perché è infondata e fuorviante. Non aiuta a capire. In compenso aiuta spesso a sdoganare comportamenti discutibili e idee sciocche. Fine» (Alessandro Baricco, Perché questa definizione è infondata, «La Repubblica», 30 aprile 2017, supplemento «Robinson», p. 13-14.

[9] Roger Scruton, Post-truth? It’s pure nonsense, «Spectator», 10 June 2017.

[10] In ambito strettamente epistemologico il termine avrebbe un qualche diritto di cittadinanza per la nota dicotomia fatti/interpretazione, col relativo assunto della superiorità dell’interpretazione sui fatti. L’accezione più ‘debole’ in definitiva non nega il concetto filosofico (forte) di verità, ma anzi paradossalmente lo conferma in pieno, perché chi desidera ingannare e manipolare il prossimo ha tutto l’interesse a far sì che il contenuto del proprio discorso venga ritenuto vero, nel senso più elementare e ingenuo possibile, senza sofisticate distinzioni epistemologiche. Tanto è vero che ha avuto il picco della sua fortuna mediatica soprattutto come connotazione di biasimo per lo stile comunicativo del presidente Donald Trump e della campagna elettorale per la Brexit.

[11] Sulla storia e sull’estensione di questo diffusissimo termine c’è una vasta letteratura: si veda l’articolata disamina contenuta nel fortunato volume di Eugenio Capozzi, Politicamente corretto: storia di un’ideologia. Padova, Marsilio, 2018.

[12] Per orientarsi nella letteratura sul tema, che sta diventando abbondantissima, segnalo in particolare i lavori di Luciano Floridi a cui si deve la diffusione del concetto di infosfera come il campo semantico costituito dalla totalità dei documenti, degli agenti e delle loro operazioni”, e di  Paolo Benanti che ha parlato del ‘crollo di Babele’ come nuova fase dell’ Internet.

[13] Andrea Zanotti, La post-verità come volto di una nuova inquisizione, «AIB studi», 58 (2018), n.3, p. 439-451.

[14] Andrea Zanotti, La post-verità. cit., Abstract.