L’Homo Diplomaticus e il superamento della guerra

Lisander 27 Febbraio, 2025

di Robi Ronza (Giornalista)

Se non da prima, almeno dall’inizio della civiltà urbana due grandi mali hanno accompagnato l’uomo nel suo cammino: la schiavitù e la guerra. Eppure in Occidente la schiavitù si estinse nel Medioevo, riprese all’inizio dell’Età Moderna ma con delle limitazioni, e quindi venne bandita nella seconda metà del secolo XIX.

Persino Aristotele aveva giustificato la schiavitù e la riteneva inevitabile, né al suo tempo e per molti secoli ancora si riuscirà a immaginare un’economia e una società senza schiavi. Eppure, sotto la spinta dell’intreccio positivo di sviluppi tecnici e di una crescita di quella che Paolo Soave chiama «la soglia etica su cui si regola la convivenza umana», a un certo punto la schiavitù venne superata. Beninteso, ne restano tuttora dei residui, ma non è più centrale in alcuna parte del mondo, per discosta e isolata che sia.

E la guerra? Da oltre un secolo essa non smette di diventare sempre più disastrosa per tutte le parti in causa. Nell’economia interdipendente e oggi globalizzata in cui viviamo i vincitori ne escono non meno sconfitti dei vinti. L’invenzione delle armi automatiche e dei proiettili esplodenti, e la nascita dell’arma aerea hanno reso l’entità delle perdite umane e dei danni alle infrastrutture e all’ambiente provocati dalle guerre moderne enormemente superiore al vantaggio che qualcuno ne può ricavare. E alla fine di ogni guerra i vincitori sono costretti ad assumersi in tutto o in almeno in gran parte l’onere dell’immediata ricostruzione dei vinti, pena in caso contrario i gravi danni, se non un collasso della loro propria economia.

Tale stato di cose spalanca obiettivamente le porte a una nuova stagione storica in cui la guerra non sia più una continuazione della politica fatta con altri mezzi e la diplomazia prenda stabilmente il posto della guerra. Può sembrare ingenuo il sostenerlo nel nostro tempo in cui le guerre si moltiplicano, ma l’analisi di questi conflitti e dei loro sviluppi ne dà piena conferma.

Questa situazione, certamente nuova rispetto a tutte le epoche precedenti, cominciò a essere percepibile all’inizio del secolo XX. Risale al 1910 la pubblicazione a Londra in proposito di un libro magistrale di Norman Angell, The Great Illusion: a Study of the Relation of Military Power in Nations to the Economic and Social Advantage, del quale nel 2023 Emma Giammattei ed Amedeo Lepore curarono per Rubbettino la riedizione in lingua italiana con il titolo La Grande Illusione: studio sulla potenza militare in rapporto alla prosperità delle nazioni. Colpisce il fatto che il grande successo di questo libro – negli anni seguenti alla sua prima pubblicazione tradotto in venti lingue e tirato in due milioni di copie – non abbia minimamente inciso sulla mentalità comune delle élites che precipitarono l’Europa nella Prima guerra mondiale. E tanto più sorprende il fatto che quelle élites – che avevano fatto sulla loro pelle l’esperienza delle armi automatiche, dei proiettili esplosivi e dei primi bombardamenti aerei – si siano precipitate nel baratro della seconda guerra mondiale.

Dai primi anni del Novecento a oggi riguardo alla guerra si registra un clamoroso sfasamento tra la realtà delle cose da un lato, e dall’altro l’opinione pubblica e il modus operandi dei governi. Un fenomeno su cui l’industria degli armamenti ha di certo un peso determinante ancora pienamente da investigare, ma su cui prima di tutto incide ciò che noi cristiani chiamiamo peccato originale, ossia quel cieco inclinare alla prepotenza e alla sopraffazione e in genere quella fragilità di fronte al male, evidentemente non connaturate ma sopravvenute, che ledono la naturale tendenza dell’uomo al bene. Senza essere ben consapevoli del peccato originale è senza dubbio molto arduo comprendere non solo le tortuosità delle relazioni interpersonali e sociali ma anche quelle delle relazioni internazionali.

Sin dal Novecento i Papi colsero molto tempestivamente il fatto che lo sviluppo tecnico aveva fatto venir meno l’eventualità, un tempo immaginabile, della guerra giusta. Il no alla guerra che da un secolo i Papi stanno ribadendo — unici in questo tra i grandi della terra — non è un nobile ma astratto richiamo morale, ma una realistica proposta politica, fondata non solo su valori ma anche verificata sulla base della catastrofe assoluta che la guerra è divenuta appunto da almeno un secolo a questa parte.

Nell’esortazione Dum Europa, pubblicata alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale pochi giorni prima dalla sua morte, Pio X denunciò la capacità distruttiva della guerra moderna. Il suo successore, Benedetto XV, ribadì tale denuncia nel novembre del 1914 nella sua prima enciclica Ad Beatissimi Apostolorun principis. Nell’agosto 1917 tentò poi di fermare il conflitto in corso proponendo ai belligeranti di sospendere l’ «inutile strage» e di risolvere il conflitto con negoziati, proposta purtroppo accolta solo dall’imperatore d’Austria, Carlo d’Asburgo.

Nel ventennio susseguente sopravvenne lo sviluppo dell’arma aerea, che rese la guerra ancor più ingiustificata, distruttiva e controproducente. Quella del bombardamento indiscriminato di popolazioni civili come mezzo primario per conseguire la vittoria in guerra è purtroppo un’invenzione italiana; e fu l’Italia la prima ad effettuare bombardamenti del genere durante la guerra di Libia (1911-1912). Se ne deve al generale Giulio Douhet (1869-1930) la prima teorizzazione ne Il dominio dell’aria, un libro pubblicato nel 1921 che venne accolto con scetticismo dagli ambienti militari italiani e che invece, tradotto in inglese nel 1927 col titolo The Command of The Air, fu letto con grande attenzione negli ambienti degli stati maggiori delle grandi potenze, e in particolare negli Stati Uniti. E del carattere decisivo del bombardamento aereo il Pentagono resta convinto fino ad oggi, nonostante che lo abbiano smentito tutte le guerre avvenute nel frattempo (fino alla guerra di Israele contro Hamas trincerato a Gaza).

Nell’imminenza della Seconda guerra mondiale Pio XII cercò poi fino all’ultimo di fermarla. Memorabile il suo radiomessaggio del 24 agosto 1939 in cui disse tra l’altro la famosa frase: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra». Il successore di Pacelli, papa Giovanni XXIII, nella sua enciclica Pacem in terris, del 1963, indica la pace come criterio fondamentale dei rapporti tra gli uomini.

E come non ricordare l’impegno di Giovanni Paolo II per evitare lo scoppio della guerra del Golfo, le profetiche parole con cui ne preannunciò le disastrose conseguenze, la sua definizione della guerra come «avventura senza ritorno (..) spirale di lutti e di violenza». Più tardi, nel 1990, alla vigilia dell’inizio dell’operazione Desert storm, Wojtyla inviò un messaggio sia a Saddam Hussein che a George Bush Sr., supplicandoli di soprassedere al conflitto e di avviare negoziati.

Beninteso, non si pretende che di per sé l’assenza di guerra sia la pace. Come Francesco ebbe occasione di sottolineare: «La pace non è soltanto assenza di guerra, ma una condizione generale nella quale la persona umana è in armonia con se stessa, in armonia con la natura e in armonia con gli altri. Tuttavia, far tacere le armi e spegnere i focolai di guerra rimane la condizione inevitabile per dare inizio ad un cammino che porta al raggiungimento della pace nei suoi differenti aspetti» (Angelus, 4 gennaio 2015). In Fratelli tutti Francesco argomenta poi dettagliatamente la maturità storica del superamento della guerra.

È sorprendente ma anche desolante vedere come questa realistica denuncia della situazione non sia mai stata presa in serio conto né dalla scienza politica, né dall’opinione pubblica internazionale, né dagli Stati. E questo benché dal 1910, quando Angell scrisse La grande illusione, fino a oggi, la natura catastrofica della guerra moderna non abbia mai smesso di trovare ulteriori e più ampie conferme.

Da un secolo i Papi si oppongono alla guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali. Tutte le volte che ci penso mi torna in mente ciò che nel 1982 a Beirut, nel Libano allora sconvolto dalla guerra civile, mi disse un leader musulmano: «Solo il Papa potrebbe tirarci fuori da questa situazione». E a me che gli domandavo sorpreso come mai egli, musulmano, auspicasse l’intervento del Papa mi rispose: «Perché, tra i grandi della Terra, il Papa è l’unico che non ha armi da vendere e petrolio da comprare».

L’enorme progresso che negli ultimi decenni ha avuto luogo in ogni campo, ma specialmente in quelli della telematica e della cibernetica, si è pienamente riversato sugli armamenti. Quello stesso enorme progresso ci mette nelle mani oggi ordigni con una potenza distruttiva smisurata e nel medesimo tempo precisamente regolabile che perciò stesso rendono ormai obsoleta la stessa arma nucleare (che provoca una persistente e vasta area contaminata impercorribile per tutti).

Oggi perciò, nel quadro di quella «soglia etica su cui si regola la convivenza umana, sia nelle nostre società che nel più ampio contesto internazionale», la quale, come osserva Soave, «non è mai stata così alta», si apre potenzialmente per la diplomazia una grande prospettiva: quella non più semplicemente di precedere e di seguire la guerra, ma di prenderne totalmente il posto in quanto strumento di soluzione delle controversie internazionali. In tale quadro di individuare le occasioni di tendenziale attrito prima ancora che emergano, e che divengano un focolaio di energie negative sempre più stabile, vasto e intricato per l’intrecciarsi di torti e di rancori a ogni livello, dal generale al particolare, dal politico al personale, dall’economico al sociale. Ciò perché sia possibile disinnescarle tempestivamente, ossia prima che giungano al punto in cui diventano irrefrenabili, e non resta poi che sanarle in qualche modo a posteriori, a guerra finita, a distruzioni avvenute, a lacrime e sangue già sparsi.

Per meglio spiegarmi faccio un esempio. Gli ebrei sionisti avevano dei loro buoni motivi per emigrare in Palestina nei decenni tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX. Tuttavia era prevedibile che l’afflusso in quel territorio di immigrati più ricchi e tecnicamente più preparati degli abitanti autoctoni avrebbe obiettivamente costituito una causa di sconquasso dell’economia e della società locali. Se sin da allora – e dunque molto prima del 1920 quando iniziarono gli scontri armati tra ebrei sionisti e arabi palestinesi – la diplomazia avesse proposto e poi gestito programmi di contrasto alle cause obiettive dell’emarginazione dei palestinesi non sarebbero stati posti i semi di un’inimicizia tra i due popoli, poi precipitata in scontri armati e guerre con quella loro inevitabile scia di lutti, incomprensioni e rancori reciproci che oggi è divenuto così difficile estinguere.

Prevenire gli attriti più che “gestirli” quando esplodono: questo è a mio avviso il grande compito della diplomazia nell’epoca post-clausewitziana in cui oggi possiamo e dobbiamo entrare. Ciò implica però non soltanto una grande presa di coscienza, una grande mobilitazione morale e una grande rielaborazione culturale, ma anche un progetto preciso di reimpiego dei capitali, delle competenze tecniche e del personale dell’industria degli armamenti nonché degli apparati militari. Tutto ciò che viene oggi speso in armamenti potrebbe essere investito nello sviluppo dei Paesi meno sviluppati dell’emisfero Sud e dell’Asia centrale: un programma certamente di lungo periodo perché nel nostro tempo la trasformazione delle spade in vomeri e delle lance in falci, annunciata in Isaia (2, 4), non può che essere un’operazione finanziariamente e tecnicamente molto complessa.