Vita e Pensiero n.6 Novembre-dicembre 2013
La strumentalizzazione del fatto religioso a fini di potere non è una novità. Ma, attuata sempre più spesso, essa tende a trasformare quella regione in una vera e propria “polveriera” – basti pensare a Siria e Iran. Come i Balcani di prima del 1914.
di Georges Corm
(Traduzione di Mario Porro)
Il Medio Oriente, nel corso degli ultimi anni, è diventato una zona di tempeste. Ai vecchi conflitti irrisolti sono venuti ad aggiungersene di nuovi, che minacciano più che mai la pace del mondo. Giochi di potere sempre più scoperti trovano in questo contesto l’occasione di affermarsi in modo più evidente, tanto che possiamo domandarci se non siamo alla vigilia di una conflagrazione generalizzata dalle ripercussioni del tutto imprevedibili sulla stabilità del mondo.
In questo gioco, due dinamiche di fondo sono particolarmente preoccupanti. Da un lato, la strumentalizzazione dei sentimenti identitari delle numerose comunità della regione compiuta a opera delle potenze intervenute: essa porta, di fatto, i media e i think tank a fecalizzarsi sull’espressione dei disagi identitari, contribuendo non solo a mantenerli, ma anche a celarne le finalità molto profane.
Dall’altro, la tendenza a intendere tali conflitti secondo una griglia di lettura morale, per distinguere, in modo chiaro e definitivo, i “buoni” e i “cattivi”: mentre suscita passioni forti nelle opinioni pubbliche, questa tendenza legittima di fatto l’intervento di potenze regionali o internazionali negli affari del Medio Oriente, che può andare dalla fornitura di armi, di materiali militari e di informazioni logistiche, alle dirette offensive armate. Per comprendere appieno i conflitti mediorientali occorre però ricollocarli nel tempo lungo e rintracciarne le origini in termini multifattoriali e non lineari.
Alle origini: la Guerra fredda
I venti della Guerra fredda hanno soffiato con forza su quella regione altamente strategica che è il Medio Oriente. A partire dagli anni Cinquanta vi si produce una profonda spaccatura tra, da un lato, i regimi arabi (essenzialmente monarchici) alleati degli Stati Uniti e sottoposti alla loro influenza e, dall’altro, quelli il cui non-allineamento tende paradossalmente ad avvicinarli all’Urss, potenza che arma e finanzia i movimenti di decolonizzazione e i Paesi del Terzo Mondo che si rifiutano di seguire la politica americana.
La spaccatura corrisponde a quella che opponeva gli avversari della dottrina americana e britannica di raggruppamento degli Stati arabi in una coalizione anticomunista, concretizzata dal Patto di Baghdad del 1955 (l’Egitto e la Siria), ai suoi sostenitori (l’Iraq e la Giordania monarchica, come pure il presidente della Repubblica libanese dell’epoca).
La spaccatura fu la causa di numerosi disordini nel 1958: ne sono testimonianza la rivoluzione irachena di luglio, l’unione fra l’Egitto e la Siria come inizio di un’unità araba più vasta, la crisi del Libano che portò a uno sbarco di marines a Beirut, o ancora la crisi non meno grave della Giordania. Poco dopo, di fronte al sostegno del governo americano allo Stato d’Israele che continuava a occupare i territori arabi invasi durante la guerra del 1967, gli Stati arabi anti-imperialisti (Libia, Algeria, Siria, Iraq) si raggrupparono in un fronte di resistenza dalla retorica virulenta, dando il loro sostegno a diversi movimenti palestinesi armati.
Contro di essi, gli Stati conservatori prò-occidentali formarono nel settembre 1969 l’Organizzazione della conferenza islamica, su iniziativa del Marocco, del Pakistan e, soprattutto, dell’Arabia saudita che diverrà una potenza finanziaria grazie all’aumento dei prezzi del petrolio nel 1973 e sarà all’origine della creazione della Banca islamica di sviluppo.
Ormai, due logiche si fronteggiano: quella che perora la solidarietà islamica, l’anticomunismo e denuncia l’espansionismo dell’Urss nel Terzo Mondo e, sul fronte opposto, quella che denuncia l’imperialismo americano e perora la solidarietà degli Stati arabi contro Israele.
La rivoluzione religiosa iraniana del 1979 arriva a complicare ulteriormente questa dinamica conflittuale già complessa. L’ideologia della rivoluzione fu a un tempo islamica e anti-imperialista, in una combinazione costituzionale originale che istituì una repubblica con elezioni parlamentari e presidenziale a suffragio universale, e il controllo da parte di un Consiglio dei religiosi sulla vita parlamentare e sulla legislazione, oltre a quello di una Guida suprema sulla politica del Paese, in particolare sulla sua politica estera.
La nuova repubblica era anti-imperialista, ma al tempo stesso anti-comunista: sosteneva la causa dei popoli oppressi nel mondo, i palestinesi in primo luogo, e avrebbe ispirato Hezbollah, il nuovo movimento di resistenza libanese all’occupazione israeliana del sud del Libano, che, grazie all’aiuto finanziario e militare di Teheran, impose nel 2000 l’evacuazione delle truppe israeliane. Malgrado 33 giorni di combattimenti, l’esercito israeliano non riuscì nel 2006 a rioccupare la parte sud del Libano che aveva invaso nel 1978 e conservato fino al 2000.
L’emergere della potenza iraniana inquietò notevolmente le monarchie arabe conservatrici alleate dell’Occidente, che denunciarono la sua identità sciita. L’Iraq venne spinto a entrare in guerra contro l’Iran, cosa che, nella sua megalomania, Saddam Hussein non esitò a fare nel 1980, sperando di vincere facilmente grazie al sostegno dei Paesi occidentali e di fare, in tal modo, del suo Paese la potenza chiave del Medio Oriente. Si era così messa in moto la dinamica conflittuale che porterà alla Guerra del Golfo (1991) e all’invasione americana dell’Iraq (2003).
In senso opposto, la Siria divenne un alleato privilegiato dell’Iran con cui avrebbe formato, accanto aU’Hezbollah libanese (le cui forniture di armi passeranno per la Siria), un asse regionale anti-imperialista, che avrebbe dato il cambio al passato Fronte di resistenza e di rifiuto, disintegrato dopo il crollo dell’Urss (1991), favorendo l’offensiva irachena in Iran, il lento scivolare dell’Algeria in una guerra intestina feroce tra gli islamisti e l’esercito regolare (1992) e il riorientamento della strategia d’influenza libica verso l’Africa subsahariana.
L’alleanza delle monarchie conservatrici arabe con Washington si sviluppò in modo spettacolare negli anni Settanta e Ottanta, nel contesto dell’occupazione sovietica in Afghanistan (1979-1989), motivata in Urss dal timore di un propagarsi della rivolta iraniana nel Caucaso. Si parla a questo proposito di “reislamizzazione” di tali società. Dal 1980 viene reclutata e preparata per essere inviata a combattere in Afghanistan un’internazionale di combattenti islamici. L’elemento arabo, in particolare saudita, vi è preponderante.
È l’atto di nascita di quella che diverrà la nebulosa denominata Al-Qaeda. Essa reclamava allora il ripristino del califfato e la restaurazione dei costumi islamici in tutte le società musulmane sul modello saudita-pakistano. Dopo la Guerra del Golfo e l’insediamento permanente di truppe americane sul suolo saudita nel 1991, denuncerà una nuova crociata ebraico-cristiana contro i musulmani. Una volta ritiratesi le truppe sovietiche dall’Afghanistan (1989), i movimenti islamici radicali sorti da questa etichetta si sparpaglieranno tra la Bosnia, il Kosovo, la Cecenia, le repubbliche autonome caucasiche, ma anche le Filippine. Oggi si trovano in Iraq, Siria, Africa subsahariana e nelle repubbliche musulmane dell’Asia centrale.
Queste correnti sono responsabili degli attentati terroristici negli Stati Uniti (2001), in Spagna (2004) e in Gran Bretagna (2005), ma sono ugualmente molto attive in numerosi Paesi musulmani i cui governi sono giudicati “empi”: qui possiamo citare Arabia Saudita, Pakistan, Indonesia, Giordania, Egitto, Iraq, Somalia, Libia e Algeria. Comunque, paradosso delle politiche occidentali che denunciano il terrorismo senza prosciugarne le fonti ideologiche fra i loro alleati “musulmani”, la loro ideologia resta insegnata più o meno apertamente in Arabia Saudita e in Pakistan, alleati privilegiati degli Stati Uniti.
Le rivolte della “primavera araba”
Le rivolte arabe che esplodono nel 2011 dal sultanato di Oman alla Mauritania costituiscono un evento rilevante nella vita delle società arabe. Il soffio libertario che le anima si ricollega all’era rivoluzionaria degli anni Cinquanta e Sessanta, anche se le rivendicazioni, strutturate intorno al concetto di “dignità”, sono questioni più di politica interna che di politica estera: fine delle forme di potere autocratico e delle restrizioni delle libertà pubbliche, giustizia economica e sociale, lotta contro la corruzione e tutte le richieste di natura “laica”. Le donne svolgono un ruolo rilevante in queste manifestazioni, nelle quali inizialmente si vedono poche persone mettere in mostra il tipo di abbigliamento e l’apparenza fisica all’islamica.
Si tratta dunque di un movimento di protesta puramente civile, in cui le correnti islamiche restano dapprima ai margini. Esse vi prenderanno parte solo quando la vittoria sarà vicina e diverrà evidente la possibilità di elezioni fuori dal controllo degli apparati di sicurezza. È così che la vittoria elettorale in Egitto e in Tunisia sarà facilmente strappata alle correnti liberali dai movimenti islamici, che possono godere dell’aureola delle persecuzioni e degli anni d’esilio o di carcere subiti, e del sostegno di una rete di organismi caritatevoli che beneficiano dei finanziamenti petroliferi e si sviluppano da tempo negli ambienti popolari, rurali e urbani.
I partiti arabi che si richiamano all’islam si presentano oggi come la sola forza organizzata e sufficientemente radicata per ereditare il potere lasciato vacante dalla caduta dei dittatori. Essi adottano programmi economici di ispirazione neo-liberista e si astengono da dichiarazioni anti-occidentali.
Diventa presto chiaro che le diplomazie occidentali li sostengono e non vedono neppure inconvenienti a che taluni che hanno combattuto sotto l’insegna di Al Qaeda in Afghanistan o altrove prendano parte all’ondata rivoluzionaria, in numero rilevante come nel caso della Siria o della Libia; il che non manca d’altronde di agevolare la presa del potere da parte di elementi jihadisti nel Nord del Mali. Sul finire dell’ultimo decennio, la Turchia, sotto la direzione del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), partito islamico “moderato”, ha inoltre acquisito un ruolo d’alto profilo nella regione.
Questo dipende tanto dalla personalità del suo primo ministro, Recep Tayyib Erdogan, che si è posto a difensore dei palestinesi di Gaza dopo l’attacco di Israele del 2008-2009 e che non esita ad alzare la voce nei confronti dello Stato ebraico, quanto dagli elogi ininterrotti delle potenze occidentali nei confronti del suo sistema di laicità, spesso eretto a “modello” per i Paesi arabi.
Tuttavia, la popolarità guadagnata deve anche molto all’ergersi della Turchia a “potenza sunnita”, protettrice degli arabi sunniti che si sentirebbero minacciati dal supposto “asse sciita”, del quale farebbero parte la Siria e l’Hezbollah libanese. In tal senso, la crisi siriana è di un’importanza capitale, in quanto Erdogan, dopo aver concluso nel 2007 numerosi accordi economici con il governo di Damasco, è diventato improvvisamente il detrattore più virulento di Bachar El-Assad.
Al fianco della Francia, la Turchia dispiega ormai numerosi sforzi per creare un’opposizione al regime siriano: lo testimonia soprattutto l’organizzazione all’estero di svariati incontri con i Fratelli musulmani siriani. Strumentalizzando l’identità sunnita, Ankara attua però un gioco pericoloso, tenuto conto dell’importante minoranza alawita turca molto laica nel sud-est del Paese, ma anche del movimento nazionalista curdo, generalmente poco sensibile a questo tipo di manipolazione.
In parallelo, l’emirato del Qatar, facendo leva sulla propria forza d’urto finanziaria e mediadca, si erge a protettore delle correnti islamiche radicali (salafiti) che hanno conseguito successi spettacolari nelle elezioni egiziane e tunisine. Sostiene inoltre il movimento armato Al-Nosrat in Siria, considerato dagli Stati Uniti un’organizzazione “terroristica”.
Alcuni analisti tendono a ritenere che il fattore energetico (dalla produzione al trasporto) sia la chiave per spiegare numerosi conflitti. Così, la motivazione dell’invasione americana in Iraq sarebbe stata principalmente quella di controllare le seconde riserve petrolifere del mondo dopo quelle dell’Arabia Saudita e prevenire un’ingerenza cinese su questa strategica materia prima. L’odierno conflitto siriano viene spiegato nello stesso modo, con il desiderio di ridurre la dipendenza energetica dell’Europa dal gas russo, facendo passare attraverso il territorio siriano un oleodotto in grado di trasportare il gas del Qatar fino a un terminal nel Mediterraneo.
Ci sembra che questo argomento sia sopravvalutato per due ragioni essenziali. Innanzitutto, la scoperta dei gas di scisto sconvolge tutti i dati tradizionali del mercato mondiale dell’energia: l’importanza del petrolio mediorientale verrà ridotta in un prossimo futuro. Inoltre, in mercati ormai aperti, mondializzati e regolati dalTOmc, si stenta a comprendere come Washington potrebbe impedire a Pechino di accedere a tali mercati. Sia la situazione siriana sia quella iraniana rivelano soprattutto il desiderio degli Stati Uniti e dei Paesi dell’Unione europea di rafforzare la loro egemonia in Medio Oriente e di spezzare definitivamente l’alleanza degli oppositori a questo dominio.
Tali oppositori sono oggi molto meno numerosi di qualche decennio fa. Inoltre, essi patiscono una marginalizzazione crescente sul piano internazionale: lo testimoniano le sanzioni economiche imposte all’Iran per mettere fine al suo programma di arricchimento dell’uranio, quelle subite dalla Siria, alleato principale di Teheran da più di trent’anni, o ancora l’inclusione dell’Hezbollah libanese nella lista americana delle organizzazioni terroristiche.
Lo Stato d’Israele conduce anch’esso una campagna molto forte contro l’Iran, di cui minaccia di attaccare le installazioni nucleari. La durezza delle sue prese di posizione contro il regime siriano, le facilitazioni concesse alle forze dell’opposizione in campo e il suo sostegno ai diversi organismi politici d’opposizione all’estero mirano a ottenere un cambiamento di regime che taglerebbe i legami con l’Iran e l’Hezbollah.
Cionondimeno, dopo l’esperienza libica, Cina e Russia non sono più disposte a lasciare campo libero all’estensione dell’egemonia della Nato sul Medio Oriente. Da ciò il loro rifiuto di un intervento in Siria sul modello di quello che ha avuto luogo in Libia e il loro fermo sostegno al regime di Damasco come, in modo più discreto, all’Iran.
Per queste due potenze, in effetti, abbandonare quella zona altamente strategica del mondo ai soli interessi occidentali rappresenterebbe una minaccia alla loro stessa sicurezza nazionale. Inoltre, esse temono che la rinascita dell’internazionale di combattenti islamici, osservata fin dallo scoppio delle rivolte arabe, moltiplichi i rischi di attacchi terroristici nel Caucaso, in Cecenia o nello Xingjang cinese, la cui popolazione è in maggioranza musulmana. In questo contesto, i rischi di deflagrazione tendono a moltiplicarsi.
Mentre la Russia rafforza la sua presenza militare nel Mediterraneo lungo le coste siriane (essa possiede una base navale importante a Tartous), nel gennaio 2013 si è assistito all’installazione di basi di lancio di missili americani Patriot lungo la frontiera turco-siriana. A ciò si aggiungono gli esercizi militari ripetuti della flotta militare iraniana nel golfo di Ormuz e lo sviluppo di nuovi ordigni balistici da parte di Teheran; senza contare la crescita delle capacità militari dell’esercito israeliano che sembra sempre volersi scontrare tanto con la resistenza armata di Hamas a Gaza (lo ha confermato l’attacco di quel piccolo territorio nel novembre 2012) quanto con l’Iran. Possiamo così osservare in Medio Oriente tutti i segni di importanti e inquietanti preparativi di guerra.
Una nuova polveriera?
Come i Balcani e l’Europa centrale e orientale hanno costituito la “polveriera” che ha condotto alle due guerre mondiali del XX secolo, oggi è il Medio Oriente la “polveriera” del XXI secolo, che può scatenare una nuova conflagrazione militare generalizzata. Disinnescare questa situazione appare davvero utopico. Certo, molti analisti avanzano oggi l’ipotesi di una nuova Yalta, in grado di mettere fine alle tendoni che lacerano il Medio Oriente.
A nostro parere, tuttavia, questa visione del futuro pecca di ottimismo: le poste in gioco in termini di potenza e le passioni che esse suscitano sono troppo forti perché vengano avanzate reali concessioni dai principali attori, internazionali o regionali. E anche se così fosse, non è detto che i popoli della regione e i loro diversi sottogruppi etnici o religiosi accetterebbero l’imposizione di una spartizione delle egemonie esterne sul loro destino e sulle loro risorse naturali. La manipolazione delle comunità etniche e religiose è una politica pericolosa che ha sempre riservato sorprese.
È un peccato che in proposito non si sia ancora imparata la lezione della storia delle relazioni tra le potenze occidentali e il mondo arabo, la Turchia e l’Iran.
Le involuzioni identitarie di tipo fondamentalista alle quali assistiamo da diversi decenni nel mondo arabo e nel Medio Oriente potrebbero generare sempre più massacri e trasferimenti forzati di popolazione, come è accaduto nel corso della lunga agonia, e in seguito dello sfacelo, all’inizio del XX secolo, dell’impero ottomano. Sarebbe tempo che le diplomazie occidentali uscissero dalle loro passioni e contraddizioni, ma anche che gli attori locali cessassero di fare costantemente il loro gioco (in positivo o in negativo) per mantenersi meglio al potere o estendere la propria influenza e il proprio controllo sulle popolazioni.
La questione palestinese, insomma, non scomparirà dalla coscienza dei popoli arabi, anche se oggi essa appare provvisoriamente eclissata dai forti sussulti della congiuntura generale regionale. Un “nuovo Medio Oriente” pacificato non potrà emergere da questi crudeli giochi di potenza che perdurano da due secoli.
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Georges Corm, professore all’Istituto di Scienze politiche dell’Università Saint-Joseph a Beirut, è stato ministro delle Finanze del Libano dal 1998 al 2000. Per l’Editrice Vita e Pensiero è da poco uscito il suo volume II nuovo governo del mondo. Ideologie, strutture, contropoteri. Questo articolo è apparso sulla rivista «Les Grands Dossieri de Diplomane».