Valori non negoziabili e risposta etica alle leggi ingiuste

Credere Oggi (5/2013)principi-non-negoziabili n. 197 settembre-ottobre

Carlo Cardia

(ordinario di Diritto ecclesiastico e di Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Roma-Tre Roma)

1. Dal nichilismo totalitario ai diritti umani. Reazione giusnaturalista ed eccesso di etica

Per iniziare una riflessione sui valori non negoziabili è utile muovere dalle radici teoriche del relativismo e del nichilismo contemporanei, tenendo presente che le prime elaborazioni filosofiche o giuridiche che maturano su determinati argomenti, con formulazioni del tutto scandalose, rimangono a lungo chiuse nelle scuole di pensiero inaccessibili ai più. Però con il tempo filtrano nella cultura politica e giungono a penetrare il senso comune quando ormai la società si trova impreparata e indifesa di fronte ad affermazioni più radicali, che prima erano impensabili. Basti pensare che soltanto vent’anni addietro nessuno avrebbe parlato di nozze gay o suicidio assistito, mentre oggi traguardi del genere sono ritenuti realistici in numerosi paesi europei e occidentali.

Per rimanere agli ultimi decenni, l’origine teorica più lontana della cultura relativista può farsi risalire alla radicale separazione tra diritto ed etica, tra legge e principi umanistici che prima erano accettati pressoché da tutti. Il vulnus nella storia del pensiero si realizza proprio quando, con la caduta dei totalitarismi del Novecento, era maturata una dura critica al razionalismo illuminista, e si era ripristinato un rapporto forte tra diritto naturale e diritto positivo, fino al punto da provocare quasi un eccesso d’etica in alcuni ordinamenti giuridici.

L’affermazione dei totalitarismi già segna un provvisorio trionfo del nichilismo etico-giuridico di matrice ottocentesca, che uscendo dalle scuole di pensiero assume direttamente il potere. E’ utile sfatare una leggenda. Solo in minima parte lo Stato totalitario può definirsi Stato etico. Certo, ha un’etica da imporre ai cittadini, materialista o pagana, un’etica di classe o di guerra, un codice ferreo, ma per agire non ha bisogno di norme scritte, la volontà del tiranno diviene legge, arbitraria e mutevole com’è la volontà di un uomo.

Adolf Hitler ordina con un biglietto di segreteria il programma di eutanasia del 1939 e da l’avvio allo sterminio degli ebrei con un ordine verbale nel 1941. losif Stalin decide personalmente lo sterminio dei contadini ricchi, fa deportare popolazioni da una parte all’altra della Russia, stabilisce nei colloqui con i collaboratori chi va ucciso. Cari Schmitt identifica il diritto con il tiranno:

II giudizio promana dal comando. In verità l’atto del (capo) è giuridicità pura. Esso non è subordinato alla giustizia ma è la massima istanza di giustizia.

Quando emergono gli orrori e le rovine dei regimi totalitari, la mente umana è quasi colta da vertigine, stenta a credere a quanto gli uomini hanno saputo fare, non può più tacere le colpe della modernità. La critica più severa viene dalla Scuola di Francoforte che riconduce il nichilismo alla pretesa scientista che fonda etica e diritto. Nel saggio Juliette Max Horkheimer e Theodor W. Adorno(1) affermano che «ogni fine oggettivo, cui gli uomini si richiamino come a una veduta della ragione, è (in ottica illuminista) illusione, menzogna». I principi etici non nascono solo dalla ragione, perché questa produce anche principi opposti.

Di fronte alla ragione scientifica le forze morali sono impulsi e condotte non meno neutre di quelle immorali, in cui del resto trapassano immediatamente. L’illuminismo considera le passioni ac si quaestio de lineis, planis aut de corporibus esset. L’ordine totalitario ha realizzato tutto questo (2).

Quando Hannah Arendt traccia il bilancio dello scempio del diritto ad opera del totalitarismo non chiede il semplice ripristino della democrazia, ma molto di più. Chiede «un nuovo Sinai, una nuova legge sulla terra» per salvare l’uomo dall’oppressione, dalla perdita della dignità(3). Nuovo Sinai, nuovo decalogo, stanno a significare che c’è qualcosa che precede il mondo delle leggi, che queste devono rispettare, se vogliono essere giuste.

Il periodo che segue la fine dei totalitarismi è il più proficuo per un nuovo rapporto tra diritto, etica, umanesimo. Le Carte internazionali dei diritti umani divengono base delle Costituzioni moderne: esistono principi che sono per il diritto positivo insuperabili colonne d’Ercole; persine chi esalta la centralità della Costituzione in un ordinamento sa che alcuni principi sono così alti, superiori, che non possono essere modificati neanche dal costituente. Per Gustavo Zagrebelsky, «siamo in una dimensione di diritto costituzionale pre-positiva che appartiene necessariamente alla sfera non della forma, cioè della forza messa in forma dalla lex, ma della sostanza, cioè dello ìus», di un diritto che precede la forma.

Tanto forte è questa spinta che nella seconda metà del Novecento si registra una produzione giuridica senza fine, quasi una «giuridificazione del mondo», con cui si intende disciplinare molti aspetti dell’attività umana, con norme, regolamenti, precetti, che producano moralità e giustizia. Si profila perfino un eccesso di moralizzazione che suscita perplessità. Nella finanza si vorrebbero uomini leali, corretti, privi di avidità, si introducono precise norme di condotta. I governi chiedono alla chiesa di invitare i fedeli a pagare le tasse, come dovere morale. La proliferazione di codici etici investe ogni categoria, medici, avvocati, dirigenti d’azienda, professori, ospedali, scuole e università.

Il legislatore vuole sobrietà alzando le imposte sugli alcolici, proibisce e disincentiva la droga, ma misura il proibizionismo per non provocare l’effetto opposto. Prevede, come in passato, che il matrimonio si fondi sulla fedeltà e sulla solidarietà, invita a far giocare i bambini e, come in Cina, chiede ai figli di andare a trovare i genitori anziani, specie se soli o malati. A volte si sfiora quasi l’eccesso: si vogliono cittadini meno obesi, a tutela della loro salute, si incentivano le diete, si sconsigliano cibi calorici, bibite gassose. Grandi novità riguardano l’atteggiamento verso gli animali, si promuove nella scuola la formazione di sentimenti compassionevoli verso i non umani, sono cancellate feroci pratiche (come la corrida in Catalogna, la caccia alla volpe in Gran Bretagna), si impongono doveri alle autorità verso animali in difficoltà, addirittura (altro esempio di eccesso) si vorrebbero cani e gatti inseriti nello stato di famiglia, con la conseguenza di un aumento improvviso degli abbandoni.

2. Le radici teoriche del nichilismo contemporaneo

Insomma, dopo tanto positivismo, formalismo, nichilismo, l’etica quasi si vendica sul diritto; cacciata dalla porta rientra nell’ordinamento per tanti meandri. Eppure non è così per tutti, perché una corrente di pensiero sotterranea scava a lungo in senso opposto, per decenni, con lo scopo di recidere ogni rapporto tra etica e diritto, riaffermare l’onnipotenza dell’uomo nel fare le leggi che vuole. Si utilizza un metodo nuovo per introdurre il nichilismo sconfitto. Poiché non si può negare che la legge si ispira a valori etici, c’è un modo per ottenere il risultato: negare che esista l’etica. Se l’etica non esiste, c’è il nulla, il diritto non può avere rapporti con il nulla.

Si giunge a questo risultato con tortuosità. Una complessa scuola di pensiero che viene da lontano, interpreta il diritto come realtà procedurale che in quanto tale è indifferente rispetto alle concezioni del bene e del male. Una volta raggiunto questo risultato, c’è chi va oltre, e Charles Larmore afferma che per il diritto non ha senso parlare di vita buona, o vita cattiva, come fa Aristotele, perché esso non conosce gerarchie tra i diversi tipi di vita. Al più, aggiunge con inconsapevole ironia, «alcune concezioni di vita buona saranno più apprezzate di altre», perché «quanto meno, chi desidera fare una vita da ladro, non avrà vita facile».

Le conseguenze più radicali si riversano sull’etica, che patisce fino in fondo il principio di annullamento. Nell’etica, per Umberto Scalpelli, «non c’è verità. I valori di vero e di falso» non hanno fondamento. «L’etica è nei suoi principi arbitraria»; se è arbitraria, l’unica verità è nella risposta personale che ciascuno si da. Un autore radicale coglie l’assurdo e afferma:

Se non avverto l’immoralità di certe condotte, allora l’assistenza sanitaria fornita da Schweitzer e quella prestata nei lager sono entrambe difendibili; il comportamento di persone moralmente repellenti è giustificabile, né più né meno di quello dei santi: siamo in pieno nichilismo(4).

Lo dice H. Tristan Engelhardt, il quale però aggiunge: «Allora non resta altra soluzione che derivare l’autorità dagli individui». Charles Charlesworth può concludere sostenendo che l’accordo è possibile solo un punto: il valore supremo è la libertà e l’autonomia individuale. Si chiude il cerchio, con una logica ferrea. Se non c’è verità, non c’è etica, c’è solo la sovranità dell’io, il diritto cercherà la giustizia nel vuoto, nella società liquida di Zygmunt Bauman. La sua Grundnorm sarà la sovranità dell’io. Se l’io è sovrano, l’io è fonte della giustizia.

L’ambito di operatività del nichilismo giuridico presenta una difficoltà, perché si esercita in un perimetro flessibile, dai confini indefinibili. Non riguarda solo la sfera intima della sessualità, la procreazione, ma coinvolge i temi della vita, del suo inizio e fine, del matrimonio, dell’affidamento dei figli, della parentela. Il principio cardine è individuato nel pensiero di John Stuart Mili:

II solo scopo per cui si può esercitare un potere su un membro della comunità civilizzata, è per evitare danno agli altri. Per ciò che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è assoluta. Su sé stesso, sulla sua mente e sul suo corpo è sovrano(5).

Nella vulgata questo principio è ripetuto e stravolto: la legge che permette più opzioni non fa danno a nessuno, e nessuno può lamentarsi, perché non è obbligato a nulla. Se pratico l’eutanasia, perché chi non vuole praticarla se ne lamenta? E perché dolersi delle nozze gay, se ciò riguarda solo gli interessati? E via di seguito.

In questa posizione si cela l’insidia maggiore del relativismo, anche se si rilevano subito alcune contraddizioni interne. Il nichilismo non può essere coerente con se stesso, per quanto assurdi sarebbero gli esiti. È il caso della poligamia. Perché non consentirla tra persone consenzienti? Cosa lo impedisce? In realtà, l’eguaglianza della donna e il dono reciproco che deve essere eguale. Ma questi sono valori primari e il nichilista non può appellarsi ad essi.

Ancora, una persona potrebbe, secondo i criteri relativisti, assoggettarsi a una condizione di schiavitù, con regolare contratto, per lucrare un vantaggio economico dopo un lasso di tempo nel quale funge da schiavo a tutti gli effetti del datore di lavoro. Chiunque può cogliere l’assurdità di una simile posizione, ma non un pensatore nichilista, perché per lui chiunque è libero di fare ciò che vuole, quindi anche di ridursi in schiavitù.

3. Procreazione e famiglia

Altrettanto incoerente si presenta l’impostazione nichilista per ciò che riguarda alcune pratiche in materia di bioetica, come la clonazione, la maternità surrogata, l’intervento per cambiare alcuni segni del nascituro. Ad oggi, un’istintiva opposizione si manifesta verso la clonazione, ma la giustificazione relativista del suo divieto sta nel cosiddetto diritto all’unicità:

La consapevolezza di essere copia di una creatura che si è manifestata in una forma vivente soffoca […] la libertà di scoprire se stessi, di sorprendere se stessi e gli altri con ciò che è insito in ciascuno di noi(6)

Attenzione, non si dice che la clonazione è da respingere perché contraria al diritto naturale di nascere da una coppia genitoriale che ne assicuri la crescita. Si afferma che la clonazione non garantisce il diritto all’identità del figlio. Ma se questo è il motivo, altri subito controdeducono, perché «lo sviluppo psicologico, il modo di sentire, è qualcosa che non dipende dal corpo, cresce e si sviluppa in un contesto sociale, ambientale, culturale senza essere condizionato dalla struttura del DNA». In realtà, l’identità di ciascuno ha modo di differenziarsi nel corso della vita e delle esperienze che si fanno.

Circa la maternità surrogata, il divieto riguarda solo la sua commercializzazione, l’uso a fini di lucro. Per Stefano Rodotà, una volta scongiurato il pericolo della commercializzazione, si ripropone la prospettiva del dono [della] «solidarietà» tra donne, in una dimensione che conserva la sua piena specificità femminile e che trasferisce il corpo dalla logica egoistica a quella altruistica.

Qui c’è uno slalom tra valori e disvalori. Viene affermato un disvalore (uso lucrativo del corpo), che pone un limite all’arbitrio; un valore (solidarietà fra donne) che giustificherebbe la maternità surrogata. Però, non si parla mai dei diritti del concepito, del suo interesse ad avere un’identità biologica e sociale certa, senza essere oggetto di strumentalizzazione del corpo a fini egoistici. La vera ragione che distrugge alla base il dogma nichilista consiste nel fatto che, nell’ambito della procreazione, dell’affidamento della prole, del matrimonio, dell’eutanasia, del suicidio assistito, di quelle pratiche che mettono in gioco valori fondamentali che guidano l’agire umano, l’individuo non è mai solo, perché le sue scelte hanno effetti diretti sugli altri, sulla loro vita, influiscono e condizionano il loro futuro, la crescita personale. Fino al punto che spesso si contraddicono le carte sui diritti umani, se ne violano lettera e contenuti.

Gilda Ferrando, ad esempio, si rende conto che in tutta la materia delle maternità artificiali (surrogata, eterologa, donata) sono in gioco i diritti dei figli, ma conclude che «a livello di principi generali non può affermarsi un diritto del figlio a una famiglia ideale, ma piuttosto il diritto del figlio alla famiglia che la vita gli ha dato»(7). Ed Eugenio Lecaldano si chiede:

Perché mai dovremmo dogmaticamente assumere che la nozione psicologica di Io o identità personale esige necessariamente che si conosca il proprio padre e madre, il proprio luogo e anno di nascita, i propri familiari?(8).

Queste le conseguenze della sovranità dell’io sugli altri. Altrettanto può dirsi per le relazioni matrimoniali, per loro natura bilaterali e multilaterali. La tendenza a prevedere il divorzio dopo pochissimo tempo, un anno o alcuni mesi dal matrimonio, toglie a questo ogni significato di stabilità e impegno reciproco, priva di ogni sostanza e stabilità le garanzie per i figli. Si contraddice l’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 per il quale «uomini e donne hanno il diritto di sposarsi e fondare una famiglia». Il concetto di fondazione perde valore se il vincolo è così labile che può essere sciolto dopo poche settimane.

Le leggi che riconoscono le nozze gay, e l’adozione di minori, violano i più elementari principi di ragionevolezza, e di solidarietà verso i minori, e la massima sovranità dell’io (direi, il dominio dell’io) sugli altri. Si riscrivono i Codici civili di tutto il mondo, dovunque parlino di marito e moglie. Non sarà la coppia a unirsi in matrimonio, ma il matrimonio ad adattarsi a realtà aliene. Si stravolge il fluire delle generazioni, il «ruolo non solo sociale, ma soprattutto umano che loro spetta, cioè che siano maschio e femmina». Non si potrà più usare il lessico del matrimonio e della famiglia, i soggetti non si chiameranno più marito e moglie, non saranno mai nuora e genero, o cognato e cognata, per i rispettivi parenti. Si è giunti, senza senso del ridicolo, a numerare i genitori 1 e 2, privandoli delle qualità naturali di maschio e femmina.

Con il mimetismo estremo dell’affidamento dei minori a coppie gay, le conseguenze sono irreversibili. Si accentua la violazione delle Carte dei diritti umani, ad esempio dell’articolo 5 della Convenzione sull’eliminazione delle discriminazioni nei confronti della donna del 1979 per il quale «la maternità è una funzione sociale e uomini e donne hanno responsabilità comuni nella cura di allevare i figli e di assicurare il loro sviluppo». La legge cancella la doppia figura genitoriale che esiste in natura, impedisce al minore di pronunciare le parole papa e mamma come accade ai bambini di tutto il mondo, perché queste due persone in casa non ci sono.

I minori sono privati della complementarietà dei sessi, la formazione e educazione si realizzano in assenza di maternità e paternità, e viene imposta una sola figura sessuale raddoppiata. Sta qui un naufragio specifico del nichilismo, che nega diritti fondamentali alla parte più debole sostenendo che siamo di fronte a scelte personalissime nelle quali la legge non deve entrare. Si deve riconoscere che J.S. Mill non ha alcuna responsabilità di questa scelta, e il suo pensiero non può essere invocato a giustificazione di opzioni nichiliste di questo genere che il filosofo neanche poteva immaginare esistessero.

4. Eutanasia e suicidio assistito

Se affrontiamo i temi dell’eutanasia di malati terminali, di persone sofferenti, minori, malati mentali, fino al suicidio assistito, ci rendiamo conto di quanto la legge agisca nel modificare la sensibilità etica, prepari la banalizzazione del male come mai avvenuto prima. Scrivendo d’eutanasia, Umberto Veronesi afferma:

Nessuno sognerebbe come lecita l’uccisione di un neonato, non sarà mai lecito pensare che si possa spegnere la vita di un ritardato mentale grave, o malato di Alzheimer terminale, inconsapevole di sé e del mondo che lo circonda. Per quanto a noi individui sani e in pieno possesso delle nostre facoltà mentali alcune situazioni possano sembrare «vite senza consapevolezza», dobbiamo affermare con forza come impercorribile questa strada. Altrimenti ci troveremmo sulla stessa posizione che portò il nazismo a definire «vita indegna di vita» quella di bambini gravemente ritardati e di soggetti con handicap, che infatti furono eliminati (9).

Umberto Veronesi è favorevole all’eutanasia in caso di malattia terminale. Ma formula dure condanne per l’eutanasia di malati mentali, di bambini gravemente ritardati, paragona ipotesi del genere alla prassi del nazismo di liberarsi di vite non adeguate ai miti del regime. Siamo di fronte a resistenze etiche profonde, a una condanna radicale per leggi che giungano a tanto.

Eppure, questa certezza è effimera. Lo è a livello di dottrina giuridica, lo è a livello legislativo in alcuni paesi, dove le pratiche che rifiutiamo istintivamente sono state introdotte e ampliate. Ogni volta che un autore, o scuola di pensiero, fissa un confine insuperabile, poco dopo altri lo superano, la legge recepisce ciò che si riteneva impensabile.

Peter Singer e Tristan Engelhardt superano ogni limite immaginabile. Per Singer:

il fatto che un essere sia un essere umano […] non è rilevante per l’immoralità dell’ucciderlo; a fare la differenza sono la razionalità, autonomia, autocoscienza. I neonati non posseggono queste caratteristiche. Ucciderli non può essere considerato equivalente a uccidere esseri umani adulti (10).

Per Singer il feto è «vita in potenza», non può avere gli stessi diritti di un essere vitale: «II principe Carlo è un potenziale re d’Inghilterra, ma non ha i diritti di un re». Come sono possibili opinioni così estreme su questioni che coinvolgono il valore della vita, come mai prima o poi prevale sempre la tesi più distruttiva invece di quelle moderate? È una domanda alla quale non si sa cosa rispondere, se non si tiene presente la logica inesorabile che discende dal principio della sovranità dell’io.

Diverse legislazioni prevedono il suicidio assistito (da sanitari); sempre Veronesi spiega come si giunge ad accettare il male, narrando l’episodio accaduto a un suo collega di un paese del Nord:

> Ho accompagnato un mio paziente che voleva essere aiutato a morire. L’inviato dell’organizzazione ha preparato la pozione letale, il paziente ne ha bevuta metà, poi ha avuto un ripensamento. L’incaricato gli ha detto: «Guardi che rischia di avere delle sofferenze indicibili. Beva tutto, io sono qui perché lei finisca di bere!». Il paziente ha obbedito, ed è morto (11).

L’episodio, aggiunge Veronesi, «si commenta da sé».

Emerge, più che per altri temi, la prospettiva della «china fatale», del «pendio scivoloso», di quel processo per il quale, se si cede su un punto iniziale, tutto rovina di conseguenza, il valore della vita è travolto senza più alcun ostacolo. Jean-Yves Goffi, relativista moderato, contesta il rischio della china fatale, ritiene sia frutto di un pessimismo pregiudiziale. Non è vero che accadrà sempre il peggio. L’effetto della «china fatale» si può contestare sul piano astratto, perché il legislatore può fare scelte moderate. Ma non è contestabile la realtà dei fatti, la china fatale non è frutto di una prava voluntas del legislatore ma di una coerente applicazione dei principi relativisti che si affermano in materia di difesa della vita.

Nel momento in cui il valore della vita perde la sua assolutezza, perché il valore più forte è quello della qualità della vita, è logico e coerente che, superate le prime remore ancestrali, si ponga il problema di consentire l’eliminazione di vite sofferenti, passive, di malati mentali, di prevedere il suicidio assistito perché solo il singolo è in grado di valutare la congruità della vita che conduce con parametri soggettivi di benessere e di felicità.

Questa logica ha indotto paesi come il Belgio, l’Olanda, parte della Svizzera e alcuni degli Stati Uniti, a introdurre forme limitate di eutanasia, estendendole poi a minori e malati di mente, introducendo l’assistenza al suicidio anche per persone che non sono tecnicamente malate, ma rifiutano di accettare la vecchiaia, la depressione, altre negatività esistenziali. Dopo l’introduzione dell’eutanasia, interviene l’assuefazione, ci si abitua alla morte procurata, anziché alla vita difesa, il male si presenta con una banale levità, le barriere etico-psicologiche che sono dentro di noi si erodono e crollano d’un tratto senza che ce ne accorgiamo.

5. Le prospettive di contrasto del nichilismo etico-giuridico

In considerazione del carattere espansivo del nichilismo giuridico, e del ruolo che svolge nell’appannare la sensibilità etica a livello individuale e collettivo, è necessario tenere alto l’antagonismo ideale e politico nei suoi confronti, non solo per dare testimonianza continua dei valori umanistici che sorreggono la società dall’avvento del cristianesimo e che sono alla base della sua umanizzazione, ma per favorire un’inversione di tendenza culturale quando se ne creeranno le condizioni, soprattutto in ordine alla conoscenza e alla valutazione delle conseguenze delle leggi cui ho fatto riferimento in precedenza.

Bisogna, però, essere consapevoli che tale inversione di tendenza non sarà possibile in tempi brevi, dal momento che la cultura relativista è penetrata nelle pieghe della società, ed è alimentata in diversi paesi da gruppi organizzati che agiscono nelle istituzioni e nei media. Si rende, quindi, necessario un supplemento di azione e di intervento, che affronti i grandi temi dei valori non negoziabili in positivo, per offrire un’ alternativa visibile rispetto a una società che sceglie sempre la strada più facile, e più sciagurata, l’esaudimento dei desideri (anche effimeri) scambiandoli per diritti, o la strada più breve per dimenticarsi dei soggetti più deboli, per emarginarli, fino al rischio di inserire tra le possibilità ordinarie la loro eliminazione.

Mi soffermo almeno su due grandi questioni che possono essere affrontate con spirito positivo: quella della convivenza eterosessuale e, l’altra, dei problemi del fine vita, cioè dell’eutanasia e del suicidio assistito.

Sul primo aspetto io credo si debba considerare che spesso – si potrebbe dire nella maggioranza dei casi — si è di fronte a situazioni che sono provvisorie, dettate da cause economiche, culturali, a volte psicologiche, e che sono destinate a risolversi o con la fine del rapporto interpersonale o con la decisione di accedere al matrimonio. In questa ottica, al di là del giudizio morale sulle specifiche situazioni, sarebbe molto positivo che la chiesa intensificasse il rapporto con gli interessati, senza inasprire profili strettamente canonistici, favorisse (per chi lo vuole) il battesimo e l’educazione cristiana dei figli, incentivasse la loro partecipazioni alla comunità ecclesiale, lasciando che le relazioni interpersonali si evolvano nel rispetto della libertà individuale.

Si tratta, a guardar bene, di attenuare il profilo giuridico dei rapporti tra gli interessati e la chiesa, e di far emergere il profilo pastorale in modo tale da non porre la questione in termini di estraneità, ma di compartecipazione alle strutture e alle attività comunitarie, tollerando le situazioni irregolari in attesa della loro evoluzione. Se ci si muove con lungimiranza, e in una visione prospettica, la condizione delle convivenze può condurre le persone a rivalutare il significato, la forza, la solidità del rapporto matrimoniale, e può portare a una riscoperta dei valori familiari. Intendo dire che non ci si deve arrendere, né si deve credere che una fase contingente e fluida dei rapporti interpersonali debba perpetuarsi senza possibilità di soluzione.

L’altro grande tema riguarda l’esperienza del dolore e gli eventi legati alle fasi terminali della vita, dal momento che nella società attuale si presentano situazioni inedite rispetto al passato. Qui c’è probabilmente un punto di maturazione culturale cui siamo chiamati un po’ tutti, e che attiene al rapporto tra sofferenza e cultura religiosa. Per una convinzione abbastanza diffusa, una certa concezione religiosa della vita indulge nel vedere nella sofferenza quasi il prezzo che paghiamo per le nostre colpe, tende a considerare il dolore come una condizione inevitabile dell’essere umano, alla quale non ci si può opporre, ma ci si deve adeguare con una piena accettazione. Questa non è la posizione della chiesa cattolica, e di altre chiese cristiane, ma non si può negare che in passato è filtrato, almeno in parte nel senso comune, un messaggio di questo tipo.

Occorre allora rimodulare il messaggio e rovesciare la logica che sembra propria di alcune strutture, nelle quali la sofferenza individuale costituisce quasi una variabile indipendente del trattamento sanitario. Si dovrebbe fare in modo che chi si trova in condizioni di sofferenza prolungata, di sofferenza psichica che favorisce l’abbattimento delle barriere psicologiche che sostengono la vita, trovi forme vere e adeguate di assistenza, per attenuare o sconfiggere il dolore e risolvere le difficoltà che nel mondo moderno si frappongono alla accettazione della vita.

In questo quadro, è decisivo il profilo di libertà individuale per il quale la persona non è tenuta ad accettare l’accanimento terapeutico che spesso viene praticato, e che protrae lo stato di sofferenza oltre ogni limite, anche temporale. Dovrebbe considerarsi, quindi, la volontà anticipata che rifiuta l’accanimento terapeutico come vincolante per altri soggetti.

Questo tema merita una considerazione specifica. L’impostazione nichilista strumentalizza un valore reale quando sostiene: «È immorale imporre la sofferenza. Crediamo nel valore e nella dignità dell’individuo». L’emancipazione dalla sofferenza, la dignità della persona, sono parte integrante di un’etica solidarista, a sua volta frutto di concezioni religiose che credono in un Dio misericordioso, perché Dio non vuole la sofferenza delle creature.

Oggi la libertà dalla sofferenza è a rischio per l’affinamento delle scienze, il prolungamento dell’esistenza, il protrarsi ultra vires della vita biologica a fronte di una realtà psichica ridotta, o sospesa senza prospettive. Ciò determina un fenomeno speciale: la paura del dolore spinge all’eutanasia, alla relativizzazione del valore della vita, apre le porte alla perdita della sensibilità etica. La risposta alle spinte nichiliste deve riempirsi di significato e di scelte legislative solidariste per evitare la deriva più facile, l’accettazione della pura materialità.

Ogni tipo di legislazione riconosce che chiunque ha diritto di rifiutare interventi sanitari che non condivide per timore di sofferenze additive, di rischi connessi agli interventi, in modo che la malattia segua il suo corso naturale, per motivazioni religiose o ideali di diversa natura. Si pone il problema di come rispettare la scelta della persona in situazioni oggettivamente complicate.

L’impegno di solidarietà resta, in ogni caso, lo strumento insostituibile, capace di contrastare le mentalità eutanasiche; ciò richiede assistenza, investimento di risorse personali e finanziarie di cui non tutti possono disporre, con una presenza istituzionale di sostegno, con la ricostruzione di un legame sociale e la manifestazione concreta del principio di solidarietà.

Il rifiuto di una legislazione che deresponsabilizza e sceglie la via più facile che declassa il valore della vita, deve riempirsi di scelte che sostengano la vita nei momenti più difficili.

 
1) Cf. M. HORKHEIMER – T.W. ADORNO, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1974, Excursus II: Juliette o illuminismo morale, 90-129.
2) Ibid.,92.
3) H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1967,594.
4) H.T. ENGELHARDT, Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1999, 22.
5) J.S. MILL, Saggio sulla libertà, II Saggiatore, Milano 1993, 22.
6) H. JONAS, Tecnica, medici ed etica. Prassi del Principio responsabilità, Einaudi, Torino 1997, 163.
7) G. FERRANDO, Libertà, responsabilità e procreazione, Cedam, Padova 1999, 333.
8) E. LECALDANO, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari 2004, 241.
9) U. VERONESI, Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza, Mondadori, Milano 2005, 17.
10) P. SINGER, Scritti su una vita etica, Il Saggiatore, Milano 20014, 2015 (cf. 218)
11) VERONESI, Il diritto di morire, 83 .