Radici Cristiane n.90 dicembre 2013
Tale domanda ripropone seri dubbi in merito alla cosiddetta “teologia della liberazione”, dubbi mai superati. Nemmeno a distanza di anni, anzi. Con buona pace di quanti in questo periodo stiano tentando viceversa di rilanciarla. Tanto d’azzardarsi a definire, come ha fatto recentemente un noto mensile, uno dei suoi “padri” Gutiérrez, quale «gigante della teologia». Quello stesso che invocò rivoluzione e non riforma; liberazione e non sviluppo; socialismo e non modernizzazione.
di Julio Loredo
La cosiddetta “teologia della liberazione” è negli ultimi mesi tornata alla ribalta. Un recente articolo di Gianni Valente ha dato notizia della fine dell’ostilità del Vaticano nei confronti di questa corrente, citando mons. Gerhard Müller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: «La teologia della liberazione ha trovato un’eco mondiale ed è da annoverare, a mio giudizio, tra le correnti più significative della teologia cattolica del XX secolo». In realtà, si tratta di un documento di nove anni fa, riportato alla luce per cercare di dare una “patente di autorevolezza” alla teologia della liberazione, nell’espressione di Padre Horacio Bojorge, sj.
In un momento in cui tanto si parla di poveri e di povertà, addirittura di pauperismo, non mancano coloro che vorrebbero riesumarla, presentandola come una valida risposta cristiana alle situazioni di miseria e di oppressione in America Latina. Ci sarebbe molto da ridire in merito, dati alla mano: per chi conosca da vicino la realtà latinoamericana, è difficile riconoscerla nella caricatura che ne fa certa propaganda in Europa. Soprattutto, però, ci sarebbe molto da ridire sulla pretesa della teologia della liberazione di essere una “teologia dei poveri e per i poveri”. Pretesa, che cozza con la realtà.
PER I POVERI? NO, SOLO PER QUELLI “IN LOTTA”
I teologi della liberazione affermano di voler difendere i poveri. Anzi, tutta la loro teologia avrebbe i poveri quale origine, come soggetto e come destinatario. «
La storia di Dio passa necessariamente per i poveri – scrive il teologo gesuita spagnolo Jon Sobrino –
Lo spinto di Gesù si incarna storicamente nei poveri (…). I poveri sono il vero locus theologicus
per la comprensione della verità e della praxis
cristiana».
Locus theologicus, espressione coniata nel secolo XVI dal teologo domenicano spagnolo Melchor Cano, vuoi dire fonte o sorgente della teologia. Sdegnando la Rivelazione e la Tradizione quali fonti della teologia, i teologi della liberazione si concentrano quasi esclusivamente sui “poveri”, perfino conferendo loro ciò che il gesuita uruguaiano Juan Luis Segundo definiva pomposamente «
il privilegio ermeneutico dei poveri in lotta».E già questa espressione ci dovrebbe mettere la pulce nell’orecchio. Non si tratta semplicemente dei poveri, ma dei “poveri in lotta”. «
La teologia della liberazione – secondo Gustavo Gutìérrez, padre della corrente –
è un tentativo di comprendere la fede dall’interno della praxis
concreta, storica, liberatrice e sovversiva dei poveri di questo mondo, delle classi oppresse, dei gruppi etnici disprezzati, delle culture emarginate».In altre parole, i “poveri” — ossia qualunque categoria sia ritenuta “oppressa”, “disprezzata” o “emarginata” – sono il
locus theologicus della teologia della liberazione solo quando coinvolti in una “praxis storica sovversiva”, cioè quando agiscano come agenti delle trasformazioni rivoluzionarie, sia per le vie pacifiche sia per quelle della violenza.
Un’analisi più attenta rivela come, per i teologi della liberazione, il vero locus theologicus non siano tanto i poveri quanto gli agenti rivoluzionari. «La praxis della liberazione è il luogo privilegiato della nostra riflessione», ammetteva il teologo italiano Giulio Girardi. Cosa succede, invece, quando il “povero” si comporta in maniera conservatrice, cioè quando non vuole fare il rivoluzionario? Ebbene, perde il suo “privilegio ermeneutico”…
«Una delle esperienze più sconvolgenti – si lamentava Girardi — è quando la liberazione è reputata impossibile dallo stesso popolo, dalle stesse classi lavoratici che, secondo la nostra prospettiva, dovrebbero invece essere l’asse delle trasformazioni». Ma questo non scoraggia minimamente i teologi della liberazione. Con i poveri, senza i poveri o anche contro i poveri, loro continuano imperterriti: «Perseguire l’utopia popolare – continuava Girardi – significa, e questo è forse l’aspetto più drammatico, darsi alla, causa popolare senza contare sull’appoggio e nemmeno sul riconoscimento del popolo. (…) È come sentirsi straniero nel proprio ambiente».
Quando i “poveri” non sono “in lotta”, bisogna addirittura diffidare di loro. «Concordo con Juan Luis Segundo che il teologo della liberazione debba essere molto critico riguardo alle aspirazioni dei poveri – ammetteva E Alfred Hennelly — Nei miei anni nel Terzo Mondo ho avuto ampia, direi quotidiana, esperienza di quanto i poveri interiorizzino le credenze dei loro oppressori e della profondità e tenacia con la quale difendono queste credenze».
Ecco quindi il vero volto dei teologi della liberazione: stranieri nel proprio ambiente. Vale a dire, non paladini dei poveri e interpreti delle loro aspirazioni, bensì incuranti del loro sostegno, perfino sdegnosi nei loro confronti e impegnati invece in una lotta ideologica per l’instaurazione dell’utopia socialista.