Radici Cristiane n.92 marzo 2014
Pecunia non olet. La locuzione latina, attribuita dalla tradizione a Vespasiano, trova conferma anche nel campo del commercio “equo e solidale”, propostosi a livello internazionale in netta alternativa ai circuiti della grande distribuzione a tutela dei piccoli produttori del Sud del mondo, eppure ora pronto anche al compromesso in nome del reddito. Anche a costo di perdere fette significative del proprio mercato di riferimento.
Secondo il quotidiano francese La Croìx, sarebbe tutta in salita ed estremamente rischiosa la strada intrapresa da Fairtrade/Max Havelaar, marchio mondiale del commercio equo: ha annunciato un importante cambio di strategia, al solo scopo di trovare nuovi sbocchi commerciali, «vendere una maggiore quantità di prodotti» ed «aumentare così l’impatto sulle famiglie beneficiarie».
Per farlo, ha cambiato però le regole del gioco: gli ingredienti utilizzati potranno anche non provenire più interamente dalle materie prime prodotte dalla filiera equosolidale. Ad esempio, zucchero e cacao dovranno essere certificati, ma tutto il resto no. Sarà sufficiente a quel punto apporre un’etichetta solo in minima parte diversa, per rendere tali prodotti riconoscibili – ovvero il marchio Fairtrade con la scritta “Programma cacao” oppure “Programma zucchero” – ed il gioco è fatto!
Ciò avrebbe già permesso di portare a casa nuovi contratti con Germania, Svizzera e Giappone. Contratti importanti, come quello con la Mars la multinazionale ha annunciato che il 100% del cacao utilizzato per fabbricare le barrette Twix vendute in Germania proverrà dalla filiera equosolidale, incrementando così nel 2014 le vendite di cacao Fairtrade del 14% e consentendo di incassare 1 milione e 200 mila dollari in più.
Ma la cosa non garba a tutti: Stefano Comar, co-fondatore del marchio Ethiquable, ha espresso il proprio rammarico, prendendosela col capitalismo “cattivo” ed accusandolo di essersi appropriato «delle iniziative altrui». Anche Rèmi Roux, altro leader di Ethiquable, ha spiegato come, anziché «abbassare la guardia e banalizzare il commercio solidale», si debba a suo avviso «cercare di renderlo popolare, di aumentare la gamma dell’offerta, così che i consumatori cerchino questo tipo dì prodotti», per non passare dal commercio solidale al commercio del solidale.
Altre sigle, come Alter èco, hanno già preannunciato di voler lasciare Max Havellar per altre sigle più rigorose e ortodosse, come SPP o Ecocert La realtà è che, nonostante gli sforzi compiuti in circa 25 anni, il commercio equo e solidale ha mostrato tutta la fragilità propria del terzomondismo spinto. Anche le voci di maggior consumo – come caffè, zucchero e cacao -, benché sia trascorso ormai un quarto di secolo, rappresentano solo il 2% del mercato complessivo.
Gli agricoltori della filiera producono molto più di quanto possano vendere ai consumatori del Nord del mondo. Meno di un terzo della produzione complessiva di caffè e zucchero riesce ad essere venduto, in realtà, tramite i canali equosolidali, il resto – ovvero la maggior parte, i due terzi – finisce tutto sul mercato tradizionale alle solite condizioni, quindi senza prezzo minimo garantito al produttore e senza premi di sviluppo per la sua cooperativa. È il gatto, che si morde la coda.
Galleggia solo chi sia disposto a collegarsi alle “odiatissime” multinazionali, a scendere a patti, snaturando però così le ragioni stesse dell’equosolidale. Che, alla fine, si rivela sempre meno “alternativo” e sempre più “logo” ovvero organico alle leggi tradizionali del mercato