articolo pubblicato su Il Tempo del 27 dicembre 1977
di Augusto del Noce
La sorte postuma toccata all’opera di Croce è un’indifferenza assai peggiore dell’ostilità; e il venticinquesimo anniversario della sua scomparsa, testé trascorso, ne da significativa testimonianza, con il gelo dei necrologi obbligati. Le nuove generazioni sembrano concordi in un giudizio, accolto tacitamente, e tanto più efficace proprio per questo, anche dai loro migliori rappresentanti, che lo raffigura come «il filosofo che non ha più nulla da dire». Non trova grazia né a destra né al centro né a sinistra.
Un accordo tra i cattolici intransigenti e tra i progressivi sembra cosa che oltrepassi ogni possibile immaginazione ; pure, in questo giudizio severo nei riguardi di Croce, si dà. Né le cose variano quando si passa ai marxisti di ogni gradazione, da quelli del compromesso o dell’alternativa sino ai rivoluzionari impazienti. Trova almeno grazia presso i laici? Neppure. Si sa quale abisso l’abbia sempre separato dalla mentalità radicale e dalla mentalità azionista, e oggi questa scissione culturale, prima coperta, si è fatta manifesta.
Presso gli stessi giovani liberali, si può parlare poco più di una levata di cappello, perché in generale essi si sentono attratti dal liberalismo di tipo anglosassone, che a Croce fu estraneo, o dal pensiero di Gobetti, che fu lontanissimo dallo spirito crociano. Sembra si sia realizzato, in questa concordia in un silenzio di gelo, una sorta di arco costituzionale della cultura.
Ma come questa indifferenza viene giustificata? Si parla di un’appartenenza ad altra epoca, all’”età della sicurezza” (quanta carica di disprezzo in questa facile espressione!) 1871-1814; di un pensiero che era già concluso (il che non è affatto vero) in quel 1914; in cui il non ancora cinquantenne Croce stendeva la sua biografia intellettuale nella forma di Contributo alla critica di me stesso. Non soltanto però la sua opera sarebbe datata, ma non trascenderebbe per nulla il periodo storico cui appartiene, dato che non avrebbe saputo intenderne l’inquietudine che lo travagliava.
Ciò, secondo il giudizio oggi prevalente, sarebbe connesso al fatto che la fisionomia che individua Croce è quella del pensatore che ha sostituito il mondo con una biblioteca e con ciò il mondo delle ombre al mondo degli uomini, perché in una biblioteca prendono posto le opere scisse dai loro autori; di conseguenza, la sua pretesa freddezza e cecità nei riguardi degli aspetti tragici della condizione umana, del dolore, della malattia, della morte, di quello che va o può andare perduto; la stessa sua operosità infaticabile viene vista come legata a questa insensibilità.
La sua posizione etico-politica rifletterebbe esattamente il conservatorismo dell’uomo di biblioteca, così che le sue condanne dei tempi successivi alla prima come alla seconda guerra mondiale suonerebbero sterili anche quando sono giuste, perché condizionate da una previa avversione ad ogni nuovo fermento.
Non si tratta di negare gli aspetti di verità che pur ci sono in questa critica complessiva. Rifacimento immanentistico della Scienza Nuova vichiana, l’opera di Croce può essere forse definita come il maggiore tentativo di una teodicea in stile secolare e moderno. Come le teodicee ha due aspetti: è traversata da un profondo pessimismo, quale avvertimento dei pericoli da cui l’umanità è minacciata, e insieme animata da una volontà morale di vincerlo, perché abbandonarsi al pessimismo significa cadere nell’immoralismo e nel decadentismo; nessun compiacimento nella descrizione della caduta degli ideali o nel vanificarsi dei valori dell’indifferenza e della noia, e nessuna simpatia e nessuna indulgenza per gli scrittori che vi si attardano.
Poniamoci ora dal punto di vista di chi è persuaso che la ricerca di una teodicea immanentisica sia destinata a fallire; se questo giudizio lo porterà a prescindere dall’aspetto sistematico dell’opera crociata, non lo dispenserà però dal concentrare l’attenzione sul pessimismo che la sottende; e allora si accorgerà che nei riguardi dei pericoli che ci minacciano, Croce non è stato affatto un filosofo di biblioteca; che gli avvertimenti che ci vengono dalla sua opera nel loro riguardo manifestano una sensibilità eccezionale, con rarissimi riscontri nel nostro secolo, e sono tutt’altro che esauriti.
Cercando l’esempio migliore, limitiamoci qui a una rapida illustrazione di due saggi che egli, ormai ottantenne, pubblicò nel 1946, La fine della civiltà e l’Anticristo che è in noi , che neppure allora ebbero larga eco.
Nel primo non si volle infatti vedere in quel tempo che un appello ai conservatori pro aris et focis contro la mentalità azionista e comunista; e questo c’è, ma c’è anche dell’altro, e d’importanza che non fu intesa e che è eccezionale. Croce infatti, intendeva definire il tratto che individua la barbarie del nostro secolo rispetto alle tante manifestazioni che aveva avuto nel passato. Anche nei periodi più duri era persistito, ed era stato tenuto vivo dalla maggior parte degli uomini di cultura, il sentimento della comunità.
Così, persino nel maggiore dei tramonti, quello del mondo antico, permaneva l’idea di Roma, e il cristianesimo provvedeva a conservare, in forma nuova, l’eredità della civiltà greco-romana. Attraverso i diversi rivolgimenti, era sempre riuscita ad affermarsi l’idea che il progresso consista in un’innovazione che sia insieme conservazione. Oggi, invece, quel che accomuna i movimenti innovatori non è il sentimento dell’elevamento della tradizione nella successione delle civiltà, ma quello della rottura radicale.
Ma che cosa resta, dopo questa cesura totale col passato? E’ detto nel saggio successivo, il più drammatico tra i tanti che Croce ha scritto: «Ma che la manaccia dell’Anticristo contro il Cristo si sia levata, sembra indubbio». Quale significato dare a questa espressione, sconcertante se si pensa che fu scritta, e proprio dal maestro dell’antifascismo, dopo che il nazismo era stato vinto, così da suonare allora completamente estranea all’atmosfera di speranza che dominava?
Croce parla del “vero Anticristo” che «sta nel disconoscimento, nella negazione, nell’oltraggio, nell’irrisione dei valori stessi, dichiarati parole vuote, fandonie, o, peggio ancora, inganni ipocriti per nascondere e far passare più agevolmente agli occhi abbagliati dei creduli e degli stolti l’unica realtà che è la brama e la cupidigia personale, indirizzata tutta al piacere e al comodo».
Ossia, la rottura totale con la tradizione, il mito del mondo completamente nuovo non possono portare che al «vero Anticristo», permettendo al altresì di riconoscerne la natura; perché la prima operazione in cui si esprimono non può essere altro che la negazione dei valori, retrocessi da fini e da principi obbliganti, a strumenti di volontà, di dominio; né da questo negativismo è dato uscire perché lo strumentalismo è una forma mentale in cui ogni asserzione viene intesa.
Ciò a cui conduce la lettura radicale, o la totale rivoluzione che dir si voglia, è un rovesciamento per cui la vitalità – la nuova forma che l’ultimo Croce aveva introdotto in filosofia – che di per se è il principio egoistico, diventerà da materia per la relazione dei valori, valore primo, così che il negativo vorrà comportarsi come positivo «ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, discreazione».
Che i due saggi fossero giudicati allora lamenti di un vecchio che non si riconosceva nel nuovo mondo confondeva la fine di un periodo storico con un processo di imbarbarimento, ed altro non sapeva proporre sul piano della politica se non il ritorno ad un modello omai esaurito e inadeguato, non è strano. Ma che cosa pensarne oggi, a più di trent’anni di distanza?
Ripeteremo l’infelice giudizio di allora, o vi vedremo la percezione esatta di quel che stava maturando? Perché è ormai giudizio diffuso, e per nulla reazionario, che siamo nel corso di un processo di imbarbarimento, per la definizione del quale vengono riscoperti i termini che già Croce aveva usato, senza che nessuno si ricordi della sua proposta di un processo di dissoluzione, per dir meglio appunto di discrezione, che si presenta sotto le mentite spoglie di una rivoluzione così radicale da implicare una cesura totale con il passato.
Sotto i termini di dissacrazione o di demitizzazione, l’Antico di cui parlava Croce ha infatti imperversato nell’ultimo quindicennio; con risultati così visibili che sono oggi pochi, anche tra i militanti della stessa sinistra, a sentire il periodo presente come progressivo. L’insegnamento dell’ultimo Croce è stato dunque, piuttosto che un sistema, l’esortazione a un compito; ha definito un avversario a vincere il quale, e a passare con ciò a una età migliore perché res più esperta e avveduta dalla prova, non bastano le forze pratiche e politiche, ma occorrono le spirituali.
E si ha l’impressione che solo secondariamente gli importasse se, a conseguire questa vittoria, la continuazione della sua opera dovesse accompagnarsi con una critica e una negazione di alcuni principi esenziali della sua filosofia; se quell’opera di «restaurazione del divino» che sentì sua missione dovesse avvenire in altra forma da quella da lui proposta. La generazione di coloro che erano giovani trent’anni fa ha corrisposto al suo invito in maniera del tutto inadeguata.
Il compito è passato alla nuova generazione; che, anzitutto, non deve ritenersi “nuova”, perché ripete nei riguardi dell’ “arcaicità” del pensiero crociano quel che già si diceva or son trent’anni; che avrà invece il diritto di dirsi tale quando avrà riconosciuto l’attualità del compito che l’ultimo Croce ha proposto, distinguendolo dalla caducità a cui è andata soggetta molta parte del suo pensiero.