di Augusto Del Noce
Riconciliazione era il tema del convegno di Loreto. A parte il riferimento al termine biblico, o al significato che esso ha assunto nella storia della teologia e della filosofia, il suo senso storico era ben chiaro: riconciliazione, anzitutto, tra cattolici. Ora, la riconciliazione importa la rimozione di un ostacolo. Quale, in questa occasione? Su questo punto i cattolici sono divisi. Per molti tra loro l’ostacolo era ed è l’integralismo. Per altri la penetrazione negli stessi cattolici del secolarismo, attraverso la discutibile accettazione dello stato di fatto, pensato come irreversibile, di una società secolarizzata.
Che il Convegno fosse ordinato, almeno nella mente della maggior parte di coloro che avevano contribuito a organizzarlo, con lo scopo di infliggere un colpo definitivo all’integralismo, è svelare un segreto di Pulcinella. Altrettanto chiaro è che questa parte aveva l’appoggio di un fronte laico dei non credenti che è una realtà culturale (l’organizzazione degli intellettuali di cui parlava Gramsci, anche se non formata da soli comunisti) con forti riflessi politici: fronte che starei per chiamare del “millenarismo laico”, nel senso che è unificato nella persuasione che l’anno duemila segnerebbe la fine della fede religiosa in una realtà trascendente.
A questi aspetti chiari ne segue un altro che ha del paradossale. In apparenza tutto porterebbe a credere che gli integralisti fossero i vecchi e che dalla parte di chi li combatteva stessero i giovani. Invece no. Gli antintegralisti non trovano i loro avversari nei vecchi, ma nel movimento cattolico di più fresca data, e nell’unico che riesca oggi a raccogliere adesioni di giovani, pur essendo, se non avversato, certamente non amato da molta parte dei vescovi: in Comunione e Liberazione, a cui peraltro è difficile attribuire i caratteri , anche se dissimulati, dell’integralismo. Così che la riconciliazione auspicata dagli innovatori antintegralisti era si con gruppuscoli del dissenso e con i non più giovani Calducci, Gennai, Girardi, Faretti, Zozzini, ecc. e magari con le Ariane Zarri, ma escludeva di fatto i giovani.
Paradosso
Ma cerchiamo di vedere il senso che generalmente si ammette a questo termine di “integralismo” e alle ragioni della sua diffusione nell’ultimo trentennio (cominciò, infatti, già prima del Concilio) con la connotazione nettamente negativa; e della sua riuscita, in questa versione, al punto che penso sia difficile trovare oggi qualche cattolico che si dichiari integralista, a meno che non lo faccia per amore del paradosso.
Rispetto all’immagine che gli innovatori se ne fanno, mi sembra conveniente osservare come essa corrisponda, sostanzialmente, ai caratteri che il Bergson nel suo libro del 1932 su Le due sorgenti della morale e della religione attribuiva alla religione “statica” o “chiusa”. Si tratta della più debole tra le opere del grande filosofo, e su di essa è sostanzialmente valido il durissimo giudizio che ne diede nell’ultimo suo scritto Simone Weil.
E’ un libro che oggi è assai poco letto, ma a cui non di meno lo storico delle idee dovrebbe portare molta attenzione, per l’impulso che diede alla rinascita di un fenomeno che a quel tempo sembrava estinto, e che in realtà era dormiente, il modernismo cattolico. Il termine di integralismo non vi figura (almeno per quel che ricordo), ma la descrizione in senso negativo di quella che poi fu detta la forma integralista di religione vi è già tutta.
Bergson oppone infatti una società “statica” e “chiusa” con morale e religione conformi, e una società, morale e religione “dinamiche”. Alla società chiusa corrisponderebbe una religione legalistica, organo di conservazione sociale, mortificante, fondata sull’idea di un Dio che interdice e che punisce; e perché legalistica e conservatrice dogmatica e autoritaria.
La religione dinamica e mistica è volta invece alla trasformazione del mondo, è, secondo l’espressione del Bergson, una «macchina a far gli dei», a trasformare insomma gli uomini in dei. Il cristianesimo avrebbe rappresentato la svolta decisiva verso la religione dinamica: anche se Bergson espressamente non lo dica, la permanenza dei caratteri della religione chiusa sarebbero riusciti ad oscurare i tratti della rivoluzione cristiana, salva l’eccezione dei mistici in cui sarebbero riaffiorati.
Il riferimento a Bergson è scarso negli antintegralisti: tuttavia a me pare che i caratteri che si attribuiscono ai loro avversari siano questi, e non possano essere diversi. passando alla diffusione, dobbiamo riferirci a un’interpretazione, acriticamente accettata, del nostro tempo. Ci furono anni in cui si ravvisò nel fascismo (e, per l’Italia, nel fascismo italiano) la sintesi di tutti i mali che si erano prodotti nell’intero corso della storia.
Ed era certo un sentimento spiegabile nel momento in cui pareva trionfare e in quello della lotta successiva, e ben ricordo di avervi partecipato nella mia giovinezza, proprio al momento di maggior suo successo; non più però sostenibile alla distanza di decenni, quando alla passione deve succedere la riflessione; e contrapporre oggi antifascismo e fascismo come bene e male è soltanto una stupidità pericolosa, anche se permane in molti la forma di identificazione tra antifascismo e democrazia.
Si sa ora quanto la cultura cattolica, dopo l’abbandono di quel rifiuto massiccio della modernità che si era avuto in tempi non così lontani, che i vecchi ancora non lo ricordino, sia stata influenzata dalla cultura laicista e quindi dalla tesi, in essa prevalente, secondo cui nell’epoca del fascismo vi sarebbe stata un’alleanza necessaria tra la Chiesa cattolica e il fascismo, dovuta alla comune concezione gerarchica; magistero della Chiesa o obbedienza passiva dei fedeli da un lato, autoritarismo del Duce e disciplina rigorosa e assoluta dei gregari dall’altra. da questa pretesa necessità dell’incontro derivava l’idea che le scelte politiche compiute in quel periodo dalla Chiesa non dovevano essere spiegate come contingenti errori o come illusioni, ma conseguissero in modo rigoroso da una concezione della vita religiosa e della funzione della Chiesa nella società che risalivano ben oltre al periodo fascista e i problemi che esso poneva al modo cattolico.
Si aggiungeva l’idea, erratissima, e oggi abbandonata dalla più gran parte degli storici di ogni valore, del fascismo come “fascio delle forze reazionarie”, a cui la Chiesa avrebbe dato il suo consenso per l’obbligazione di essere – sempre in ragione della concezione che si è detto – “a destra”. Ma da quando questa concezione sarebbe prevalsa? Dal Concilio di Trento e dalla Controriforma per non risalire, quanto ai germi, più oltre, sino all’epoca costantiniana.
E al ritratto dell’integralista si aggiunsero altri caratteri, senza una eccessiva cura di evitare le contraddizioni. E così, per un verso si parlò dell’integralista come di chi abbassava la Chiesa, vista come organo di conservazione, a partito, e per l’altro si parlò dell’ideale integralistico della spiritualità disincantata, la novità del cristianesimo venendo indicata nella «riscoperta del corpo» contro il platonismo. E così via, per una serie di luoghi correnti e ripetuti.
E ora vediamo la diversità che intercorre tra antintegralismo e Comunione e Liberazione. Questo movimento sorge e si consolida in anni in cui i giovani non riescono neppure ad evocare il ricordo del fascismo; per la ragione semplice che il fascismo poneva il suo criterio di validità nell’avanzare («chi si ferma è perduto» diceva Mussolini), così che la sconfitta era per esso decisiva (perciò non è del tutto errata l’opinione di chi vi vede una “parentesi”).
Questi giovani assistevano invece a un processo di cristianizzazione che si richiamava a forme culturali che certo non sono fasciste né hanno col fascismo parentela alcuna. Né potevano certo accontentarsi della fragile tesi secondo cui si dovrebbe distinguere tra secolarizzazione, fenomeno in sé positivo, preparato dal cristianesimo e anzi forma del suo passaggio all’età adulta, e secolarismo secolarizzazione riprendeva per loro, e i fatti ne forniscono la prova, il suo senso originario, condivisi, del resto, pressoché da tutti: passaggio a una scelta per una realtà terrena, per risolvere i problemi della quale non c’è alcun bisogno di Dio; e in ragione di ciò quell’indifferenza religiosa, che per il cattolicesimo è ancor più pericolosa , nonché di un acceso anticlericalismo, anche di un dichiarato ateismo.
Nel convegno di Loreto gli antintegralisti formavano la maggioranza assoluta per numero di presenze e per mobilitazione di intellettuali, coloro che lontanamente potevano venir sospettati di simpatia per la vecchia morale cattolica non figuravano fra gli invitati o, se proprio non era possibile escluderli, tenuti lontano dall’esercizio di funzioni di rilievo.
Sopravvenne il discorso del Papa. Lasciamo da parte l’interpretazione in termini politici – quasi il Papa abbia inteso dare inizio a una campagna elettorale in favore della D.C. (anche questo fu scritto) – perché è talmente assurda che anche coloro stessi che l’avevano iniziata oggi se ne ritraggono. Ma neppure è vero che vi trovi un accenno integralistico, almeno nel senso di una corrispondenza a quell’immagine corrente dell’integralismo di cui prima ho discorso.
Lacerazione
Direi che il suo significato è questo: oggi il problema massimo per il bene, non della Chiesa soltanto, ma dell’umanità intera, è ritrovare l’unità cattolica, unità che naturalmente non può non riflettersi anche sul piano politico (che non coincide necessariamente con quello dei partiti); ma questo ristabilimento dell’unità non è possibile se non si abbandona, come falsa anzitutto idealmente, quella contrapposizione tra integralisti e progressivi, tra tradizionalisti e innovatori, che ha lacerato senza la possibilità di composizione la coscienza cristiana negli ultimi decenni.
Dico questo con parole mie, e posso sbagliare: ma mi sembra esprimano il pensiero del papa. Si rifletta a questo passo del suo discorso: «Non deve essere sottaciuto il rischio di una “espropriazione” effettiva di ciò che è sostanzialmente cristiano sotto l’apparenza di una “appropriazione” che in realtà resta soltanto verbale, con conseguenza della “assimilazione” al mondo, invece della sua cristianizzazione». Mi sembra di trovarci la conferma di quel che ho detto, sull’appropriazione, da parte degli innovatori antintegralisti, di un’interpretazione del nostro tempo che ha premesse laiche e marxiste, e che sempre più si rivela inadeguata, anche a osservatori che partono da posizioni laiche o marxiste.
Giusta l’esigenza del dialogo, purchè essa non si riduca alla ricerca di un compromesso o di una conciliazione soltanto umana, invece deve muovere dall’idea stessa di verità, che, per essere pensata come tale, deve anche render conto dell’errore, ed esige il confronto. Giusto il rispetto delle «verità impazzite», o meglio di coloro che ne sono gli assertori, purchè si riconosca che «la comprensione e il rispetto per l’errante esigono anche la chiarezza di valutazione circa l’errore di cui è vittima».
Ciò in cui consiste il “tradizionalismo” del Papa (non provo alcun disagio nell’usare questo termine) è l’affermazione dell’oggettività della verità e del bene morale in un tempo in cui sembra dominare, accettata in genere inconsapevolmente, e sembra essere penetrata per questa guisa negli stessi cattolici, l’idea della pura umanità delle varie posizioni di pensiero , relative perciò alle varie epoche storiche.
E’ diffusa l’impressione che il convegno di Loreto abbia resa manifesta la divisione che c’è tra i cattolici: tra gli “unitari” e i “pluralisti”, gli “interventisti” e i “neutralisti”, con un approfondimento di divisioni che hanno origini lontane e mai sanate. Io penso invece che, se si ravvisa il suo momento centrale nel discorso del Papa, vi si debba vedere una svolta e l’inizio di un processo che può portare al loro superamento.