Troppo chiacchiere e distintivi nel dibattito sull’immigrazione. La politica migratoria la deciderà chi vincerà le prossime elezioni. Ma attenzione avvertono gli esperti: siamo solo agli inizi. Parlano il demografo Blangiardo e il sociologo Scidà. Che confermano: “manca una politica seria per un fenomeno che nel 2010 sarà esplosivo, specie nel Nord”. E sulle quote ha ragione Formigoni: “devono deciderle le regioni”
di Esposito Francesco
Un dato già rilevato dalla ricerca del Censis dell’anno passato “Cittadini insicuri nell’Italia multietnica”: più del 30% del totale delle presenze riguarda le sole aree di Roma e Milano e in 10 province si concentra più della metà degli immigrati (Milano, Roma, Torino, Napoli, Bologna, Firenze, Genova, Brescia, Vicenza e Verona).
“L’Italia in effetti non si può realisticamente considerare come un paese vittima di un’invasione”, commenta Gian Carlo Blangiardo, professore ordinario di Demografia all’Università degli Studi di Milano, membro di alcune tra le più autorevoli associazioni scientifiche internazionali che si occupano di studio della popolazione, nonché del Comitato scientifico dell’ISMU, Fondazione per lo studio della multietnicità.
“Se prendiamo come riferimento la densità della presenza straniera, secondo le fonti Istat siamo a circa 1 milione e 200mila residenti, un numero che comprende gli iscritti all’anagrafe negli 8mila comuni italiani e include anche coloro che non si trovano più sul territorio, visto che la cancellazione all’anagrafe è una pratica poco diffusa.
Raffrontando questa quota con la popolazione italiana di 57 milioni di abitanti, si ottiene un risultato piuttosto basso (siamo nell’ordine di una densità del 2%, laddove l’incidenza sulla popolazione in paesi come Francia, Austria e Germania varia fra il 6 e il 9%). Aggiungerei poi che la percentuale di clandestini non è così alta come si vorrebbe far credere, per cui si può ritenere, realisticamente, che gli immigrati sul territorio italiano non superino il numero di 1 milione e 500mila presenze, clandestini inclusi.
Certo, bisogna anche rilevare che la situazione italiana è molto diversa rispetto a quella degli altri paesi europei, che hanno storicamente maggiore esperienza di gestione di una presenza straniera facilmente assimilabile, perché proveniente dalle ex colonie”. Una differenza rimarcata anche nel dossier diffuso dal Censis in occasione del convegno sull’immigrazione di Roma: “Al contrario di quanto verificatosi in paesi come il Regno Unito e la Francia, dove l’immigrazione risulta strettamente connessa al trascorso storico-coloniale che ha costruito tra i nuovi arrivati e autoctoni una continuità (linguistica, storica, economica, culturale), i flussi in Italia sono il prodotto di una più variegata gamma di cause e motivazioni, il cui effetto finale è l’eterogeneità per quanto concerne le comunità etniche e nazionali rappresentate e i diversi gradi di affinità e estraneità tra queste ultime e il nostro paese”.
Sarà per questo che, sempre secondo le rilevazioni del Censis, il 48,3% degli italiani ritiene che la convivenza multietnica sia fonte di conflitto sociale.
“Il vero problema è che in Italia manca un contesto che consenta all’immigrazione di essere valorizzata come risorsa”, sottolinea Blangiardo. “Per gestire efficacemente questo fenomeno servono infatti regole chiare e noi stiamo purtroppo scontando un periodo di leggi piuttosto vaghe. Fortunatamente è entrata in vigore la legge n.40 del 6 marzo 1998, che – bella o brutta che sia – almeno stabilisce un quadro normativo. Ma rimane il problema di conciliare filosofie diverse, quando non opposte: per l’estrema sinistra, gli immigrati sono tutti poveri disgraziati che vanno comunque difesi perché ‘vittime della società’; il mondo cattolico è disponibile ad aiutare tutti; i benpensanti al contrario vorrebbero controlli rigidi e impiccagioni sulla pubblica piazza.
In effetti manca un unico modello di immigrazione a cui ispirarsi – tra le diverse alternative, dallo straniero ‘ospite’ tedesco all’integrazione assoluta della Francia, che vorrebbe trasformare tutti in francesi – e su cui plasmare le politiche e i diversi interventi. Certo, per evitare che il fenomeno degeneri, se non si vuole una selezione delle presenze, bisogna almeno fare in modo che chi varca i confini del nostro paese sappia che per restare deve rispettare regole precise, e occorre poi la necessaria fermezza quando queste regole non vengono rispettate”.
Anche Giuseppe Scidà, professore di Sociologia dell’immigrazione e di Sociologia del Paesi in via di sviluppo all’Università di Bologna, concorda pienamente su questo punto: “Premesso che riguardo all’entità degli arrivi di stranieri in Italia siamo ancora sotto il nostro fabbisogno, dico che ogni paese che accoglie immigrati compie delle scelte, mette in atto politiche precise. L’Italia no. Il risultato è che sul territorio entrano immigrati di ogni sorta.
Dovremmo essere noi invece ad avanzare delle richieste, a segnalare le nostre esigenze. In tutti i paesi che svolgono politiche migratorie attive, le ambasciate indicano quali sono i bisogni della società, le offerte di lavoro. Ricordo quando il Brasile promuoveva la colonizzazione dei suoi territori: venivano accettati primariamente coloni della mitteleuropa, quindi coloni italiani: questi dovevano provenire dalle regioni del Nord (i meridionali non entravano), e dovevano costituire un nucleo familiare, con capofamiglia: a costoro – e solo a costoro – veniva assegnato un appezzamento di 22 ettari di terreno coltivabile.
Con la legge 40 è stato introdotto anche il Italia il sistema delle ‘quote’, che dovrebbe venire incontro alla necessità di una programmazione dei flussi – e qui si inserisce la polemica Formigoni-Amato, se cioè la politica delle immigrazioni debba essere nazionale o regionale, sulla quale mi pare che se dal punto di vista formale può avere ragione Amato (trattandosi di decisioni che in qualche modo riguardano la politica estera), dal punto di vista concreto è innegabile che le regioni abbiano una conoscenza più profonda delle necessità e dei problemi del territorio. Comunque, per il momento l’Italia si limita a fissare quote nazionali.
Più precisamente ha riservato un certo numero di immigrati a paesi coi quali esistevano accordi di cooperazione migratoria, come la Tunisia e l’Albania – non è così per altri paesi: la Cina, ad esempio, rifiuta di rimpatriare i clandestini individuati sul territorio italiano, se non ponendo come condizione il rimpatrio dei rifugiati politici cinesi nel nostro paese, il che naturalmente è inaccettabile. Abbiamo anche fissato una quota complessiva di presenze straniere per il 2000 (63mila unità). Ho però il timore che il finale sarà nuovamente ‘all’italiana’ e di queste quote finiranno per beneficiare soltanto i clandestini già presenti sul territorio”.
Intanto, le stime più attendibili (e prudenti) parlano per l’Italia di una crescita dell’immigrazione che porterà la popolazione straniera a raggiungere quota 2 milioni e mezzo di unità entro il 2010 (il 4% sul totale degli abitanti). “Tra vent’anni, – osserva Scidà – soprattutto nelle scuole delle regioni più sviluppate, ci saranno quasi solo i figli degli extracomunitari (già oggi, nella sola Lombardia, sono iscritti 50mila bambini stranieri). Non si può fare finta di niente: la convivenza porrà certamente problemi, perché mentre il numero degli immigrati continuerà a crescere, se pure gradualmente, gli italiani, visti gli indici demografici, saranno sempre meno”.