Articolo pubblicato su La Nazione del 17 settembre 2000
Dopo il monito del cardinal Biffi Viaggio nei quartieri di Parigi dove si parla solo arabo. Dalla poligamia allo chador
di Giovanni Serafini
Laurent Corbier, 38 anni, tassista, vive a Belleville, un quartiere di Parigi a foltissima componente maghrebina. Il suo sfogo mi ricorda quello di un autorevole docente di sociologia, Roger Tebib: «L’ integrazione dell’Islam in Francia – afferma – non deve assolutamente condurre a quel che potremmo chiamare un genocidio culturale.
Da anni lo Stato francese garantisce l’insegnamento dell’arabo nelle scuole francesi: ora, sappiamo tutti benissimo che l’Islam non separa lingua ed educazione religiosa. Bisogna dunque provvedere a difendere con più forza i fondamenti della civiltà cristiana». E’ il discorso del cardinal Biffi. Un tema di riflessione che gli intellettuali francesi più responsabili affrontano cercando di non cadere aldilà degli steccati di destra e di sinistra.
Con i suoi 5 milioni di musulmani concentrati fra Parigi, Lione, Marsiglia, Lilla e Strasburgo, la Francia costituisce un punto di osservatorio europeo privilegiato, con i vantaggi e gli svantaggi che ne derivano. Il dibattito è avviato da tempo, influenzato da eventi drammatici (il terrorismo della Jihad, che per anni ha sparso il terrore a Parigi) e teso ad un obiettivo concreto che tuttavia non si riesce a raggiungere: la nascita di un “concistoro musulmano”, un interlocutore unico con il quale lo Stato possa discutere.
Che cosa ha spinto Laurent Corbier ad andare a vivere a Belleville, nella zona est della città, fra piace de la Republique e Porte des Lilas? «Qui tutto costa meno. Gli affitti sono abbordabili. Lo erano molto di più qualche anno fa, quando Belleville non era stata ancora scoperta da scrittori come Pennac, da scultori, pittori e star della televisione in caccia di emozioni. Il mercato è uno dei più economici della città: la frutta e la verdura costano la metà che a Saint-Germain. Con 30 franchi (9 mila lire, ndr) mangi un ottimo, abbondante couscous».
Le “banlieues” francesi dell’Islam cominciano qui, a Belleville: un dedalo di stradine che salgono, scendono, si intersecano, si avvitano su una collina da cui si gode una splendida vista su Parigi. Territorio di frontiera, invaso prima dagli armeni, dai greci e dagli ebrei polacchi, Belleville ha visto negli anni Sessanta l’arrivo massiccio degli immigrati dell’Africa del Nord. Ultimi arrivati, negli anni Ottanta, gli immigrati dell’Africa nera e gli asiatici. La pressione di questi ultimi si sta facendo sempre più forte: commercianti abilissimi, cinesi, cambogiani e coreani stanno espugnando il quartiere.
I segni di tensione sono visibili. nonostante la comunità musulmana si sia in gran parte integrata. Nelle librerie islamiche trionfa il ritratto di Khomeini. Nelle “cités” circola la droga. Ci sono fenomeni di racket. C’è, soprattutto, l’opera di proselitismo effettuata dagli integralisti, che qui hanno uno dei loro bastioni.
L’insegna di “France Assistance Musulmane Internationale”, una delle 1.500 organizzazioni islamiche repertoriate in Francia, è ben visibile all’angolo della rue Jean-Pierre Timbaud, fra una libreria coranica e la pasticceria araba “Sole il du Jardin”. A due passi c’è la moschea Omar, tempio degli integristi. Bisognerebbe venire un venerdì a mezzogiorno per assistere allo spettacolo della preghiera: dalla stazione del metrò Couronnes fino allo square, la rue Timbaud è fitta di fedeli inginocchiati a terra che non trovano posto nella moschea.
La polizia interviene per l’occasione bloccando il traffico. Si gira fra i negozi che vendono trippa, carne di cavallo e di montone, dolci alle mandorle e al pistacchio. Ai bar siedono vecchi immobili, silenziosi. Da centinaia di finestre si diffondono nell’aria i ritmi del “rai”. Dappertutto agenzie che organizzano i viaggi alla Mecca. E’ una cornice coloratissima, attraente, varia come il mercato delle spezie in cui si aggirano le donne nelle loro splendide jellaba’.
Questa cornice cambia, perde la sua magia, mano a mano che si procede verso le altre periferie musulmane di Francia. Già a Barbès e nel quartiere della Goutte d’Or, ai piedi di Montmartre, il clima è diverso: l’odore dei traffici clandestini, della piccola criminalità, è più forte. Subito fuori Parigi, nell’enorme cintura delle città-satellite in cui il tasso di disoccupazione supera il 25 per cento, si precipita nel caos. Miseria e malavita si fondono.
I figli dell’Islam vivono in ghetti fatiscenti: Aulnay, Poissy, Clichy, Saint-Denis, svuotate degli operai che costituivano fino a pochi anni fa un solido tessuto sociale, sono teatro quotidiano di violenze. In alcuni luoghi la polizia non si avventura. Tutta la zona nord è a rischio: mai prendere un treno dopo le 22. RER compreso. Bisogna aver paura dell’Islam? La Francia continua a porsi la domanda. Qui i musulmani rappresentano la seconda religione del paese: si contano sul territorio nazionale ben 1.430 moschee, con centinaia di imam marocchini, algerini, turchi e tunisini direttamente remunerati dai paesi di origine.
E’ evidente, come riconobbe per primo l’islamologo Gilles Kepel, che in queste condizioni non può non porsi il problema dell’identità francese. Come reagire quando allieve musulmane istigate dai genitori o dall’imam pretendono di andare a scuola con il chador, o di essere esonerate dai corsi di ginnastica perché la tuta non è un abbigliamento adatto, o di saltare le lezioni di biologia perché il Corano vieta alle donne gli argomenti “impuri”?
Come reagire davanti al massacro annuale dell’Aid-el-Kabir, la festa religiosa nel corso della quale vengono sgozzate migliaia di montoni in dispregio delle norme francesi sui luoghi assegnati al macello? Le contraddizioni sono tante, troppe: 230 mila maghrebini vivono tuttora – e legalmente – in regime di poligamia grazie a una legge del 1980 (abrogata nel 1994) che la consentiva in quanto «non Contraria all’ordine pubblico».
E’ altrettanto legalmente che organizzazioni islamiche integriste hanno ricevuto finanziamenti dallo Stato: si erano spacciate per istituzioni culturali, si è scoperto in seguito che funzionavano come basi logistiche per i terroristi. Altro esempio clamoroso, quello di cui è stata protagonista Claudia Schiffer: nel 1994 sfilò con un vestito in cui alcuni credettero di riconoscere dei versetti del Corano. La moschea di Parigi insorse, il direttore di Chanel, minacciato, dovette profondersi in scuse, distruggere i vestiti incriminati, chiedere ai fotografi di eliminare i negativi. La risposta del rettore della moschea fu che «solo Allah può perdonare».
«Ormai siamo noi che ci sentiamo ghettizzati in casa nostra»: lettere come queste. indirizzate al “Figaro” o a “France Soir”, sono pubblicate ogni giorno. «Stiamo attenti – osserva Yves Lacoste, direttore della rivista di geopolitica Hérodote – al problema evidenziato dalla presenza di 5 milioni di musulmani in casa nostra. Prima o poi reclameranno vantaggi simili a quelli concessi agli abitanti della Corsica: per esempio la delega del potere legislativo».