di Antonio Saccà
E’ interessante compiere un’operazione in voga nel recente passato, quella di cogliere sociologicamente la fortuna di un autore. Sarebbe interessante capire perché Karl Popper conosce oggi una nuova fortuna, soprattutto da parte di coloro i quali ritengono una conquista del pensiero la teorizzazione della “società aperta”.
In realtà la società aperta va collocata in un determinato momento della storia, nel momento in cui i totalitarismi si affermavano e con i totalitarismi si affermava la negazione di ogni critica, del valore dell’individuo, della comprensione tra culture. In questo senso la società aperta, se considerata come opposizione al totalitarismo, è una rilevante teorizzazione dell’uomo che libera il pensiero e lo critica da se stesso, dell’uomo che sa proporre e opporsi alla proposizione e quindi è esattamente il contrario del totalitarismo, eminentemente affermativo e unilaterale.
Ma Popper non si limitò a questa concezione della società aperta. Arrivò a concepire un cosmopolitismo disseminato di individui, un cosmopolitismo individualistico, concezione la quale forma l’ossatura teorica del cosiddetto individualismo metodologico, a cui contribuirono lo stesso Popper, Von Hayek, Von Mises, Raymond Bourdon e altri. Il salto dalla società aperta all’individualismo metodologico è gravido di conseguenze.
Se possiamo accettare l’opinione che l’individuo non debba essere funzione al sistema e debba mantenere un senso critico nei confronti della funzionalità del sistema e della possibilità totalizzante di esso, ben diversa è la concezione che rende l’individuo la figura centrale della realtà al punto che i corpi intermedi sono puramente nominalistici e, in sostanza, non reali. La famiglia, le aggregazioni sociali, lo Stato, la Nazione, divengono entità evanescenti che non hanno il diritto di esistere perché, lo dicevo, l’unica entità che abbia diritto di esistere è l’individuo.
Ancora una volta possiamo comprendere che l’opposizione al nazionalismo totalizzante abbia fatto di Popper l’avversario dei corpi intermedi; egli considerava un corpo intermedio, in grande, perfino lo Stato nazionale. Ma così dissolviamo l’uomo in un pulviscolo di individui, così vi è la negazione assoluta della tradizione, della storia medesima, l’individuo diventa una astrazione che ha perfino difficoltà ad avere rapporti con l’altro individuo, tanto l’individuo è esclusivamente individuo. Si avrebbe una sorta di nichilismo per eccesso di concretezza, ossia: per poter trovare la radice reale nell’individuo si finisce con l’isolarlo e quindi con il renderlo inconsistente.
Ma questo individualismo pulviscolare e cosmopolita, senza frontiere, senza barriere, sena strutture di riferimento, senza istituzioni finisce poi con l’essere perfetta anticipazione del globalismo almeno come si presenta ai teorici più avvertiti di esso e non in coloro che credono che il globalismo sia soltanto l’apertura dei mercati, l’avanzamento tecnologico, l’accrescimento produttivo, il benessere mondiale, e ottimismi del genere. In realtà la globalizzazione è l’estinzione, l’uccisione, oserei dire, di qualsiasi corpo intermedio e per corpo intermedio intendo perfino gli Stati nazionali.
Al globalismo non è lecito avere entità che gli si oppongono, esso vuole universalizzare il suo modello: il libero mercato, l’avanzamento tecnologico, l’elevazione massima del profitto e non accetta che vi siano Paesi in cui queste innovazioni, faccio per dire, non vengano attuate. Sì, che rompe ogni barriera nazionale e perfino religiosa, con il New Age.
Ora, è difficile stabilire un rapporto esplicito tra filosofie e forze sociali, di sicuro però nell’individualismo metodologico di Popper e nella sua negazione di ogni ostacolo, corpo intermedio, vita nazionale, sovranità statale e nella riduzione del mondo a una presenza tentacolare di piccoli individui uno separato dall’altro, il globalismo trova una perfetta dimensione per la sua concezione.
Tutto il mondo come un’entità unica , tutto il mondo con regole uguali, tutto il mondo fatto di individui senza società, di società senza nazione, di nazioni senza stati: è in questa maniera c’è la globalizzazione. E’ un fenomeno già studiato: gli eventi globali hanno sempre bisogno della frammentazione degli individui in quanto gli individui frammentati non resistono alla potenza della globalità, dell’inglobamento.
Da tale punto di vista bisogna riconoscere che le concezioni di Popper (e ne fa una puntigliosa ricostruzione Malachi Ahim Achoen ne suo “Karl Popper in esilio”, con prefazione di Dario Antiseri, Rubbettino Editore), se ci salviamo dal totalitarismo degli Stati ci condannano al totalitarismo della globalizzazione.
Anzi, divengono le concezioni dell’asservimento più grave che l’umanità potrebbe conoscere: l’uniformità e la distruzione delle culture, delle differenze, considerate anomalie da sopraffare con un unico modello, quello dell’efficienza produttivistica. Per essere chiari: il globalismo non è da condannare per il suo efficientismo economico, è da condannare perché vede soltanto efficientismo economico. D’altro canto una volta abolita come segno di chiusura e di inconsistenza la cultura specifica, sociale e nazionale, come difendersi? Incredibile che Popper non si sia posto il problema!