Intervento di Omar Ebrahime nel corso dell’incontro sul tema: Un’economia a servizio della famiglia. La proposta distributista di Chesterton, Mc Nabb, Belloc e Medaille poco nota in Italia, che si è svolto martedì 6 Maggio a Verona presso la parrocchia di San Pietro Apostolo
(testo inviato a Rassegna Stampa dall’autore)
«E’ accaduto una volta sola che qualcuno si avvicinasse a Gesù e dopo aver parlato con lui se ne andasse via triste. Si tratta di quel giovane che anelava a una vita che dura per sempre. Egli però possedeva anche «molti beni». Non sapeva che per lui la strada verso la gioia della vita consisteva nell’accettare la sfida di Gesù: «Và, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» (Marco 10,21). Non capì che questo invito a seguire il povero Bambino di Betlemme, il povero Uomo della Galilea, il povero intoccabile del Golgota, era l’invito a entrare nela vita stretta della perfetta gioia. Non poteva abbandonare le cose che prima o poi lo avrebbero abbandonato. Si aggrappò ai suoi molti beni sulla terra invece di cercare il tesoro in cielo, e rinunciò alla gioia della povertà volontaria di seguire Gesù per la tristezza della ricchezza volontaria e per servire Mammona» (1).
E’ una delle riflessioni più profonde dell’opera più importante di padre Vincent McNabb, La Chiesa e la terra, la raccolta di saggi che esce a Londra nel 1925 (2) (da noi è stata appena tradotta dalla Libreria Editrice Fiorentina), giusto a pochi anni dalla crisi del 1929 – l’anno segnato dal tracollo della borsa newyorchese di Wall Street e l’inizio della “Grande Depressione” – che avrà ripercussioni gravissime, e a lungo termine, su tutto il sistema economico occidentale nel suo complesso. Ed è una crisi con degli aspetti sorprendentemente simili a quelli attuali.
Anche oggi siamo di fronte a una crisi economico-finanziaria globale che mette in discussione i principali paradigmi valoriali e la logica intrinseca dominante del sistema mercatista occidentale, anche questa é seguita a disinvolte operazioni finanziarie innescate su mercati azionari e borse valori d’Oltreoceano (con il fallimento di gigantesche banche d’affari che avevano concesso esponenzialmente gli ormai celebri mutui a rischio, cd. subprime), e anche in questo caso la via d’uscita prospettata – secondo gli studi e gli osservatori più accreditati – è a lungo, lunghissimo termine.
Per tutti questi motivi, l’analisi di McNabb presenta delle considerazioni che, a differenza di quanto si potrebbe pensare fermandosi superficialmente alle date, si prestano ad essere lette con attenzione anche oggi. A scanso di equivoci, il brano di cui sopra non è ovviamente un’esortazione moralistica al pauperismo, né a una fuga di massa dalla civiltà in cui ci troviamo a vivere, quanto piuttosto un invito a ri-centrare coraggiosamente i fondamenti ultimi che danno ragione e senso al nostro agire e al nostro stare insieme come comunità – e quindi anche come comunità politica – sull’essenziale lasciando al secondario, all’accessorio e anche al superfluo il posto che gli spetta.
E la prima cosa essenziale, anzi, in fondo l’unica, (l’“unum necessarium”, stando al testo letterale del Vangelo di Luca, cfr. 10,42), è mettersi alla sequela del Regno di Dio e della chiamata alla conversione: il resto, se è veramente utile e necessario, seguirà allora di conseguenza.
Ora, dobbiamo essere sinceri: quando sentiamo pronunciare la parola “economia”, oggi, difficilmente ci viene da pensare a Dio. Se pure Dio c’è, così almeno crediamo di solito, non si occupa certo della borsa né dei mercati. E un primo problema si coglie già qui perchè la Dottrina sociale della Chiesa – di cui McNabb, nel suo Paese, fu uno dei primi convinti divulgatori a livello popolare dopo aver letto la Rerum Novarum di Leone XIII – sostiene invece esattamente il contrario: i bisogni particolari del corpo e dell’anima per il credente non sono mai in contrapposizione radicale ma vanno tenuti sempre insieme, in un’armonica complementarietà.
Il bello è che rispettando questa complementarietà alla fine vediamo che si progredisce – cioè, ci si “sviluppa”, per usare un termine più appropriato, che piace agli economisti di professione – anche a livello materiale e sociale. Più si dà spazio al piano complessivo e originario di Dio sull’uomo (intendendo con questo l’orizzonte morale e spirituale disegnato concretamente dal Decalogo, che ha evidentissime ricadute sociali sull’organizzazione – anche civile – di una comunità) e più si contribuisce ad umanizzare la società in cui viviamo, cioè a renderla più a misura dell’uomo e della sua dignità.
La prova di credibilità di questa tesi si può verificare facilmente al contrario, domandandosi per esempio: qual’è stata l’epoca storica più segnata in assoluto da guerre, genocidi e violazioni di diritti umani? La risposta è ovvia: il XX secolo, caratterizzato da due guerre mondiali, due bombe atomiche, una “guerra fredda”, innumerevoli genocidi (da quello armeno a quello ucraino), dittature e Stati totalitari, la Shoah, campi di concentramento, Gulag, Lager, Laogai (3) e chissà di quant’altro ci dimentichiamo. Fu il secolo di Caino, come lo definì una volta Papa Wojtyla. Con una concentrazione in serie di violenza brutale ed efferata, tutta avvenuta nello stesso periodo, mai vista prima di allora nella storia.
E fu, non a caso, il secolo inaugurato dal grido empio e blasfemo di Friedrich Nietzsche: “Dio è morto” (4) Egli stesso, da ultimo, aveva contribuito ad ucciderLo una volta per tutte, nei cuori umani come nelle facoltà della ragione. Bisognava allora iniziare a vivere facendone finalmente a meno, come se non fosse anzi mai esistito, senza rendersi conto che così si sarebbe inaugurata invece la nuova religione degli idoli umani. Da allora la domanda su Dio è diventata oziosa, non solo nel pensiero filosofico, ma anche nella politica, e quindi – figuriamoci – persino nell’economia.
McNabb si muove su questo sfondo temporale (muore nel 1943, in piena seconda guerra mondiale) e la crisi antropologica dell’Europa la vede – per così dire – dal suo interno. Capisce allora che – come tutte le crisi epocali – per poterne uscire bisogna anzitutto andare pazientemente a ri-scoprire le radici di ogni cosa, all’essenziale appunto. A partire dai nomi, che nel caso di specie dell’economia – dal greco “oîkos” (casa) e “nómos” (legge) – rimandano alla casa come “luogo” di lavoro domestico, oltre che di abitazione e di vita in comune (5).
Dire “casa” significa ovviamente dire famiglia e quindi riconoscere ad essa un primato (Giovanni Paolo II direbbe addirittura una “sovranità” [6]) che precede la società e persino lo Stato, che infatti a ben vedere rappresenta – semmai – un’unità di famiglie, una grande famiglia di famiglie. Per dirlo con le parole di padre McNabb: «la famiglia è l’unità psicologica dello Stato […] una civiltà che si fonda sul lavoro in fabbrica e non su quello a casa non sta in piedi sulle sue gambe perchè la famiglia, cioè la casa, è l’unità, cioè il fondamento […] la casa è la fabbrica più importante della ricchezza comune» (7).
Se questo è vero, la conseguenza è che l’albero della buona economia va piantato sulla radice della famiglia che – quale autentica fons et origo della società (8) – diventa allora il parametro ultimo in base a cui valutare anche investimenti, infrastrutture e piani-occupazione dei Governi. La famiglia appare così non come un salvadanaio senza limiti a cui la politica si aggrappa quando non sa più dove altro prendere i soldi, non come un ammortizzatore sociale che mette una toppa alle numerose falle educative e assistenziali di uno Stato inadempiente – e in definitiva parassitario, perchè lucra sul risparmio altrui senza fornire i corrispettivi servizi minimi – e nemmeno come una generica “risorsa preziosa” per tutti, come qualche sociologo ultimamente scrive volendo forse rilanciarne il ruolo pubblico.
Tutt’altro, la famiglia assume qui un’importanza civile in ragione del suo ruolo unico di palestra di cittadinanza e di educazione alla vita: «solo la casa trasforma i ragazzi e le ragazze, gli uomini e le donne in veri uomini e vere donne, buoni cittadini […] di ambo i sessi» (9). Il vero criterio di giudizio per esaminare le proposte politiche ed economiche, a livello locale come nazionale, è dunque l’effettivo favor sociale (cioè, in concreto, il grado di tutela e promozione materialmente assicurato) che esse portano – o meno – rispetto alla famiglia come istituzione.
Nel momento storico in cui ci troviamo, già attuare solo questo significherebbe compiere un’operazione di portata rivoluzionaria: comporterebbe, ad esempio, lo stralcio immediato delle proposte ora in discussione in Parlamento sul divorzio-breve e l’omofobia – obiettivamente gravissime nei loro contenuti pedagogici e giuridicamente qualificanti – per tacere della legalizzazione delle droghe, e concentrarsi seriamente una volta per tutte su libertà di educazione ed effettiva autonomia scolastica, occupazione giovanile, quoziente familiare e piano-casa per le nuove famiglie.
Come profeta dell’atomizzazione dei legami nella modernità, McNabb vedeva infatti con largo anticipo sui tempi quella che oggi da noi definiamo esplicitamente come “questione demografica”: il fatto cioè che in Italia ogni anno muoiano più persone di quante ne nascano (per la verità attualmente non arriviamo neanche al tasso minimo di sostituzione generazionale, che sarebbe di 2,1 figli per famiglia) e l’età-media complessiva della popolazione aumenti sempre più avanti con ricadute comprensibilmente preoccupanti per il sistema sanitario e pensionistico del Paese.
Da vero pensatore realista (tutta la sua opera potrebbe forse definirsi compiutamente come un “ritorno al principio di realismo”), McNabb scorge allora nel rifiuto deliberato di “fare famiglia” non certo un dispetto al costume tradizionale o religioso di una singola comunità ma una ferita oggettiva al corpo sociale della Nazione. Poi, certamente, aggiunge che in ciò si scorge pure l’ombra del demonio, ovvero di colui che – per definizione – non vuole la vita (10) e odia mortalmente la famiglia perchè è stata proprio una famiglia – la Sacra Famiglia di Nazaret – a determinare la sua sconfitta eterna.
Ma il tono argomentativo della trattazione è di una persuasione immediata, difficilmente tacciabile di dogmatismo: «la famiglia come tale viene prima dello Stato. Non solo come idea, ma nella realtà, le famiglie devono aver preceduto la nascita degli Stati. L’organizzazione politica primitiva presuppone un gruppo di famiglie primitive. Infatti, l’idea stessa che sta alla base dello Stato, e tutte le arti politiche che rendono possibile l’esistenza degli Stati, sono prese a prestito dall’organizzazione naturale della famiglia. L’unione coniugale di due anime che ne generano una terza non è dono né opera dello Stato. La famiglia è più antica di qualsiasi altra comunità. Continuerebbe a esistere anche se tutte le altre comunità dovessero estinguersi. E’ più vero dire che lo Stato ha dei doveri verso la famiglia piuttosto che la famiglia ha dei doveri verso lo Stato. Il dovere principale di una Nazione nei confronti di questo soggetto vivente ed essenziale è la sua salvaguardia […] la casa familiare, con la sua dote di diritti naturali, é un’istituzione più antica di qualsiasi legge o parlamento umani» (11). Oggi forse aggiungerebbe anche: più di qualsiasi Corte Suprema di Cassazione o Costituzionale.
L’amore per la terra, che è l’altro grande motivo ricorrente della sua riflessione, scaturisce direttamente da questa impostazione decisamente realista: come la famiglia insegna ai figli a diventare uomini e donne responsabili costruendo quotidianamente – “mattone dopo mattone”, verrebbe da dire – la propria solidità morale e svolgendo per la società un compito insostituibile, così la terra (McNabb sostenne a lungo il Back-to-the-Land-movement, il movimento popolare inglese che auspicava un ritorno della manodopera alla terra, in quegli anni spopolata dall’esodo di massa verso le grandi città industriali) insegna a chi la coltiva e la custodisce, a livello sanamente pratico, virtù essenziali non acquisibili intellettualmente come la morigeratezza, la sobrietà, il risparmio: a vivere cioè serenamente in modo autosufficiente del proprio.
Da qui il rigoglioso localismo di fondo – dove l’accento è posto sulla reale autonomia organizzativa e fiscale delle singole comunità territoriali rispetto al governo centrale – che contraddistingue la sua visione politica propriamente detta, in un’ottica di sana sussidiarietà verticale. Anche su questo tema le pagine di McNabb restano evidentemente attualissime e di notevole stimolo.
E tuttavia resta il fatto che la buona politica, come la buona economia, al di là delle misure tecnicamente obbligatorie nei momenti di crisi o dettate dal buon senso, non potrà mai fare completamente a meno della scienza teologica, se è vero – come è vero – ad esempio, che lo stesso Gesù lavorava e che anzi ha dato Egli stesso per la prima volta nella storia dell’umanità all’attività manuale (e lavorativa) in quanto tale una dignità straordinaria e inaudita, persino santificante. Perchè qui sta la chiave: McNabb si appassionò e scrisse tanto di questioni sociali (dall’urbanistica alle rendite agricole, alle singole voci che compongono un salario) innanzitutto per salvare anime, cioè per portarle a Dio e fare così la Sua volontà, ovvero ricapitolare in Cristo tutte le cose.
Una buona costruzione della società sarebbe stata allora a suo avviso quella che avrebbe allontanato o, almeno, tendenzialmente reso più difficili le occasioni più prossime di peccato, perchè ogni peccato – di per sé – originale o attuale, possiede sempre una valenza sociale (cosa che i teorici e gli esponenti politici del liberalismo moderno, nelle sue eterogenee e anche opposte varianti, faticano ancora a comprendere) e lascia i suoi virus (il suo “diffusivo contagio”) laddove viene consumato.
E’ evidente nel caso del divorzio che lascia dei traumi indelebili su genitori e figli, lo è ancora di più nel caso dell’aborto, dove un essere umano viene eliminato fisicamente, ma lo è anche nel caso dei primi tre comandamenti del Decalogo di cui forse oggi abbiamo smarrito un po’ l’importanza e che tendiamo a fare passare in secondo piano, avendo rimosso (a livello di classi dirigenti, come di popolo) la centralità dell’azione del Creatore nella vicenda della storia umana.
Per dirlo con una battuta brillante di McNabb, ma con un fondo trasparente di verità, tanto umana quanto soprannaturale: «Lavorare la domenica vuol dire lavorare sette giorni su sette, e 365 giorni su 365. Di solito alla fine significa finire in ospedale per tre mesi, in carcere per un anno o in manicomio per il resto della vita. Ogni inglese che lavora volentieri sette giorni su sette non dev’essere minacciato di finire all’inferno: se lo è creato con le proprie mani. «Il salario del peccato è la morte» (12).
Note
1) Vincent McNabb, La Chiesa e la terra, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2013, pagg. 222-223.
2) La prima versione sul mercato anglosassone uscì per il piccolo editore Burns, Oates & Washbourne, cfr. Vincent McNabb, The Church and the Land, Burns, Oates & Washbourne Ltd, London 1925.
3) Che diversamente dai primi due, e nonostante le smentite del governo di Pechino, sono tuttora attivi e in funzione, nella Cina dei nostri giorni.
4) L’aforisma si trova nel saggio-raccolta di epigrammi ed aforismi La gaia scienza, pubblicato in Germania nel 1882 e poi divenuto un classico. Per un’edizione italiana recente, cfr. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Rusconi, Rimini 2010.
5) La nota semantica deve essere molto più che un semplice rimando dotto per specialisti della filologia classica, se persino il Compendio della Dottrina Sociale reputa opportuno spendervi qualche riga, si veda – esemplarmente – al numero 248, dedicato a “Famiglia, vita economica e lavoro”.
6) Cfr. la sua Lettera alle famiglie, promulgata il 2 febbraio 1994.
7) V. McNabb, Op. cit., pagg. 37-39.
8) Come scrive sinteticamente il principale biografo italiano di McNabb, lo studioso Paolo Gulisano: “Per McNabb la famiglia e la Chiesa erano i modelli, gli archetipi di ogni vera comunità di destino umana” (cfr. Paolo Gulisano, Babylondon. Padre McNabb, maestro di Chesterton, nel caos di “Babylon-London”, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2010, pag. 122.
9) Ivi, pag. 39.
10) Come insegna magistralmente la Scrittura:“La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo” (Sap 2,24).
11) Ivi, pag. 175.
12) Ivi, pag. 40.
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Leggi anche L’intervento di Fabio Trevisan nel corso del medesimo incontro