Articolo pubblicato su Percorsi
Intervista con Jeremy Rifkin, “profeta” apocalittico del nuovo secolo
di Antonella Ambrosioni
Presa nella “rete”, l’economia si smaterializza. “La proprietà del capitale fisico – un tempo fondamento della civiltà industriale, ci spiega davanti a un caffé nei sontuosi saloni dell’Excelsior – diventa sempre meno rilevante”. E’ il capitale intellettuale la forza dominante, l’elemento più ambito della nuova era. “Nella New Economy sono le idee, i concetti, le immagini – non le cose – i componenti fondamentali del valore”.
Anche in questo nuovo libro come nei precedenti “La fine del lavoro” e “Il secolo biotech”, Rifkin, presidente della Foundation on Economic Trends di Washington e docente alla Whartorn School of Finance and Commerce, lancia, una “profezia”: il capitalismo tradizionale che perde la “fisicità” del capitale e degli impianti produttivi tradizionali ed entra “in rete” porta con sé un rischio: che coloro che controlleranno l’accesso a tutta questa gamma di beni intellettuali saranno sempre in meno.
Poche, grandi oligarchie gestiranno le chiavi e le modalità d’accesso, le regole del grande gioco dell’economia mondiale. Non solo: finiranno in tal modo per controllare la via di ognuno di noi. Favole tecnologiche? Pessimismo apocalittico? “Macché, sono realista non pessimista – risponde Rifkin.
E in effetti, leggere i suoi libri è salutare, per così dire, perché aiuta ad addentrarci in problematiche che la modernità dovrà comunque affrontare tra dubbi, ansie a anche angosce. Purché non si faccia delle sue “profezie” un “credo”. I suoi libri esprimono alcune possibilità contenute nell’accelerazione dello sviluppo tecno-economico.
Rifkin, ad esempio, prevede la fine, di qui a qualche decennio, del mondo così come l’hanno sperimentato le generazioni che sono nate nel ‘900. E’ la fine innanzi tutto del lavoro, come scrisse appunto nel lungo saggio uscito qualche anno fa, la cui pubblicazione ha ispirato un rigogliosa letteratura antiglobalista: l’affermazione dell’ipercapitalismo tecnologico, l’avanzata del mercato mondiale, la possibilità di profitti mega-galattici per le grandi imprese produrranno benessere e grandi opportunità solo per il venti-venticinque per cento della popolazione dei Paesi iperindustrializzati.
La maggioranza delle gente si dovrà arrangiare con lavori precari, dequalificati, sottopagati in un mondo di basse garanzie sociali e di alto sfruttamento. E’ la fine anche della natura, così come questa è stata conosciuta lungo tutti i millenni della civiltà umana. Il secolo appena cominciato sarà il “secolo biotech”, altro suo titolo di successo uscito un paio d’anni fa. La combinazione tra biotecnologia e profitto capitalistico spalanca scenari a dir poco inquietanti.
Non le sembra di esagerare? Via, la Rete sembra molto democratica e fornisce una grande occasione di libertà per l’intraprendenza economica di nuovi soggetti, non solo per i grandi colossi della comunicazione digitale. Non trova?
Valgono entrambi i discorsi, come del resto valevano per l’era industriale. Da una parte, certo, le grandi concentrazioni, Time Warner, Aol, Microsoft, ma d’altra parte ci saranno anche nuove imprese. Ma è necessario chiarire: noi tendiamo a considerare la concentrazione secondo la tradizione del capitalismo così come l’abbiamo conosciuto, pensando che concentrazione significhi controllare i beni materiali e i mercati. Nella realtà odierna ai mercati si vanno sostituendo le “reti” e ai venditori e agli acquirenti si sostituiscono fornitori e utenti. Nel nuovo tipo di mercato, meglio sarebbe dire nella rete, non dobbiamo trascurare il discorso del franchising. Oggi negli Stati Uniti un terzo delle piccole imprese commerciali, negozi della grande concentrazione, fast-food ecc. sono dei franchising.
Sarebbe a dire?
Glielo spiego subito: mio padre, ad esempio, era un piccolo capitalista perché possedeva un’azienda manifatturiera ed era proprietario di questa sua attività. Nella nuova forma di capitalismo, nel “franchising” in maniera particolare, ciò non è previsto. Può sembrare che chi è titolare di un franchising sia proprietario, ma in realtà non è così.
Ci può fare un esempio pratico?
Prendiamo il caso di una persona che abbia un franchhising Mc Donald’s a Roma: questa persona è proprietaria del locale, delle attrezzature. Assume, produce hamburger e li vende. Ma in realtà non è mai proprietario perché la proprietà reale sta nel marchio, nella formula, nella tecnica di marketing. Cose che non sono mai di proprietà del titolare di un franchising, il quale, ad esempio, non può vendere la propria attività ad altri. Ed è importante capire che il franchising si sta diffondendo sempre più, non solo in America ma anche in Europa.
Lei è stato definito un autore “apocalittico”: è pessimista riguardo alla modernità? In fondo, in base all’esperienza di questi ultimi anni, constatiamo che nei Paesi dove più forte è l’accelerazione del nuovo capitalismo, le opportunità di lavoro si moltiplicano, invece di ridursi. Né sembra che i cibi transgenici stiano spopolando sul mercato…
Sono un realista, come le dicevo. E lo si capisce proprio leggendo attentamente “Il secolo biotech”, nel quale sottolineo il fatto che per il momento manchiamo di una visione sociale abbastanza potente per controbilanciare la nuova tecnologia. In realtà credo di essere un ottimista, prendiamo “La fine del lavoro”: lì sottolineo il fatto che la tecnologia ci può liberare, ossia che non c’è più bisogno di lavorare giornate così lunghe a ritmi frenetici, rigidi. Ma al tempo stesso affermo che, proprio per questo, ci sarà bisogno di una ridefinizione del significato di essere uomini.
Già, una questione che poneva anche ne “Il secolo biotech”. Che ne sarà dell’uomo?
La rivoluzione biologica potrebbe portarci sia a una rinascita sia a un arretramento, dipende da come sfruttiamo questa nuova scienza. E’ chiaro che non vogliamo arrivare a una realtà popolata da cibi transgenici né all’eugenetica, cioè produrre bambini su richiesta. Si potrebbe, invece, usare questa nuova scienza come partner, come un modo per arrivare a un’agricoltura più conveniente, più efficiente, più organica. Le biotecnologie, poi, potrebbero essere poste al servizio della medicina preventiva. Quindi, è realistico affermare che la nuova tecnologia e la nuova rivoluzione economica potranno prendere strade completamente diverse: quello che è importante è avere il coraggio e l’intelligenza di intravedere non solo i potenziali vantaggi ma anche eventuali svantaggi derivanti dall’uso delle nuove tecnologie: per superarli e quindi migliorare la condizione umana.
Questo confronto come ridefinisce le culture politiche della Destra e della Sinistra?
Il libro l’ho scritto proprio per questo: chiedo sempre agli imprenditori e ai dirigenti d’azienda con i quali collaboro se, secondo loro, la qualità della vita è migliorata, proporzionalmente, rispetto allo sviluppo tecnologico. La risposta che ricevo è no. Il problema è che ancora non abbiamo capito come rapportarci in maniera efficace a questa nuova realtà, non se ne sono pienamente colte le potenzialità. Potenzialità che non possono essere colte facendo riferimento alle categorie politiche di Destra e Sinistra proprio per la radicale diversità del nuovo capitalismo.
Oggi, il contrasto si gioca tra valore intrinseco e valore utilitaristico e si potrà assistere, quindi, anche ad alleanze completamente nuove rispetto al passato: troveremo, magari, un rapporto tra conservatori sociali di sinistra e destra, molto più vicini tra di loro di quanto, magari, non si possa dire dei loro alleati tradizionali. Oggi, ad esempio quello che conta di più è “essere collegati”, avere rapporti e accedere alle reti. La libertà sta dunque nell’inclusività, nel partecipare a tale sistema di reti.
Di conseguenza sarà necessario un cambiamento anche nella nostra filosofia politica: il governo dovrà assumere un ruolo diverso per assicurare e proteggere l’inclusione dei vari soggetti sociali, per garantire loro la libertà di accesso. E sarà necessario ridefinire, a questo punto, il concetto stesso di libertà.
Come valuta i movimenti antiglobalisti di Seattle e Davos?
Ho contatti e rapporti personali con le organizzazioni della società civile presenti in queste occasioni. Abbiamo visto unirsi diverse forze, movimenti dei lavori organizzati, movimenti per le biodiversità e movimenti che promuovono la diversità culturale. E’ stato un primo antidoto alla globalizzazione. Questi movimenti hanno rappresentato una forza nuova che può portare alla formazione di un nuovo movimento politico. Ho sempre ammirato l’etica di Aristotele, che prescrive l’equilibrio tra due estremi. Non c’è niente di sbagliato, intrinsecamente, nel commercio, il problema è come arrivare ad un equilibrio per evitare concentrazioni di potere. La soluzione si può trovare proprio nella geografia.
In che modo?
Nell’era del cyberspazio dobbiamo ricordarci che cultura e geografia sono importanti. Il contesto geografico può rappresentare un equilibrio molto coesivo con l’apporto delle diverse realtà locali, culturali. A Seattle abbiamo visto, infatti, il primo scontro tra i fautori del commercio mondiale e i fautori dell’importanza delle realtà geografiche, delle comunità, dei localismi.
Da uno scontro come questo può nascere una nuova sintesi, un nuovo equilibrio. Fine del lavoro, fine della natura: che tipo di mondo aspetta l’uomo e che ne sarà della nozione stessa di umanità? Molto dipende dal fatto se permetteremo o meno alla tecnologia di avere il sopravvento sui nostri valori. E dobbiamo capire come conciliare questi con la tecnologia. La mia opinione è che quest’ultima debba essere considerata come corollario ai nostri valori.
Quindi si tratterà, ripeto, non tanto di uno scontro tra Sinistra e Destra bensì tra coloro che sono fautori dei valori intrinseci rispetto a quelli che badano più all’utilità. Le decisioni che verranno prese in questa nuova era dell’accesso si baseranno proprio su come la pensiamo dei valori, della vita, della natura, rispetto ai valori utilitaristici dello sfruttamento e della manipolazione.
Trovo straordinaria, a tal proposito, l’ultima enciclica papale, che contiene dichiarazioni fondamentali proprio in tema di valori. E lo dico da non cattolico: l’eloquenza e la puntualità con cui il Pontefice ha sottolineato questo passaggio cruciale sono al momento insuperate. Trovo che l’Italia possa essere un modello per trovare un giusto equilibrio tra cultura e commercio, in quanto il suo contenuto culturale è fondamentale.