di Massimo Introvigne
Anzitutto, la compassione per le sofferenze del popolo tibetano privato della libertà religiosa e perfino dell’identità culturale dalla Cina comunista non può essere un fatto occasionale o stagionale. Come molti hanno fatto notare, nello stesso mese l’Europa ha accolto con uguali onori il Dalai Lama e i governanti cinesi, il perseguitato e i persecutori. Non basta applaudire ogni tanto il Dalai Lama per scaricarsi la coscienza.
E’ quando sul loro tavolo arriveranno, in materia di rapporti con la Cina, i fascicoli che contano – quelli delle relazioni finanziarie e commerciali – che i potenti d’Europa dovranno ricordarsi della visita del Dalai Lama, delle mille storie di disperazione e di morte dei profughi tibetani, del dovere morale di non separare il tavolo del commercio da quello dei diritti umani e della libertà religiosa.
Dovranno pure ricordare che non si tratta solo del Tibet e dei buddhisti: dalla Cina, a chi solo non si rifiuti di ascoltarle, giungono voci inquietanti di una discriminazione e di una persecuzione che non si arresta contro i cattolici fedeli a Roma e gli evangelici che rifiutano di sottomettersi alla gerarchia religiosa “patriottica” imposta dal regime, per non parlare del caso, certo assai complesso, del movimento sincretistico Falun Gong, a proposito del quale anche molti europei (quasi nessuno, invece, negli Stati Uniti) hanno comunque accettato acriticamente le campagne di disinformazione partite da Pechino.
In secondo luogo, la visita del Dalai Lama è una grande occasione per il rilancio di un genuino dialogo interreligioso fra cristiani e buddhisti, di cui vi è certamente bisogno. Il dialogo presuppone la consapevolezza dell’alterità e delle differenze. Non mira alla fusione né alla confusione – che anzi danneggia e distrugge il dialogo – ma alla comprensione reciproca e alla collaborazione. Si rimane così perplessi quando si legge, su autorevoli quotidiani, che si potrebbe ormai essere insieme cattolici e buddhisti, e quando il Dalai Lama stesso afferma in un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera del 24 ottobre che “noi lo chiamiamo Budda, altri lo chiamano Dio, ma la categoria è la stessa”.
Forse l’intervistatore non ha ben colto il pensiero dell’illustre ospite. Certamente nessun buddhista sottoscriverebbe all’affermazione secondo cui Buddha e il Dio dei cristiani sono “nella stessa categoria”. L’idea di un Dio personale, onnipotente, trascendente, creatore, provvidente, che entra in dialogo con l’uomo e si incarna nella storia è quanto di più lontano si possa immaginare dalla visione del mondo buddhista.
Nel buddhismo – dove talora ci sono dei, anche loro sottoposti alle ineluttabili leggi dell’universo – non c’è posto per nessun Dio personale e creatore. L’universo non è retto da una persona ma da una Legge, che opera tramite il karma nella vita degli uomini attraverso la ruota delle reincarnazioni da cui ciascuno è chiamato a liberarsi. Il ruolo del Buddha nella liberazione dal karma è certamente sublime, ma questo non fa assolutamente del Buddha il creatore del mondo o un Dio trascendente e provvidente. Per il cristianesimo Dio, appunto, non è una “categoria” ma una persona.
Sul piano logico, non si può certamente essere insieme cattolici e buddhisti: il Dio personale e il divino impersonale, la resurrezione e la reincarnazione, il ruolo unico di Gesù Cristo come Dio che si incarna nella storia e l’attenzione rivolta a Gesù Cristo solo come illuminato o maestro non sono certamente compatibili.
Sul piano sociologico, esistono certamente molte persone che vanno a Messa a Natale e a Pasqua e vanno anche in qualche monastero buddhista, e che si dicono insieme cristiane e buddhiste – ma si tratta di cristiani confusi, di buddhisti confusi e più spesso di tutte e due le cose insieme. Sono osservazioni che nulla tolgono all’esigenza del dialogo interreligioso, anzi ne costituiscono la premessa. Per dialogare occorre avere anzitutto consapevolezza della propria identità: chi non ha più propriamente una mano non può stringere la mano dell’altro.
In terzo luogo, la visita – che coincide, significativamente, con la conclusione dell’iter per l’Intesa fra lo Stato e l’Unione Buddhista Italiana – potrebbe e dovrebbe essere occasione per studiare seriamente il buddhismo. Cadrebbero così facili equivoci, mitologie, interpretazioni “eurocentriche” del buddhismo che assimilano la comunità buddhista internazionale a una “Chiesa” di cui il Dalai Lama sarebbe il Papa.
Evidentemente, non è così. Il buddhismo è una grande famiglia distinta in varie tradizioni e scuole; in Italia le più diffuse sono la vipassana, la zen e la tibetana. Il Dalai Lama è la guida spirituale del buddhismo tibetano, non di tutto il buddhismo, e anche all’interno del buddhismo tibetano non mancano divisioni e controversie. Da questo punto di vista, la figura dell’attuale Dalai Lama è per molti versi singolare.
Il Dalai Lama, scrive nel suo bel libro Prisoners of Shangri-La Donald S. Lopez, uno dei maggiori specialisti accademici contemporanei del buddhismo tibetano, può essere considerato a partire dal 1959 “il principale propagatore del modernismo buddhista”, una corrente che ricostruisce il buddhismo come “religione della ragione” fondata sull’”analisi razionale”, sulla compassione e sulla benevolenza, così consapevolmente interagendo con l’immagine che della religione buddhista si erano fatti studiosi occidentali.
La scelta del Dalai Lama ne ha fatto una figura di enorme successo in Occidente, ma non è priva di aspetti paradossali, se si considera che in Tibet – tra divinità guerriere e riti di esorcismo – la versione modernista del buddhismo era rimasta sostanzialmente “sconosciuta”, tanto più nella corrente conservatrice Geluk di cui i Dalai Lama sono tradizionalmente i capi.
Nonostante le sue scelte filosofiche, il Dalai Lama rimane profondamente tibetano: per esempio, nota Lopez, “offre regolarmente iniziazioni al culto di divinità vendicative e non prende nessuna decisione importante senza consultare la feroce divinità guerriera che gli parla attraverso l’oracolo di Nechung”. Questi aspetti emergono raramente nei discorsi del Dalai Lama in lingua inglese: per studiarli, occorre risalire ai suoi discorsi in tibetano e per tibetani.
Lopez non si scandalizza di questo duplice linguaggio, e non c’è in effetti nessuna ragione di sospettare il Dalai Lama di duplicità o di chissà quali furbizie. Egli si è scelto una difficile e nobile missione di dialogo con l’Occidente, un dialogo in cui non può non aspirare a rappresentare l’intero mondo buddhista.
Nello stesso tempo, non gli si può chiedere di rinnegare le sue radici, non solo carne e sangue del Tibet e dei suoi drammi, ma anche garanzia contro la riduzione del buddhismo a semplice supplemento vagamente spirituale del mondo della scienza e della tecnica paventata da Umberto Galimberti in un articolo di Repubblica del 25 ottobre.
Sono radici che chi dialoga con il Dalai Lama deve considerare con serenità, consapevole però che il vero buddhismo – complesso, articolato, talora diviso – non è quello in versione su carta patinata dei seminari per VIP e dei cocktail mondani. Ed è con il buddhismo genuino – non con questo effimero buddhismo-champagne – che il dialogo è, insieme, davvero possibile e necessario.