Discorso del Presidente del Senato Marcello Pera al convegno
“L’Europa: radici e confini”
Università Europea di Roma, 7 giugno 2005
Comparso come articolo sul n° 25 de Il Domenicale – settimanale di cultura
(18 giugno 2005)
Del tema di questo Convegno, prenderò la parte che riguarda le radici. E di questa parte, mi concentrerò sulla fase moderna e sulla situazione attuale. So di dire cose che in gran parte ho già detto e scritto, e me ne scuso, ma ritengo che sia utile tornare sull’argomento. Anche perché queste cose sono difficili, la ricerca deve continuare e il confronto proseguire.
È noto che da quattro secoli l’Europa si basa su quella che è stata definita la “sintesi di Westfalia”. Lì, nel 1648, si affermò un principio che ha fatto epoca, il principio di separazione tra sfera politica dello Stato, autonomo nei suoi poteri, e sfera religiosa dei cittadini, libera e indipendente dentro i confini dello Stato. Più o meno nello stesso periodo, nella cultura europea, si andò affermando, dopo il processo a Galileo, un analogo principio di separazione, quello tra la sfera scientifica e la sfera religiosa. Secondo le celebri parole del cardinal Baronio citate da Galileo nella lettera a madama Cristina di Lorena del 1615, la Scrittura insegna «non come vadìa il cielo, ma come si vadìa al cielo», cioè non parla di astronomia bensì di salvezza delle anime.
Con il passare del tempo, prima teorizzate da grandi studiosi poi reclamate da competenti, addetti ai lavori e cittadini, versioni diverse dello stesso principio di separazione si moltiplicarono: ad esempio, tra verità di fede e verità di scienza; verità di morale e verità di diritto; verità divine e verità di stato; verità private e verità pubbliche.
Specialmente nel campo della cultura, il principio della separazione aveva, e continua ad avere, uno scopo ottimistico: se si separano le sfere di competenza, ciascuna con propri metodi, procedure e finalità, c’è da credere che non ci saranno interferenze e conflitti; e se non ci saranno interferenze e conflitti, c’è da credere che ciascuna sfera progredirà al meglio delle sue possibilità senza vincoli posti dall’altra sfera.
Così in effetti sono andate le cose, con quei progressi enormi in tutti i campi – dalla scienza, alla tecnica, al diritto, alla politica, all’economia – che hanno fatto dell’Europa e poi dell’intero Occidente la civiltà della massima espansione e attrazione.
Ma, come sempre accade, quando c’è progresso, qualcuno ne fa le spese. Dal principio della separazione, a trarre più vantaggi è stato lo spirito positivo che si è esteso a tutti i campi, mentre a subire più perdite è stata la religione, la quale si è invece gradualmente ritirata in recinti sempre più piccoli, fino a trovarsi rinchiusa in quella che, prima di diventare Benedetto XVI, il cardinale Ratzinger aveva definito il “ghetto della soggettività”.
Rispetto a questo andamento, la novità di oggi in Europa è duplice. Da un lato, avanza una richiesta di identità del cittadino europeo, in parallelo ai processi di allargamento, di unificazione, di immigrazione. Dall’altro lato, si afferma una crescente domanda religiosa come componente di tale identità. In giro per il vecchio Continente c’è un risveglio spirituale, un bisogno di credere, una necessità di definirsi.
Guardiamoci attorno. Centinaia di migliaia e milioni di persone, soprattutto giovani, sono rimasti attratti dalla figura del Papa appena deceduto e sono sfilati davanti alla sua bara. Gruppi sempre più vasti di popolazione si interrogano su se stessi e cercano guide spirituali. Il laicismo imposto con la legge è sempre meno accettato.
La tolleranza vissuta come indifferenza è sempre più respinta. Molti laici si cimentano con problemi un tempo relegati a mere questioni private di fede. L’indifferenza etica è sempre meno tollerata. E nascono tante domande e tanti dubbi. Ad esempio, se sia davvero tollerante difendere il diritto alla moschea o al velo o agli altri simboli per gli immigrati senza chiedere il rispetto reciproco dei propri luoghi e simboli di culto cristiano.
Se sia veramente liberale togliere il crocifisso dalle scuole. Se sia veramente laico conferire pari dignità etica a tutte le culture. O perché un gay pride sia considerato una manifestazione di identità mentre una processione cattolica un residuo folcloristico. O perché sia più disdicevole offendere la religione degli altri che la propria.
Il fenomeno è innegabile ed è in crescita. E pone problemi nuovi. Come orientarci in questo risveglio religioso che coinvolge anche le coscienze dei laici, almeno di coloro che sanno distinguere la laicità dal laicismo? Come trattare questo fenomeno che mette in discussione l’assioma a lungo mantenuto della teoria delle relazioni internazionali, secondo cui la religione è un fatto privato irrilevante?
2. La separazione come imperativo
Per evitare di trovarci impreparati, dobbiamo ripensare quelle categorie interpretative del mondo che si sono affermate con la cultura di Westfalia e che abbiamo bevuto col latte materno. In particolare, dobbiamo interrogarci sul principio di separazione e cercare risposte nuove e diverse da quelle della frammentazione, della ghettizzazione e della incomunicabilità delle competenze, delle fonti e delle autorità cui alla fine esso ha dato luogo. Personalmente, come contributo alla discussione, avanzo le risposte che seguono.
In primo luogo, non dovremmo mettere in discussione la separazione fra Stato e Chiesa. Al contrario, questa separazione dobbiamo mantenerla, perché è preziosa per la nostra convivenza e tolleranza. Gli Stati teocratici, quelli in cui il precetto religioso è legge statale, sono dispotici e illiberali, e comunque sono più dispotici e più illiberali degli Stati democratici.
In secondo luogo, non dovremmo respingere la separazione fra politica e religione. La proliferazione dei saperi e il loro progresso si deve a questa separazione, così come ad essa si deve una relativamente pacifica convivenza tra le sfere culturali separate. Se altri casi Galileo non si sono più presentati, neppure quando avrebbero potuto sorgere, si deve proprio, oltre che alla prudenza dei soggetti, allo spirito di convivenza che la separazione ha indotto.
E però, in terzo luogo, dopo tanta desuetudine e di fronte al fenomeno della rinascita religiosa, dobbiamo tornare a porci una domanda. Che cosa, propriamente, significa “separazione”? Due risposte credo dovrebbero essere escluse.
La prima: separazione non può significare divisione. Ciò è impossibile in linea di principio e anche di fatto. Si consideri, ad esempio, un legislatore che sia chiamato a definire un reato, poniamo l’omicidio. Questo reato individua un disvalore sociale (sopprimere le persone), questo disvalore si definisce in relazione ad un corrispondente valore (rispettare le persone), e il valore a sua volta richiede la propria giustificazione.
Dove risiede questa giustificazione del valore? In una società di tradizione cristiana come la nostra, alla fine, il reato di omicidio rimanda al comandamento divino “Non uccidere”. Ma ciò significa che la sfera della legislazione politica non è di fatto, né può essere per principio, divisa dalla sfera della fede religione. Se all’inizio non ci fosse quel comandamento divino, alla fine non ci sarebbe quella norma penale.
Qui occorre essere attenti a non fraintendere. “Non uccidere” non è una norma di legge perché “Non uccidere” è una norma di fede giudaico-cristiana. Non siamo di fronte ad un comandamento religioso che abbia immediato corso e valore nel campo penale. Il cammino è assai più lungo e complesso. All’origine abbiamo una legge divina, mosaica, che afferma un valore; questo valore diventa credo di individui e patrimonio di popoli; questo credo e patrimonio generano una cultura; quella cultura reclama diritti; e alla fine quei diritti reclamati diventano norma positiva.
La separazione fra religione e politica resta, perché la norma positiva penale è dettata dallo Stato e non da un’autorità religiosa, ma, dalla sequenza dei fatti, risulta chiaro che la separazione non è divisione, è piuttosto contiguità, lenta assimilazione, graduale assorbimento.
Vediamo la seconda risposta. Più o meno per le stesse ragioni per cui separazione non significa divisione, non significa neppure estraneità. Si consideri un altro caso, quello del legislatore che deve prendere posizione in un qualunque tema di spiccato contenuto etico, come sono oggi quelli di bioetica. In base a che cosa deciderà?
Se è un legislatore democratico e non dispotico, deciderà in base ai sentimenti più diffusi, alle opinioni più radicate, alle convinzioni più sentite e dunque in base ai valori più accettati e condivisi nella società, compresi i valori religiosi. Se la separazione fra religione e politica significasse estraneità dell’una all’altra, il legislatore non avrebbe princìpi cui riferirsi e con cui decidere.
In generale, vale una regola: una religione, la quale sia divenuta costume e pratica e abito, inevitabilmente tracima oltre la soggettività, va oltre la sfera privata degli individui, investe i corpo sociale. E quella religione che fosse diventata modo di essere civile tracimerebbe più di tutte, perché i suoi insegnamenti diventerebbero costumi civili, al tempo stesso politici e religiosi.
Ma, allora, se non è né divisione né estraneità, come altrimenti dobbiamo considerare la separazione fra politica e religione? Credo che il modo intellettualmente più appropriato e praticamente più utile sia di concepirla come un imperativo o un avvertimento: non oltrepassare un certo limite perché altrimenti i valori della tolleranza, del rispetto, della convivenza sono a rischio.
Così inteso, il principio di separazione fra religione e politica dice che c’è un certo limite oltre il quale una fede religiosa trasportata nell’ ambito politico produce intolleranza e diminuisce la libertà di tutti e ciascuno. Il principio di separazione però non fissa quel limite in astratto e una volta per tutte. Esso non dice dove deve essere posto. Il “dove” – ad esempio, dove la scienza si deve fermare davanti alla religione o dove il diritto si deve fermare davanti alla morale – è un punto da stabilire di volta in volta, è un confine che si sposta continuamente con il cambiare storico delle circostanze, delle convenienze, delle opportunità, delle sensibilità.
È a causa di questo spostamento che ciò che oggi, su un determinato tema, ad esempio di bioetica, sembra una interferenza intollerabile della religione sulla politica o sulla scienza, domani potrà apparire una convivenza opportuna, o al contrario, ciò che oggi sembra una tolleranza reciproca conveniente domani potrà essere avvertito come una intrusione e una prevaricazione inaccettabile.
Insomma, il principio di separazione pone la laicità dello Stato e della politica come consapevolezza di un limite da non oltrepassare. Ma il limite è affidato alla nostra prudenza. Laico è quello Stato che avverte l’esigenza di questo limite, e prudente è quello Stato laico che, al momento giusto, fissa il confine al punto giusto.
3. Una sfida per laici e credenti
La domanda che ora mi pongo è: noi politici e intellettuali e cittadini degli Stati europei lo stiamo mettendo, questo limite, nel confine giusto? Abbiamo consapevolezza che la cultura separatista di Westfalia è in crisi e perciò occorre dare spazio diverso ai sentimenti religiosi dei nostri popoli?
Per quanto riguarda l’Europa, la risposta è dubbia. Posti di fronte alle domande: “Chi sei tu, vecchio Continente?”, “Chi fur li maggior tua?”, “Sei ancora il continente cristiano di Pietro e Paolo, di Cirillo e Metodio, di San Benedetto, e di tanti altri protagonisti della evangelizzazione?”, i cento padri della Costituzione europea hanno preferito tirarsi fuori d’impaccio e imboccare la vecchia strada della separazione.
C’è un punto che – assieme al rifiuto del richiamo alle radici giudaico-cristiane nel Preambolo del Trattato – la dice lunga su come il laicismo degli Stati abbia volentieri imposto e le Chiese, compreso quella cattolica, abbiano forse altrettanto volentieri accettato la vecchia cultura della separazione. È l’art.52 del Trattato costituzionale europeo. Esso dice: «L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui godono negli Stati membri, in virtù del diritto nazionale, le chiese e le associazioni o comunità religiose».
Che cosa significa? Significa che l’Unione europea tutela diritti temporali di chiese o associazioni. In altri termini, significa che l’Unione rispetta, nei singoli Stati membri, le religioni in essi ammesse secondo le modalità in essi stabilite. In altri termini ancora, significa che l’Europa del 2004 torna a qualcosa di simile all’Europa del 1555, quella della pace di Augusta: cuius regio, eius religio.
Questa oggi è la formula separatista dei concordati. Che questa formula sia andata bene agli stati laicisti si comprende, perché per i laicisti la religione deve essere un fatto privato che non si può esibire in pubblico e che vale un prezzo del prelievo fiscale purché non si esibisca in pubblico.
Che questa formula sia stata accettata dalle Chiese europee, anche dalla Chiesa cattolica, forse si comprende pure, non solo perché i benefici temporali sono sempre attraenti, ma anche perché essi consentono quel tanto di autonomia che è necessaria alla missione.
Ma che la formula concordataria dell’art.52 basti a dare forma istituzionale, cittadinanza politica, accoglienza civile alla rinascita religiosa europea è fortemente da dubitare. E credo che dovrebbero dubitarne tutti. I laici, che dovrebbero essere interessati a non vedere affievoliti tanti valori di convivenza che hanno radici cristiane. E i credenti, che dovrebbero riflettere su quali modi, strumenti, spazi, diversi da quelli temporali e concordatari consueti, si aprono oggi alla propria fede. Gli uni per non ricadere in quel laicismo che li sta narcotizzando. Gli altri per sfuggire dal ghetto in cui si sono rinchiusi.
Per operazioni di questo genere, dall’una e dall’altra parte occorre coraggio. E purtroppo, tanto coraggio in giro non c’è. Avverto piuttosto un senso di resa. Oggi l’uomo europeo e occidentale sembra un penitente che si batte in continuazione il petto. Se ci sono fondamentalisti e terroristi che gli hanno dichiarato la jihad, allora – pensa il penitente – deve esserci una ragione. Se c’è una ragione, allora essa nasce da uno squilibrio sociale.
Se c’è uno squilibrio sociale, allora qualcuno l’ha provocato deliberatamente. Se qualcuno l’ha provocato deliberatamente, allora l’Occidente nazionalista, imperialista, colonialista è colpevole. E se l’Occidente, alla fine, è colpevole di aver provocato la jihad, allora si merita la jihad.
Adottando questo modo di ragionare, l’Occidente trova sempre un “ma” per bloccarsi, paralizzarsi, giustificarsi. Alcuni gruppi islamici ricorrono al terrore? Brutta cosa, ma l’imperialismo americano è di per sé terroristico. Rapiscono e uccidono? Azione certamente da condannare, ma si dimentica che sono resistenti che trattano bene gli uomini e le donne di pace. Ricorrono a kamikaze? Azione esecranda, non c’è dubbio, ma lo fanno per disperazione.
Io credo che questo modo di pensare e agire debba essere respinto. Soprattutto ora che, anche in Europa, la rinascita religiosa torna a riaffacciarsi nelle coscienze individuali e a voler reclamare i suoi diritti nella società, la cultura della resa non rappresenta solo un freno alla nostra identità. Essa è anche un abbassamento delle nostre difese di fronte all’esplosione, talvolta violenta e intollerante, delle identità altrui.
Il dialogo fra credenti e laici, soprattutto laici liberali, che da noi, in Italia più che altrove, è cominciato in modo promettente dovrebbe aiutare a respingere la cultura della resa e dell’indifferenza. Ma un dialogo, se è autentico, è una sfida intellettuale che richiede coraggio da entrambe le parti. Ce l’hanno, questo coraggio, i laici o si sentono ancora confortati dai pigri recinti di Westfalia? Ce l’hanno, lo stesso coraggio, i credenti o si sentono ancora protetti dalle gabbie dei concordati? Vogliono gli uni e gli altri procedere in mare aperto, confrontarsi davvero, interrogarsi davvero, mettersi in discussione davvero?
Io spero di sì, che lo vogliano, perché la posta è alta: con la nostra identità, è in gioco il nostro futuro.