Articolo pubblicato su Il Secolo d’Italia 5 ottobre 2001
Anni ‘80, si scatena la bufera Allah
Ricostruendo la genesi dell’integralismo islamico /2
di Aldo Di Lello
I dottori della legge egiziani, gli ulema, da sempre ostili al radicalismo di Qutb, operano una scelta opposta rispetto à quella dei mullah iraniani. Il messaggio degli integralisti egiziani rimane confinato solo agli studenti e ai sottoproletari. L’«onda d’urto» khomeinista si estende comunque ben al di là dell’Egitto. Nel 1982, gli integralisti siriani provano a rovesciare il regime di Assad, il nazionalista arabo amico di Mosca. La rivolta verrà repressa brutalmente. Nella città di Hama sarà una carneficina.
In generale, nei primi anni Ottanta, gli integralisti musulmani rimangono vittime della loro tragica ingenuità. Osserva Kepel: «I movimenti di ri-islamizzazione dall’alto, che all’inizio degli anni Ottanta pensano di impadronirsi facilmente del potere si rinchiudono in una logica golpista e molto minoritaria nel mondo sunnita mentre i loro compagni sciiti s’impossessavano del potere» (dal »Corriere della Sera» del 15 marzo 1992). La situazione sociale nei Paesi arabo-musulmani, in piena esplosione demografica, rimane però incandescente e gli integralisti soffiano sul fuoco. Scoppiano sommosse in tutto il Nordafrica: «Queste sommosse – annota Bruno Etienne chiamate ”sommosse della fame” o “del pane” sono scoppiate in situazioni identiche.
Stessa causa: la Banca mondiale esige che il paese indebitato metta ordine nelle sue finanze, il che implica una riduzione delle sovvenzione di prodotti alimentari di prima necessità; stesse tecniche di guerriglia urbana, stesse forme di saccheggio (vengono presi di mira principalmente le Mercedes e gli edifici moderni) e stesse spiegazioni fornite dai governi: la mano dello straniero». Questa volta però c’è una novità: questa mano non è dell’Occidente, «ma, a seconda dei casi, anche di Gheddafi o di Khomeini» («L’islamismo radicale», Rizzoli 1988).
In Algeria, gli integralisti islamici scelgono un’altra strada: quella della penetrazione paziente e silenziosa nella società civile. Le velleità golpiste. sono abbandonate: gli islamisti radicali tentano di catturare il consenso dei più poveri attraverso iniziative, per così dire, di volontariato sociale. Gli islamisti algerini, rileva Kepel, «svilupparono un’importante rete nei quartieri abbandonati, nelle bidonville, e vi crearono numerosi servizi sociali marcati da una rigorosa obbedienza religiosa. In seguito a questa operazione si costituì quella nebulosa che doveva diventare più tardi il Fronte di salvezza islamico».
Questa operazione diede i suoi frutti alla fine del decennio. Fu la «società civile che il Fis capitalizzò al momento dei suoi successi alle elezioni municipali del giugno 1990 e al primo turno delle elezioni amministrative del 26 dicembre del 1991». Ma anche qui la mancanza di un clero schierato con gli islamisti risultò determinante. La reazione del potere politico fu decisa e il golpe militate assestò un colpo mortale alle aspirazioni degli integralisti. Il popolo algerino però non si ribellò. Nessun ulema lo incitò alla rivolta. La reazione degli islamisti fu, come è noto, feroce e, a tratti, terrificante.
I «benefattori» degli anni Ottanta si trasformarono, nel decennio successivo, in un vero incubo per il loro popolo, abbandonandosi a una raccapricciante serie di stragi che fecero inorridire l’opinione pubblica internazionale. L’unico paese in cui gli islamisti risultano vittoriosi è il Sudan, la terra del Mahdi, che sconfisse gli inglesi del generale Gordon suscitando un’enorme impressione mondiale alla fine dell’800. A Khartoum gli integralisti riescono a conquistare il potere nel 1989 attraverso un golpe. Gli uomini chiave del regime islamico sudanese sono Omar al Bashiir il leader, e Hassan al Toùrabi, l’ideologo.
Il loro successo, spiega sempre Kepel, è la conseguenza di un lungo lavoro di infiltrazione nell’apparato dello Stato, dell’esercito e del sistema finanziario da parte dell’intellighenzia islamista, in connessione con una borghesia religiosa emergente». Quella di Khartoum è insomma una «rivoluzione dall’alto» e assomiglia alla presa del potere in Palkistan del generale Zia ul-Hac, un seguace dell’ideologo islamista Mawdudi che nel 1977 aveva destituito Ali Bhutto. Sia in Pakistan sia in Sudan «una parte della gerarchia militare aveva adottato l’ideologia islamista e assicurato così la vittoria del movimento, evitando però di far ricorso alla gioventù dei ceti urbani poveri, le cui rivendicazioni sociali sono sempre foriere di rovesciamenti incontrollabili dell’ordine costituito».
La strategia di Bashir e Tourabi è diversa da quella dei loro «confratelli» egiziani e algerini, ma l’obiettivo è lo stesso: l’instaurazione della «legge islamica» e la cancellazione violenta di ogni traccia di secolarizzazione nel Paese. La «rieducazione» islamica è brutale. «La tortura delle persone interrogate e condotte nelle ghost houses, le case fantasma dei servizi di sicurezza, divenne una pratica corrente, denunciata dalle organizzazioni internazionali, ma di cui Tourabi doveva minimizzare la portata, attribuendola all’”estrema sensibilità dei sudanesi”». A subire le conseguenze della shari’a sono soprattutto i cristiani. Il Sudan è Paese multietnico e multiconfessionale: al Nord arabo-musulmano si contrappone un Sud animista e cristiano. La politica di Bashir e Tourabi è l’esatto opposto dell’ecumenismo.
In Sudan vengono chiuse missioni, chiese, scuole cattoliche. I missionari cristiani espulsi dal regime raccontano che i generali islamici distribuiscono gli aiuti umanitari alle popolazioni più povere in base alla confessione religiosa: per molti sudanesi, la conversione all’islam non è un bisogno religioso ma una necessità alimentare. In nessun luogo, come nelle terre in cui impera la shari’a, il rispetto dei diritti umani è diventato una barzelletta. Il bello (o il brutto) della faccenda e che gli islamisti, quando si trovano nelle conferenze internazionali, si fanno paladini dei «popoli oppressi del Terzo Mondo» contro il «nuovo colonialismo dell’Occidente».
La tragicommedia di Durban di qualche settimana fa è la rappresentazione più fedele di questa ipocrisia disastrogena. E l’Occidente cosa fa, come reagisce all’onda montante e impetuosa dell’ideologia islamista negli anni Ottanta? Non reagisce affatto. Fa finta di nulla. Osserva con sufficienza, arrampicato sulla vetta dei propri alti livelli di reddito, la bufera che si sta abbattendo su una grande area, culturale prima che geografica, della Terra. L’integralismo? Quando non produce episodi sanguinosi, rimane un fatto «folkloristico», un bizzarro prodotto storico che verrà spazzato via, presto o tardi, dalla modernizzazione planetaria. Non mancano certo studiosi (come i Kepel, gli Etienne o i Bernard Lewis) che lanciano l’allarme, che mettono in risalto l’estrema complessità del problema.
Ma, ancora negli anni Novanta, l’opinione pubblica occidentale continua a non essere attrezzata per capire la «rinascita islamica». Il cosmopolitismo e il globalismo non ammettono la possibilità che i «grandi spazi» di civiltà obbediscano, ciascuno, a leggi diverse, leggi che provengono dall’identità storica. Tra le tante opinioni che rivelano l’impreparazione della cultura occidentale, scelgo come emblema questa frase di Alberto Jacovello, tratta da un ingiallito ritaglio de «la Repubblica» del febbraio 1992: «Nessuno ha mai spiegato che cosa abbiano in comune il Pakistan e l’Algeria e dunque quale potrebbe essere, oltre alla religione, il cemento reale che dovrebbe tenerli insieme». Già cos’hanno in comune il Pakistan e l’Algeria? «Oltre alla religione» non molto, ma la religione è già abbastanza.
(Le puntate sono state pubblicate il 4, il 5, il 10 , l’ 11 e il 12 ottobre)