Abstract: come nasce l’integralismo islamico. Quando si parla di “moderati” bisognerebbe sempre ricordarsi che si tratta dì un’espressione di comodo, un termine che non indica affatto un’identità politica «Moderatismo» una categoria tipicamente occidentale che può risultare utile soltanto per stabilire il grado di vicinanza di questo o quel governo al sistema politico europeo o americano. Ma in se, applicata al Medio Oriente o al Nordafrica, non vuol dire granché
Articolo pubblicato su Il Secolo d’Italia dell’11 ottobre 2001
Misteri sauditi
Ricostruendo la genesi dell’integralismo islamico / 4
di Aldo Di Lello
Si fa presto a dire «moderati» Quando si applica questa etichetta alla gran parte degli Stati arabi! Bisognerebbe sempre ricordarsi che si tratta dì un’espressione di comodo, un termine che non indica affatto un’identità politica «Moderatismo» una categoria tipicamente occidentale che può risultare utile soltanto per stabilire il grado di vicinanza di questo o quel governo al sistema politico europeo o americano. Ma in se, applicata al Medio Oriente o al Nordafrica, non vuol dire granché
«Moderati» sono i governi dell’Egitto, della Giordania, del Marocco, della Tunisia. «Moderati» sono anche i governi della penisola arabica Ma tra gli uni e gli altri, esistono differenze abissali Mubarak e Ben ‘All sono politici laici, o per lo meno provengono da un’ideologia laica, il panarabismo. E laico, non che panarabista, è anche lo stravagante Gheddaffi Ma è tutt’altro che un moderato, aldilà dell’eccitante approvazione che ha espresso riguardo all’intervento americano contro i Talebani.
L’Arabia Saudita di re Fahd è, viceversa, il Paese moderato» per eccellenza, il bastione più solido dell’Occidente in Medio Oriente. Ma è l’esatto opposto di un Paese laico In Arabia Saudita si rischia l’arresto se dal proprio collo pende una catenina con il crocifisso, Non c’è nulla di più distante dall’Occidente che il wahhabismo imperante tra i sauditi, R. A. Segre ha descritto così, su «il Giornale», il regime dire Fahd: «Il potere è una simbiosi di tribalismo (solo caso al mondo di uno Stato sovrano che porta il nome di un clan, quello dei Saud) e di una corrente religiosa puritana, legata anch’essa a un clan, quello di Al Wahab, in questo momento in fase di grossa crisi morale e ideologica».
Tutto questo per dire che il mondo politico arabo musulmano che combatte l’islamismo radicale fin dai suo sorgere lo fa, al di là delle ragioni di convenienza politica, per motivi del tutto diversi.
Se l’Egitto di Mubarak è «geneticamente» ostile agli integralisti per regioni di incompatibilità ideologica, non altrettanto può dirsi dell’Arabia Saudita dove il motivo di conflitto è soltanto politico, dove gli islamisti sono considerati un fattore di destabilizzazione e di eversione, ma dove però l’ «islamizzazione della modernità», cavallo di battaglia degli ideologi della jihad è stata già realizzata (almeno apparentemente), non grazie a un’elaborazione politica particolarmente raffinata, ma in virtù del privilegio dì poter usufruire dell’immensa rendita petrolifera.
Di una mentalità. integralista, l’Arabia Saudita è il santuario, e non solo perché custodisce i «luoghi santi» dell’islam, ma anche per il fatto dì essere riuscita a officiare le nozze tra benessere e tradizione, tra telefono cellulare e Corano, tra antenne satellitare e shari’a. Che la modernità vera non sia questa, che dietro la tecnologia vi sia una cultura da assorbire criticamente o da inserire nel proprio sistema di valori, che la potenza di una nazione moderna nasce sempre da un’alta sintesi fra memoria del passato e visione futuro, tutte queste idee, che hanno per esempio permesso al Giappone shintoista di diventare la seconda potenza economica del mondo rimanendo fedele a se stesso, non sfiorano minimamente i principi del petrolio arabico.
Le ingenti risorse ricavate dalla vendita dell’oro nero sono un «dono dì Allah» come tali non vanno utilizzate per modernizzare l’intera economia e per sviti. colare il meccanismo di produzione della ricchezza dalla dipendenza petrolifera. Finiscono tutte nello sfarzo da «Mille o una notte» e in una gigantesca macchina mangia-soldi. La penisola arabica poteva davvero diventare la «locomotiva» dello sviluppo mediorentale. E si è invece rivelata un luogo di contraddizioni esasperate, una zona d’ombre sempre più ambigua, un pianeta misterioso e impenetrabile. Re Fahd, garante del patto di ferro tra Arabia Saudita e Occidente, è anziano e malato. Il Regno è affidato al reggente, il principe Abdullah. L’amicizia tra la dinastia wahhabita e gli Usa è solida e strutturale Tale rimarrà, per quel che ne sappiamo, anche in futuro.
Ma le lacerazioni prodotte, dieci anni fa, al tempo della guerra del Golfo, non si sono ancora sanate. La presenza dei marines sulla terra dei “Luoghi santi” si è rivelata un’arma a doppio taglio, Ha rafforzato i sauditi rispetto ai nemici esterni, ma li ha anche costretti a fronteggiare nuovi nemici interni. Se la ricchezza viene da Allah, la stabilità politica può venire dall’America?
La contraddizione, nella terra del wahabbisnio, nella terra in cui s’affermò, fin dall’Ottocento, il puritanesimo integrale dei Profeta, una tale contraddizione, nel luogo da cui partono, da decenni, sovvenzioni, per la costruzione delle moschee di tutto il mondo, non poteva essere più drammatica. Il dissenso dei «punisti» dei «Luoghi santi» si manifestò clamorosamente nel maggio del 1991 con una «lettera di rimostranze» che centosette predicatori e accademici islamici inviarono a re Fahd. Il «movimento», se lo vogliamo chiamare così, era capeggiato da due giovani e dinamici imam. Gilles Kepel ce li descrive così: «Due predicatori, in particolare, i cui sermoni venivano diffusi tramite cassetta, si distinsero per la virulenza delle loro critiche contro la presenza dei militari occidentali, considerati nuovi crociati. Il primo, Salrnan.al’Auda, di 36 anni, era l’imam di una moschea del contro agricolo di Burayda, nella, nella provincia del Qasim, vicino Riyadh, non molto toccata dal boom petrolifero; l’altro, Safar al Hawaii, di cinque anni più vecchio, era un promettente rampollo dell’establishment religioso saudita, formatosi all’università di Medina (gestita dal Fratelli Musulmani) e alla Mecca, membro di una famiglie appartenente a una delle tribù dominanti del regno».
Due anni dopo, altri sei esponenti religiosi, fondarono un’associazione che si proponeva di portare, anche all’estero, la voce del dissenso che stava montando nelle moschee e nelle università.
L’associazione si presentò al mondo con una denominazione dall’aria vagamente garantista: “Comitato per la difesa dei diritti legittimi. C’era solo un piccolo dettaglio: non si trattava dei diritti dell’uomo ma dei diritti di Allah. Non furono certo di iniziative capaci di minare la stabilità del Regno. Ma era comunque grave che le basi religiose della legittimità politica saudita cominciassero a essere messe in discussione. E vale la pena ricordare che, in questo clima di dissenso politico-religioso, nel saudita jihadista Osama Bin Laden montò sia l’odio antiamericano sia l’irriducibile opposizione al regime di re Fahd Lo sceicco del terrore aveva ereditato un patrimonio dì oltre seicento miliardi ma la sua organizzazione ricevette aiuti da alcuni «benefattori» sauditi. Se dalle moschee si levava la riprovazione degli imam, dalla ricchezza di Allah cominciavano a partire schegge di guerra santa.
Con il tempo, queste «schegge» sì sono fatte sempre più consistenti. Osserva Antonio Ferrari sul «Corriere della Sera» del 23 settembre: «Proprio dietro quel flusso di denaro, generosamente inviato da singoli sostenitori del radicalismo islamico più estremo, si nascondono probabilmente alcune radici della nebulosa finanziaria che ha consentito a Bin Laden e ai suoi di diventare la prima vera multinazionale del terrore».
Lampi minacciosi compaiono ogni tanto nell’immobile cielo d’Arabia. Salman. al. Auda è in carcere da setto anni, al pari del suo sodalo Safar al Hawali. Ma continua a lanciare messaggi inquietanti. «É riuscito – scrive Guido Olimpio sul “Corriere della Sera” del 5 ottobre – a far uscire dalla sua cella una cassetta registrata, il “sermone della morte”; dove invita gli intellettuali sauditi al martirio contro i “crociati”».
C’è qualcosa di strano, di incomprensibilmente vischioso, nel modo in. cui l’intero sistema saudita fronteggia l’aggressione dell’islamismo estremista. Nell’agosto scorso è stato silurato iI capo dei servizi segreti, il principe Al Turki. «A lui – scrive sempre Olimpio – era stato affidato il compito dell’arresto di Osama Bin Laden e di tagliare i finanziamenti economici ai fondamentalisti. Al Turki non ha fatto nessuna delle due cose. E per giunta ha permesso alla madre di Osama di partecipare alle nozze di suo nipote, il figlio di Bin Laden, nel rifugio di Kandahar» Giulietto Chiesa, nel quaderno speciale di «Limes» dedicato alla guerra del terrore, paventa addirittura la presenza di una «Cupola» al di sopra di Bin Laden. Ne farebbero parte «alti finanzieri del petrolio», «feroci rampolli di dinastie minacciate», «commercianti miliardari che vivono nel mercato capitalistico senza essersi mai convertiti alla idee dell’Occidente».
Forse si tratta di un’ipotesi azzardata, tipica espressione del «complottismo» di una parte delle stampa italiana. Certo è che l’Arabia Saudita appare avvolta in un alone di mistero sempre più fitto e condizionata da un umore sempre più nero.
Nero come il petrolio di Allah
(Le puntate sono state pubblicate il 4, il 5, il 10 , l’ 11 e il 12 ottobre)