I diversi modelli di Stato, i contrasti a proposito della libertà religiosa e della presenza della religione nella vita pubblica, risalgono alle origini delle due rivoluzioni, la francese e l’americana.
di Marco Respinti
E’ questa, peraltro, l’origine del “mito” secondo cui gli Stati Uniti configurerebbero un Mondo Nuovo sorto dalle ceneri di quello Vecchio, finalmente consegnato a dolose fiamme rigeneratrici; una nuova era che si lascia alle spalle il tempo antico dell’oscurantismo; un orizzonte votato al futuro, che tritura come uno schiacciasassi tutto quanto ancora in qualche modo lega a ciò che fu.
L’idea è ben radicata nell’immaginario culturale comune odierno, plasmato da una mentalità di tipo sostanzialmente illuministico, e ha conosciuto momenti di notevole rafforzamento per effetto della propaganda di tipo socialcomunista. Che gli Stati Uniti siano stati il più acerrimo nemico del pensiero marxista-leninista nel secolo XX è infatti dovuto al fatto che proprio il pensiero marxista-leninista ha dapprima accettato e poi “autorevolmente” sanzionato la lettura illuministica del “fenomeno America”.
Eppure gli americani, gli statunitensi veri, affermano tutt’altra cosa. Ossia che gli USA non nascono nel solco della medesima tradizione culturale che porterà al Terrore giacobino e che di questa essi non costituiscono nemmeno una versione moderata. Addirittura che la loro matrice è l’esatto contrario del giacobinismo, persino dell’illuminismo.
Una vita paradigmatica
A sottolineare con efficacia la grande differenza che separa l’alba degli Stati Uniti dalla nascita della Francia contemporanea vi è, per esempio, la figura di don Gabriel Richard, nato in Francia il 15 ottobre 1767. Ordinato sacerdote sulpiciano, insegnò matematica in seminario, ma la rivoluzione scoppiata nel 1789 ne interruppe la carriera. Erano gli anni delle persecuzioni contro il clero, della soppressione degli ordini contemplativi, delle violenze contro i religiosi e addirittura contro i semplici fedeli.
Temendo per la vita del sacerdote, nel 1791 il suo superiore inviò don Richard nel Nuovo Mondo. Qui egli servì per alcuni anni fra i missionari impegnati nell’evangelizzazione degli indiani insediati nel territorio dell’attuale Illinois e poi, nel 1798, si stabilì, 31 enne, a Detroit, nell’attuale Michigan, assumendo la cura pastorale della parrocchia di Sant’Anna. Originariamente terra di colonizzazione francese (come gran parte di quel Midwest che attraversa perpendicolarmente gli attuali Stati Uniti e di cui era parte integrante la Louisiana di allora, dai Grandi Laghi al Golfo del Messico, territorio ben più vasto dello Stato dell’Unione che oggi porta lo stesso nome), Detroit contava su una popolazione di circa 1.200 abitanti, metà dei quali francesi.
Ma “forse i contributi maggiori di don Richard sono stati quelli dati alla vita patriottica e politica” degli Stati Uniti. Così affermava l’allora arcivescovo di Baltimora, nel Maryland, monsignor Francio P. Keough, introducendo The Spirits of Politics and the Future of Freedom di Ross J.S. Hoffman – docente di Storia alla Fordham University, l’ateneo dei gesuiti a New York, e fra i pionieri della riscoperta del pensiero dell’angloirlandese Edmund Burke in chiave giusnaturalista classica e cristiana – ovvero un piccolo ma sapido volumetto, edito nel 1950 da The Bruce Publishing Company di Milwaukee, nel Wisconsin, in cui veniva pubblicato il testo di una conferenza svolta dall’autore come “The Gabriel Richard Lecture” di quell’anno. Sponsorizzata da The National Catholic Educational Association e dall’Università di Detroit, la conferenza – e quindi il testo pubblicato – affronta fra l’altro anche il tema delle differenze fra rivoluzione di Francia e la cosiddetta “rivoluzione americana”.
Parroco, educatore, fondatore d’istituzioni culturali – fra cui, nel 1817 una università nel territorio che poi sarebbe divenuto lo Stato del Michigan, chiamata “Catholepistemiad of Michigan”, di cui fu vicepresidente, lasciando la presidenza a John Monteith, ministro di culto protestante e suo buon amico – nella guerra del 1812 fra Stati Uniti e Gran Bretagna si schierò decisamente con i primi, ricordando di avere prestato giuramento alla costituzione del Paese. Imprigionato dai britannici, profuse notevoli sforzi per evangelizzare gli indiani loro alleati.
Fu del resto per intercessione di Tecumseh, il famoso capo della tribù degli shawnee, che don Richard venne liberato: Tecumseh, infatti, disse che non avrebbe più preso le armi a fianco dei britannici se prima non fosse stata restituita la libertà al sacerdote. Poi, nel 1823, don Richard fu eletto al Congresso degli Stati Uniti come rappresentante del Territorio (diverrà il 26° Stato nell’Unione nel 1837) del Michigan, rappresentando un’area che al tempo comprendeva anche i futuri stati del Wisconsin e dell’Iowa, nonché parte del Minnesota e dell’Ohio.
Peraltro, don Richard sarebbe forse divenuto il primo vescovo del Michigan se non fosse stato per una controversia con un suo parrocchiano che gli procurò guai seri. Nel 1832, infine, prodigandosi per assistere i malati di colera durante una epidemia che aveva colpito la zona di Detroit, morì il 13 settembre.
Un prussiano fra americani e francesi
Gli Stati Uniti, insomma, diversissimi dalla Francia rivoluzionaria, permettevano a un sacerdote cattolico, e per di più francese, una esistenza come questa. Che la rivoluzione illuministico-giacobina di Francia fosse il nemico giurato del nuovo Stato nordamericano lo testimoniò del resto bene il fatto che il governo di Washington, allora retto dal partito dei Federalisti (quello di Gorge Washington, di John Adams e di Alexander Hamilton, per intenderci), nell’estate del 1798 varò addirittura una serie di leggi, note complessivamente con il nome di “Alien and Sedition Acts”, che, per quanto controverse, erano direttamente indirizzate a limitare l’ingresso nel Paese degli stranieri e in particolare dei giacobini francesi.
Del resto, Alexander Hamilton fu chiarissimo nello stigmatizzare Lo spettacolo della Francia rivoluzionaria – come s’intitola un suo intervento scritto del 7 aprile 1798 – costituito dal “tentativo da parte dei governanti di una nazione di distruggere ogni idea religiosa e di pervertire una nazione intera verso l’ateismo”. Nella coscienza dei Padri fondatori degli Stati Uniti, insomma, il modello illuministico-giacobino francese era la maledizione da fuggire con ogni mezzo.
I documenti fondativi degli Stati Uniti, infatti, in primis la Costituzione federale (che del Paese costituisce la vera ossatura istituzionale e che racchiude l’identità politico-culturale della nazione), si basano su una idea di diritto naturale derivante direttamente dalla sua concezione tradizionale classica e cristiana, la quale deve davvero poco alla rielaborazione dello stesso (in gran parte una perversione) operata dal pensiero razionalistico, che invece è del tutto palese nei documenti pubblici varati durante la rivoluzione di Francia.
Su questa base, la religione – e la religione cristiana, ancorché varie e diversificate fossero e siano le confessioni presenti sul suolo nazionale – non solo non era considerata un ostacolo alla vita pubblica statunitense, ma anzi – come osserverà Alexis de Tocqueville a metà del 1800 – costituiva il fondamento stesso della democrazia nordamericana, impedendone la deriva relativistica e il trasformarsi in tirannia della maggioranza.
Ma l’analisi forse più puntuale, non fosse altro che per la capacità di stabilire un punto fermo della ricerca, è quella contenuta in un testo pubblicato a Berlino nel 1800 da Fredrich von Gentz e tradotto in lingua inglese con il titolo The American and french Revolutions Compared da John Quincy Adams, futuro presidente degli Stati Uniti. Von Gentz era allora un giovane letterato prussiano che, da studente d’Immanuel Kant, si era spostato su posizioni antirivoluzionarie leggendo (e poi traducendo in tedesco, a Berlino, nel 1793) le note Riflessioni sulla rivoluzione di Francia di Burke, la prima critica organica della sovversione giacobina, per poi divenire, all’epoca della Restaurazione, uno dei maggiori consiglieri del principe Klemens von Metternich.
Quella che le colonie britanniche dell’America Settentrionale – afferma documentatamene Von Gentz – svolsero contro la Gran Bretagna fu anzitutto e soprattutto una guerra d’indipendenza atta a conservare lo spirito giuridico e, nell’insieme, culturale della madrepatria, e questo anche a costo – come fu – di una rottura istituzionale. Era cioè Londra che operava una vera e propria rivoluzione sovversiva della propria tradizione nella misura in cui negava ai coloni nordamericani il godimento di quelle libertà costituzionali che proprio l’ethos britannico ritiene di dover estendere a tutti i propri sudditi.
Come dimostra Von Gentz, i nordamericani miravano solo a preservare la tradizione costituzionale di cui erano parte, una tradizione al cui principio vi è una concezione dell’uomo e del governo della società fondato su canoni politici e culturali tipici del retaggio classico-cristiano, laddove Londra pareva invece essere caduta preda di una forma di assolutismo prettamente moderna.
Così, i nordamericani stavano, secondo la lettura di Von Gentz, affrontando preventivamente una rivoluzione in modo da impedirne lo svolgimento, anche se ciò costò loro il legame organico con la madrepatria. In questa ottica, dunque, i nordamericani incarnano un ideale antirivoluzionario, laddove Londra si fa alfiere d’innovazioni antitradizionali.