Articolo pubblicato su Il Secolo
di Aldo Di Lello
L’ultima di Montanelli è proprio grossa, talmente grossa che si stenta a credere che il venerando direttore de “La Voce” non abbia voluto fare una boutade. Rispondendo, nei giorni scorsi, ad un lettore ha scritto: «il mio dissenso ideologico con don Milani fu corretto, se non addirittura annullato, da una profonda ammirazione umana. E, ora che è morto, mi chiedo cosa aspetti la Chiesa a farlo santo».
Ai giovani che non conoscessero la famigerata “Lettera ad una professoressa dei ragazzi di barbina”, basterà soltanto dire che il “santo” in questione ha provocato tanti guai nella Chiesa quanti ne ha prodotti nella scuola. Don Milani è stato il perfetto prototipo di quel cattolicesimo “progressista” italiano che, sull’onda di una interpretazione di comodo del Concilio Vaticano II, ha pensato bene di coniugare il messaggio evangelico con l’utopia comunista, un sistema di errori e di equivoci che ha avuto effetti devastanti e di lungo periodo: riverberi di quella folle stagione sono ben visibili anche oggi in certe università cattoliche e persino in qualche arcidiocesi.
E fortuna che in questi ultimi giorni ci è stata dispensata, attraverso alcune importanti note dell’”Osservatore Romano” e dell’”Avvenire”, la saggezza millenaria della Chiesa, altrimenti le manovre destabilizzanti di Buttiglione avrebbero anche potuto assurgere a dignità culturale.
Ma quella di Montanelli, poteva anche rimanere una innocua battuta se non fosse intervenuto il quotidiano dei vescovi a fornire materiale all’eventuale causa di beatificazione. in un servizio a tutta pagina sono stati raccolti diversi pareri di autorevoli personaggi i quali, chi più chi meno, hanno tutti, con la sola eccezione di Cesare Cavalleri, fornito un ritratto lusinghiero del “prete rosso”: se tutto dipendesse da questo servizio di “Avvenire”, l’avvocato del diavolo farebbe davvero la figura del… povero diavolo.
Fortunatamente in questi mesi circola per le librerie italiane il bel volume di Michele Brambilla “Dieci anni di illusioni – Storia del Sessantotto” (Rizzoli ed. pp. 258 L.28.000), volume che proprio a don Milani e alla stagione dei “cattolici del dissenso” e dei “cattocomunismi” dedica un intero capitolo, presentando la corrente culturale a cui appartengono come uno degli elementi che spiegano la particolare virulenza assunta dal ’68 in Italia.
Per i più giovani o peri meno informati consigliamo di leggere alcune importanti definizioni di don Milani opportunamente riportate dall’autore. Una, e vale davvero la pena di proporla appartiene a Giovanni XXIII. Nel 1958, quando uscì “Esperienze pastorali”, primo volume di don Milani, così Papa Roncalli scrisse al vescovo di Bergamo Giuseppe Piazzi: «Ha letto, Eccellenza, la “Civiltà Cattolica” del 20 settembre circa il volume Esperienze pastorali? L’autore del libro dev’essere un pazzo scappato dal manicomio. Guai se si incontra con un confratello della sua specie. Ho veduto anche il libro. Cose incredibili».
Purtroppo don Milani incontrò altri confratelli e quel che è peggio incontrò, anche se in forma postuma, tante menti giovanili predisposte all’incendio nel “fatidico” Sessantotto. “Lettere ad una professoressa” divenne il vademecum del perfetto sessantottino, il breviario delle nostrane guardie rosse, la bomba molotov lanciata su un sistema scolastico che meritava, si, di essere radicalmente riformato, ma in senso modernizzatore, non nella direzione, del tutto demagogica, impressa da una classe di governo imbelle e invertebrata, una classe che promosse l’”asinocrazia” sull’onda di una piazza agitata da idee profondamente regressive.
Tali appaiono infatti le tesi pedagogiche di don Milani, il quale contestava il ruolo dei docenti, chiedeva l’abolizione della bocciatura, accusava la scuola di classismo. Queste idee, in un clima culturale intossicato, com’era quello italiano di quegli anni, potevano anche apparire “avanzate” e “progressiste”, mentre invece erano profondamente antimoderne, intrise di una ideologismo che rifiutava la cultura, idee più vicine al pauperismo di una media potenza del Terzo Mondo piuttosto che alle necessità di modernizzazione di una democrazia industriale.
Ed infatti la scuola di don Milani, con il suo radicalismo trovava un perfetto pendant nella “rivoluzione culturale” delle Guardie Rosse di Mao il cui verbo creava allora sconquassi in tante deboli intelligenze italiane.
Ma l’aspetto inquietante della “predicazione” di don Milani è anche un altro: l’invito all’odio di classe. Può una simile prospettiva definirsi cristiana? sempre Brambilla riporta nel suo libro un altro illuminante giudizio sul “prete rosso”, quello scritto da Alcide Cotturone su “Studi cattolici” in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di Milani: Lettere ad una professoressa «era una specie di libretto di Mao, dove erano concentrati odio di classe, populismo, proletarismo, operaismo demagogia, violenza ideologica e l’istigazione al linciaggio dei professori. Il manicheismo pauperistico portò don Dilani a quest’affermazione antievangelica: “Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare solo una classe”».
Più che pensare alla stravagante idea di Montanelli, sarebbe assai interessante riflettere sul ruolo, tutt’altro che marginale, assunto dai “cattolici del dissenso” nella parabola sessantottina e sulla pesante eredità che quell’esperienza ha lasciato tanto nella Chiesa quanto nella società italiana.
Risulta evidente innanzi tutto che don Dilani e il mondo di cui è rappresentante sono il frutto dell’ibridazione culturale tentata nell’immediato post-Concilio tra cattolicesimo e marxismo: l’illusione di “modernizzare” la religione attraverso gli strumenti del “socialismo scientifico”, illusione che oggi appare in tutta la sua fallacia, ma che trent’anni fa poteva anche risultare vincente, dal momento che pochi s’erano resi conto della crisi irreversibile del marxismo, crisi per certi versi contemporanea a quella delle filosofie della modernità.
Ma nell’analisi di Brambilla c’è anche uno stimolo in più e un significativo ampliamento della prospettiva. l’idea che al fondo della “contestazione cattolica” agiscano anche motivi “tradizionalisti”: l’ansia cioè di reagire alla modernizzazione capitalistica vista come un fattore primario di secolarizzazione. di qui anche una certa ambiguità del sessantotto che, se da un lato nasce da una spinta modernizzatrice, dall’altro si nutre anche del disagio morale e spirituale prodotto dalla modernizzazione e dalla secolarizzazione.
Spiega bene questo passaggio Vittorio Messori: «Noi pensiamo spesso il Sessantotto sotto una lettura modernizzante. ma in realtà l’anima del Sessantotto è in gran parte tradizionalista. nel senso che cercò di ritrovare certi valori che la modernità non dava più. pensiamo ad esempio al fatto che con il Sessantotto nacque un certo ecologismo: nacque cioè il desiderio di un mondo nuovo che non sta davanti ma dietro»
Il colossale abbaglio di don Milani, un abbaglio sostenuto in quegli anni anche da qualche pasticcio teologico, consistette probabilmente nell’identificazione rozza tra capitalismo e secolarizzazione e nella illusione di ritrovare i “valori”, sull’onda di un’ossessione pauperistica e millenaristica, attraverso l’incontro con il marxismo che pure di quei valori era la negazione più totale e radicale, anche se, quanto a pauperismo, aveva molto da offrire.
Il fallimento ideologico e politico del marxismo non ha dissolto l’eredità del cattoprogressismo perché non ha dissolto gli equivoci da cui è nato. rimane l’oscillazione tra l’idea di “modernizzare” il messaggio evangelico e, paradossalmente, la critica alla modernizzazione capitalistica. Questa tendenza si dispiega oggi su una vasta scala tonale che va dalla ricerca dell’accordo ad ogni costo con la cultura laico-progressista a quella del sincretismo religioso da realizzare attraverso l’incontro con la tradizione islamica.
Due tendenze apparentemente opposte, ma unite dalla ricerca di un “inveramento”del messaggio cristiano attraverso la sintesi con culture ad esso radicalmente avverse.
Un certo malinteso “tradizionalismo”, se non è sorretto da una corretta prospettiva controrivoluzionaria, si può cioè facilmente incontrare con il progressismo. e in questo senso è altamente istruttiva la vicenda di Lamennais, il quale risolve in “perfettismo” l’idea di “perfettibilità” pur presente in Bonald e in de Maistre e approda ad un «nuovo messianesimo tutto terreno», come osserva acutamente Teresa Serra in un saggio uscito nel 1977 (“L’utopia controrivoluzionaria”, titolo peraltro infelice giacché la controrivoluzione è a negazione radicale dell’utopismo).
Il problema oggi è che non risulta a molti chiara la distinzione tra modernità e modernizzazione. Non risulta cioè chiaro che sposare la filosofia del “progresso” è cosa diversa dall’atteggiamento da assumere nei confronti della modernizzazione, che non è un valore in sé ma un processo che richiede di essere guidato dai valori.