Articolo pubblicato su Il Giornale, del 10 novembre 2004
di Alberto Indelicato
Secondo lo Statuto delle Nazioni Unite, il Segretario generale «è il più alto funzionario dell’organizzazione». I suoi poteri discendono direttamente e sono limitati dagli altri due organi: il Consiglio di sicurezza e l’Assemblea generale. Ciò non significa che egli non goda di un’autorità sua propria, ma essa dipende sia dal prestigio che con la sua azione egli sa meritare (quando la sa meritare) che dalla corrispondenza tra le sue iniziative – e le sue parole – e l’opinione che sui singoli problemi si afferma in seno agli organi principali.
Egli, ad esempio, può sempre in base allo Statuto attirare l’attenzione del Consiglio di sicurezza su una determinata questione che possa mettere in pericolo la pace o la sicurezza internazionale, ma non assumere iniziative autonome, contrarie a quelle degli Stati.
Tuttavia, come avviene in molte organizzazioni, internazionali e non solo, chi si trova a dirigere l’Onu tende ad allargare il suo campo d’azione e più ancora di esternazione; e questa espansione è tanto più grande quanto minore è la sua capacità di eseguire i normali compiti istituzionali. La prova è sotto gli occhi di tutti. Gli insuccessi dei segretari generali sono stati numerosi e i successi molto limitati.
Naturalmente l’impotenza dell’Onu e del suo massimo funzionario ha spesso avuto origine dal disaccordo tra i membri del Consiglio di sicurezza e in particolare dei cinque Stati titolari del diritto di veto, che non riuscivano a mettersi d’accordo su una direttiva precisa. A volte invece è stata proprio l’iniziativa del segretario generale, quando si è sostituita a quella del Consiglio di sicurezza, magari associandosi implicitamente a uno dei suoi membri, a dimostrarsi improvvida e priva di efficacia, specie se si è trattato di porre termine a guerre intestine. L’Africa, in particolare, è un cimitero di interventi velleitari e inevitabilmente inefficaci.
Ora Kofi Annan ha ingiunto ai governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna di non sopprimere una rivolta, quella di Falluja, ignorando che esiste un governo iracheno, quello Allawi. Egli ha dunque preso non solo una posizione contraria a quella che ci si attendeva dall’Onu ma, ancor peggio, si è schierato dalla parte di quei ribelli che hanno ucciso tra gli altri un rappresentante dell’organizzazione mandato in Irak proprio in nome della pace e per ricostituire una legalità.
Kofi Annan ha finto di dimenticare che, a seguito di quell’assassinio e delle minacce rivolte agli altri funzionari internazionali, le Nazioni Unite si sono ritirate da quel Paese. Non si vede perciò a che titolo egli dia istruzioni al suo governo, appoggiando in conseguenza i ribelli. La sua ingiunzione è un’ennesima prova della crisi delle Nazioni Unite, che non riguarda, o non riguarda soltanto, il così detto «unilateralismo» degli Stati Uniti o la composizione indubbiamente antidemocratica del Consiglio di sicurezza.
L’unilateralismo non si elimina con le grida di un funzionario internazionale e toccare la composizione del Consiglio di sicurezza, aumentando il numero dei membri permanenti, non solo lo renderebbe ancor più antidemocratico, ma aprirebbe un vaso di Pandora di rivalità. L’unico risultato sarebbe quello di avere un’organizzazione ancora più inefficiente.
Le sole riforme possibili dovrebbero invece concernere il segretariato e il segretario, entrambi da riportare alle loro giuste dimensioni. La disaffezione di alcuni Stati riguarda, infatti, da un canto la proliferazione di organi, agenzie, sottosegretariati e in genere burocrazia e dall’altro la verbosità del segretario generale, che agisce o vorrebbe agire come un capo di Stato senza averne né il peso né i poteri né, come avrebbe detto Stalin, le divisioni.
Queste riforme non risolverebbero la crisi di fondo delle Nazioni Unite ma, diminuendone le spropositate ambizioni, la renderebbero più tollerabile.