di Francesco Pappalardo
1. Le nazionalità spontanee
“La storiografia dell’Ottocento e del Novecento – ha scritto lo storico svizzero Werner Kaegi (1901-1979) – […] è sempre dominata da un concetto fondamentale di origine non puramente storica, ma di filosofia della storia, mezzo biologico e mezzo filologico: il concetto di nazione. Da cento anni il mondo si è assuefatto a considerare la storia d’Europa come una storia di nazioni. Un tempo si scriveva la storia degli stati europei. […] Quel che in realtà è un programma, una velleità presente oppure proiettata nel futuro, viene spacciato come un dato di fatto del passato” (1).
In Europa quasi mai la nazione ha rappresentato l’elemento primario rispetto allo Stato: più antico della nazione francese è lo Stato francese, fondato dalla monarchia e dall’episcopato, così come più antico della nazione spagnola è lo Stato spagnolo, affermatosi sui regni pirenaici medioevali in virtù di un’unità religiosa e non nazionale, che nasce dalla Reconquista contro i musulmani; analoghe considerazioni valgono per l’impero germanico, nelle sue radici sassoni, austriache e prussiane, germogliate da elementi dinastici e militari.
Le cosiddette monarchie nazionali, cioè i grandi Stati territoriali dell’Occidente europeo, hanno creato le condizioni preliminari – l’unificazione giuridica, economica e amministrativa – da cui è derivato, non senza persistenti tensioni interne, il senso dell’identità nazionale dei loro sudditi.
Questi Stati sono caratterizzati tutti da una bassa incidenza sulla società civile, di cui rispettano la personalità, che può svilupparsi autonomamente, senza l’intervento coattivo di un potere politico centrale. Alle unità statali corrispondono più realtà regionali e locali, cioè gruppi di uomini aventi una propria fisionomia, individuata da una lingua, da una cultura, da costumi comuni, e viventi in uno stesso ambiente, che collega le loro esperienze quotidiane, crea ricordi comuni, rende simile il loro modo di vivere e quindi diviene esso pure un elemento costitutivo della loro identità.
I gruppi così identificati, che lo studioso Mario Albertini chiama “nazionalità spontanee” (2), non coincidono con le nazioni nel senso corrente del termine e non hanno bisogno di un potere politico per conservarsi.
La dimensione nazionale era considerata, quindi, solo uno degli aspetti della vita associata e gli uomini, prima ancora di sentirsi appartenenti ad una nazione, si sentono legati – secondo una serie di “cerchie” (3) concentriche – alla famiglia e al vicinato, alla dimensione locale e regionale, alla Chiesa e alla Cristianità, secondo una vera e propria “scala dei lealismi” (4).
Con la Rivoluzione francese termini come nazione, nazionalità e nazionalismo si affermano nel pensiero politico con il significato – pur sempre fluttuante e ambiguo – in cui se ne discorre oggi e agiscono sempre più incisivamente come idee forza, cariche di implicazioni teoriche e pratiche.
L’idea nazionalistica si congiunge al liberalismo politico, così che “[…] si applicano alle nazioni, per via analogica, tutti i principi originariamente formulati con riferimento agli individui” (5). La nazione diventa il principio supremo di riferimento, che sostituisce la legittimazione religiosa del potere e giustifica qualsiasi decisione politica. “Le morali sociali che possono derivarne, liberate da qualsiasi riferimento alla religione e alla tradizione, si fondono ormai nella sola volontà nazionale affidata a dei rappresentanti, dei deputati, che agiscono collettivamente come gli oracoli di questa nuova divinità” (6).
Una descrizione illuminante di questo mutamento culturale viene offerta dallo storico Federico Chabod (1901-1960): “La politica acquista pathos religioso; e sempre di più, con il procedere del secolo e con l’inizio del secolo XX: ciò spiega il furore delle grandi conflagrazioni moderne. Ora, da che deriva questo pathos se non proprio dal fatto che le nazioni si trasferiscono, potremmo dire, dal piano puramente culturale, alla Herder, sul piano politico, alla Rousseau? […] La nazione diventa la patria: e la patria diviene la nuova divinità del mondo moderno. Nuova divinità: e come tale sacra“ (7).
Il termine “nazione”, fino ad allora di uso generico, perché riferito alle più diverse realtà di gruppo e a qualunque forma di comunità politica, trova un preciso punto di riferimento nello Stato nazionale, lo Stato che si avvale del suo potere per imporre su tutti i territori posti sotto la sua amministrazione l’uniformità di lingua e di costumi, per imporre, e in parte produrre, l’unità nazionale. “Gli Stati hanno cercato di diventare nazioni e alcuni ci sono riusciti meglio di altri – afferma lo storico ed economista Immanuel Wallerstein –. Ma è bene sottolineare che è uno Stato a farsi nazione e non viceversa. In Italia, già Massimo D’Azeglio diceva: l’Italia è fatta, ora facciamo gli italiani. E aveva ragione: era nato uno Stato, con le sue istituzioni, ora bisognava creare gli italiani, dare loro una lingua e un sentimento comuni. Questo è stato l’enorme lavoro del XIX secolo, non solo in Italia, ma anche in nazioni apparentemente consolidate come la Francia. La nazione francese è nata grazie alla scuola primaria e all’esercito, con la Rivoluzione, Napoleone e l’Ottocento. Al contrario, il mito nazionalistico pretende che questa nazione esista da mille, se non cinquemila, anni. Oggi critichiamo i miti degli ultimi arrivati, ma i nostri non sono meno infondati” (8).
La nascita dello Stato moderno, burocratico e accentrato; l’esigenza di sostenere con una struttura giuridico-politica la formazione dei mercati unici nazionali, perseguita da élite economiche e sociali che in condizioni non unitarie avrebbero stentato a emergere; l’irruzione di nuove ideologie, che postulavano la necessità della fusione dello Stato con la nazione, creano una combinazione esplosiva, che distrugge all’interno dei singoli Stati le nazionalità spontanee – solo parzialmente nella realtà ma del tutto nella coscienza politica – e altera i rapporti fra gli Stati stessi, subordinando ai valori nazionali i valori universali della res publica christiana, cioè quella sorta di supernazionalità spontanea che legava le persone oltre le frontiere statali.
Viene rovesciata la scala dei lealismi e la nazione tende a espungervi ogni altro riferimento: “[…] il sentimento di appartenenza alla propria nazione ha acquisito una posizione di assoluta preminenza su qualsiasi altro sentimento di appartenenza territoriale, religiosa o ideologica; tanto che, da un lato, i lealismi e le identificazioni regionali e locali sono stati praticamente cancellati dal superiore riferimento alla N[azione] e, dall’altro, le stesse affiliazioni ideologiche o religiose, che pur si pongono come universali nella loro essenza, sono state nei fatti subordinate all’affiliazione nazione e quindi intimamente snaturate” (9).
2. L’”ethos” italiano
Nel quadro descritto all’inizio – caratterizzato dalla precedenza temporale degli Stati nei confronti delle nazioni – una singolarità è costituita dall’Italia, che esiste da quasi un millennio come unità culturale e linguistica, pur nella diversità delle sue componenti, essendosi formata in seno alla Cristianità, nei secoli del Medioevo, sulla base di una preziosa eredità romana, a sua volta maturata in un intricato mosaico di lingue e di stirpi.
L’idea che all’unità dell’Italia romana – compiuta nel secolo I a. C. – soggiacesse una realtà etnica e storica estremamente composita era chiara agli antichi, che hanno voluto tramandare ai posteri il ricordo dei diversi popoli italici. La stessa suddivisione amministrativa della penisola da parte dell’imperatore Cesare Augusto (63 a. C.-14 d. C.) in undici regioni recanti i nomi geografici ed etnici tradizionali – la Sicilia, la Sardegna e la Corsica saranno annesse all’Italia nel secolo III d. C. dall’imperatore Diocleziano (245-313) – era appunto il frutto di una saggia organizzazione territoriale, che riconosceva le realtà e i diritti delle genti confluite nella nuova formazione politica.
L’impronta lasciata dai popoli italici ha resistito in qualche misura al processo di romanizzazione e si è trasmessa nel tempo, ponendo le basi di quel particolarismo che esprime una vocazione della nazione italiana e che si è manifestato in una straordinaria varietà di società storiche.
La civiltà italiana, fiorita su un coacervo di realtà differenziate, troverà il suo collante, l’elemento di raccordo e di comunicazione culturale fra le diverse componenti, nel sentimento religioso, caratterizzato soprattutto dall’ortodossia e dalla fedeltà alla Cattedra di Pietro. L’Italia, luogo d’incontro fra romanità, grecità e cristianesimo, diventerà, grazie all’esperienza benedettina, “[…] quasi un laboratorio dello spirito europeo“ (10), e nella cultura della nazione italiana si manifesterà in vari modi il genio del cristianesimo. “Il popolo italiano, la cui identità religiosa, quindi eminentemente culturale, è stata costituita dalla Chiesa, erede di istituzioni romane e convertitrice dei barbari, nei secoli dell’Alto Medioevo, [raggiunge] la propria maturazione nazionale spontanea – cioè non promossa da un potere temporale – all’apogeo del Medioevo” (11).
Eredi dell’universalismo romano e cristiano, e nello stesso tempo consapevoli della ricchezza della loro storia sociale e politica, gli italiani oscilleranno sempre fra l’apertura all’universale e l’attenzione al particolare, fra il senso dell’appartenenza nazionale e l’attaccamento alla comunità locale, in una tensione inevitabile ma feconda, finché vissuta con sereno equilibrio. I grandi e i piccoli tasselli del mosaico italiano avranno sì una logica autonoma di sviluppo, caratterizzata da vicende che non vanno concepite semplicemente come un lungo prologo a una inevitabile unità politica, ma daranno anche vita a una comunanza di cultura e di civiltà che trascendeva i singoli Stati.
L’ethos italiano, che affonda le sue radici in un’eredità cristiana consapevolmente vissuta e responsabilmente accolta, si dimostrerà capace di governare anche le transizioni del Paese nell’epoca della modernità senza perdere il collegamento con le tradizioni e le peculiarità delle diverse Italie (12).
3. La cultura politica preunitaria
La nazione italiana, in conformità con questo grande patrimonio di tradizioni storiche e con le sue ricchezze culturali, anche di cultura politica, si è organizzata nel tempo in più strutture statuali, caratterizzate da una mirabile varietà istituzionale – dallo Stato municipale al grande regno, dal principato regionale alla repubblica aristocratica -, che ha fatto dell’Italia un campionario di Stati e, nella misura in cui questi possono essere considerati gli “abiti” delle società storiche (13), destinati soprattutto a proteggerne il retaggio spirituale e culturale, un “guardaroba di abiti politici”, il guardaroba politico delle società storiche affermatesi nella penisola.
Non è facile, vivendo l’esperienza dello Stato moderno, centralista e unitario, rendersi conto della vitalità e dell’autonomia della società civile, che per molti secoli è riuscita a salvaguardare la propria identità – nonostante continui mutamenti politici o dinastici, quindi continui cambiamenti di “abito” – grazie alla presenza di complesse e articolate reti di rapporti umani, familiari, di clientela, di patronato, che fungevano da canali reali di un potere politico esercitato in forme più diffuse e variegate di quelle oggi conosciute e che davano vita a una molteplicità di ordinamenti, di consuetudini e di privilegi (14).
Dal punto di vista istituzionale e sociale la struttura portante di queste realtà è stato per lunghissimo tempo il feudalesimo, che faceva della società medioevale una società gerarchica, grazie, da un lato, alla presenza al vertice, come punto di riferimento, del sovrano, e, dall’altro lato, alla catena delle gerarchie feudali. Anche i comuni, frutto della forte ripresa cittadina dopo il Mille, non nascono e non si svolgono in chiave antifeudale, neppure quando giungono a costituirsi in centri di minuscoli Stati, largamente autonomi, anche se inseriti giuridicamente nella struttura feudale del Sacro Romano Impero. La nascita stessa del comune è un fenomeno aristocratico, incomprensibile senza la ricchezza di vita e la libertà d’azione che connotavano la società feudale.
Fra il 1300 e il 1500 si assiste al passaggio dal feudalesimo alla signoria – una realtà statuale in cui i ceti dirigenti non sono più rappresentanti della famiglia o del clan, bensì di una determinata categoria sociale – nonché a una concentrazione di sovranità nelle mani di principi, detentori di un forte potere politico e militare, che mirano alla sottomissione dell’aristocrazia feudale, gradualmente ridotta a nobiltà di corte, e alla limitazione sistematica delle antiche istituzioni di tipo rappresentativo.
Benché la svolta signorile, segnata soprattutto dallo sforzo di accentramento delle funzioni pubbliche, abbia chiaro significato assolutistico, gli ordinamenti che si creano allora e che dureranno per secoli, segno appunto della robustezza della costruzione cui si era pervenuti, hanno caratteri ben diversi da quelli dello Stato moderno, che non conosce le articolazioni politiche e le forme di aggregazione caratteristiche invece di quel lungo periodo, dalla fine del Medioevo alla Rivoluzione francese, definito con felice scelta lessicale “antico regime” anziché “età moderna”.
Gli organismi politici preunitari sono caratterizzati dalla presenza di numerose autonomie locali, di giurisdizioni particolari, laboriosamente coordinate, e di intermediazioni personali, così che le formazioni statali a ogni loro passo dovevano fare i conti con la solida presenza, più che con la sopravvivenza, di gruppi e di istituti saldamente radicati nel territorio.
Il particolarismo italiano, dunque, non va inteso solo nel senso geografico e territoriale e neppure soltanto come quel pluralismo di tradizioni e di culture che ha indotto lo storico Giuseppe Galasso ad affermare che “[…] la storia della nazione italiana è una storia multinazionale e policentrica” (15), ma anche come un dato sociologico, secondo cui la vita politica e sociale ha il suo fondamento nell’attività di gruppi particolari, anzitutto la famiglia, intesa in un significato non limitato a quello puramente biologico.
Fino al 1789 il regime feudale – anche nella sua versione “terminale” d’Ancien Régime – definisce la nazione, cioè la società storica, come riunione di famiglie e fa della famiglia la cellula fondamentale della società non soltanto sociologicamente ma anche politicamente (16). Con la legislazione formalmente antifeudale del 4 agosto 1789 cambia il protagonista della vita politica, che non è più la famiglia, ma l’individuo; questo mutamento radicale è lo specifico politico della Rivoluzione francese, che “[…] cancella la famiglia e le differenze interumane come elementi di struttura politicamente rilevanti” (17).
4. Dall’Italia “una” all’Italia “unita”
L’invasione longobarda dell’anno 568 rompe l’unità politica della penisola e apre la strada a una distinzione fra i territori del Regno italico – nei quali si svilupperanno le istituzioni feudali appunto di tipo longobardo e fioriranno poi in varia forma e misura le autonomie comunali – e i territori romano-bizantini, di cui una parte costituirà il Patrimonio di San Pietro, mentre l’intero Mezzogiorno e la Sicilia saranno unificati dalla monarchia normanno-sveva, che vi introdurrà fra l’altro il sistema feudale “franco”; uno sviluppo particolare avranno gli ordinamenti pubblici della Sardegna, divisa inizialmente in quattro giudicati o regni.
I domìni bizantini si frammenteranno ulteriormente in una serie di nuclei locali – Venezia, il ducato romano, Napoli, Amalfi, Gaeta, Sorrento -, così come il regno longobardo si frazionerà in ducati sempre più autonomi: per tutti l’esempio di Benevento, da cui si staccheranno i principati di Capua e di Salerno. La discesa dei longobardi in Italia rappresenta quindi non solo il momento in cui appare veramente lacerante la rottura del tessuto imperiale romano, ma anche quello in cui emerge, in modo altrettanto netto, un carattere strutturale della storia del Paese, la divisione fra le due Italie: un dualismo permanente, fondato su profonde differenze sociali e culturali, che dopo l’Unità sarà affrontato solo in chiave economica, come un problema di sviluppo ineguale, e che riaffiorerà negli anni 1943-1945 con la creazione del cosiddetto Regno del Sud.
Se da un lato la presenza di innumerevoli nuclei politici e civili si rivela un ostacolo decisivo a ogni politica di egemonia o di unificazione nell’Italia centro-settentrionale, dall’altro lato le singole formazioni s’inseriscono – in un articolato rapporto di gerarchie e di dipendenze – nel sistema degli Stati italiani, dove la relazione fra il grande e il piccolo era mediata da un sistema religioso a carattere universale, la Chiesa cattolica, e da un sistema politico a carattere universalistico, il Sacro Romano Impero.
La creazione di più ampi organismi e il passaggio dallo Stato cittadino a quello regionale, che ha luogo nei secoli XIV e XV mediante la riorganizzazione dei diversi nuclei territoriali, delinea una situazione di stabilità, poi sancita dalla pace di Lodi del 1454, che pone fine alla guerra di successione per il Ducato di Milano. Con questo accordo vengono definite le linee di fondo di quell’equilibrio politico che, nonostante il turbine delle guerre del primo Cinquecento, resterà pressoché immutato fino all’età napoleonica e che può essere considerato l’embrione di un assetto confederale.
All’atto diplomatico fa significativamente seguito la costituzione della Lega Italica, alla quale aderiscono i principali Stati della penisola: il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia, la Repubblica di Firenze, gli Stati della Chiesa e il Regno di Napoli. Da questa data le formazioni statali minori si trovano legate alle maggiori in un sistema dosato di vincoli politici e militari, in una struttura flessibile, suscettibile di lacerazioni e di squilibri, ma capace di comprendere in un unico sistema il composito mondo politico italiano, condotto al massimo di unificazione possibile, nella rafforzata consapevolezza di una “comunità di destini” della nazione.
Anche il predominio esercitato dalla monarchia spagnola nei secoli XVI e XVII contribuisce a fare dell’Italia un’area politica omogenea, uno spazio unitario comprendente Roma, Napoli, Palermo, Milano, Genova, Firenze e le capitali dei ducati padani, e caratterizzato da forme di integrazione dei principi e dei signori italiani, dalla circolazione delle carriere di magistrati e di uomini di governo, dal movimento di capitali, di idee e di progetti politici (18).
Al servizio della Santa Sede, della monarchia spagnola e del Sacro Romano Impero, le case regnanti, i ceti dirigenti, i condottieri e i soldati italiani serviranno per secoli la Cristianità a diverso titolo fin nelle aree più lontane. Pertanto non è giustificato l’uso ideologico del termine “decadenza” con riferimento a quel periodo della storia d’Italia che va dall’invasione francese del 1494 al Risorgimento: “Solo se si assume del tutto arbitrariamente che lo Stato nazionale rappresenti un modello di organizzazione al quale ogni popolo deve aspirare – osserva Eric Voegelin (1901-1985) –, solo in questo caso il mancato raggiungimento di questo obiettivo da parte dell’Italia in quel periodo critico può essere considerato come una particolare debolezza” (19).
L’amore alla religione tradizionale e l’attaccamento all’ordine politico e sociale costituitosi in un ambiente docile all’influsso del cattolicesimo penetrano così profondamente nella cultura popolare che alla fine del secolo XVIII solo pochi “illuminati” accolgono con entusiasmo la Rivoluzione francese. Il fenomeno dell’Insorgenza, vale a dire la reazione spontanea, fisiologica, all’inoculamento nel corpo sociale dei virus provenienti da Oltralpe – reazione avente sempre gli stessi caratteri in presenza di popolazioni differenti, rette da istituzioni diverse, situate in contesti geoeconomici non uniformi – è un’ulteriore prova dell’esistenza della nazione italiana, con un suo profilo ben delineato e una sua cultura specifica (20).
Tuttavia, dopo la fine coatta del Sacro Romano Impero nel 1806, su pressione napoleonica, la politica diventa puro equilibrio di forze e la competizione fra i vari Stati mette in pericolo la sopravvivenza delle piccole realtà statuali della penisola. Alla sfida rappresentata dai mutamenti intervenuti nel contesto internazionale avrebbe costituito risposta adeguata una struttura confederale, una federazione di Stati, cioè un abito ritagliato su misura, che fosse adeguato alla mutata situazione e assicurasse il rispetto dell’antica personalità dei popoli d’Italia.
Con un compromesso fra l’unitarismo dei mazziniani, che rinunciano alla pregiudiziale repubblicana, le aspettative dei moderati, i quali abbandonano i metodi graduali e pacifici utilizzati fino ad allora, e le mai sopite ambizioni egemoniche, di natura soprattutto territoriale, del Regno di Sardegna, si giunge all’unificazione forzata, compiuta nel 1860 e ufficializzata l’anno seguente con la proclamazione del Regno d’Italia.
L’imposizione di un abito inadeguato causa al corpo sociale i gravi disagi di cui soffre tuttora e disperde una parte rilevante delle inestimabili ricchezze culturali della nazione, come noterà lo scrittore russo Fëdor Michajlovic’ Dostoevskij (1821-1881): “[…] per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, […] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!” (21).
L’Italia, inoltre, patirà un violento attacco al suo ethos da parte di forze intese a costruire un potere culturale, quindi anche religioso, da contrapporre al potere spirituale della Chiesa stessa (22). Queste forze, però, benché dotate di tutti i mezzi propagandistici e pedagogici dello Stato moderno e sulla distanza di ormai quasi un secolo e mezzo, non sono riuscite a realizzare tale proposito, pur determinando un esito certamente confusionale.
Oggi residua la nazionalità spontanea che – in una fase caratterizzata da un abbassamento del rilievo del momento territoriale, in cui il rapporto fra uomo e uomo è destinato a diventare di nuovo primario – va rivestita in modo adeguato. Infatti, il superamento dello Stato burocratico e accentratore non implica soltanto la demistificazione dell’idea di nazione affermatasi negli ultimi due secoli, ma anche “[…] la rinascita, o il rinvigorimento, delle nazionalità spontanee che lo Stato nazionale soffoca o riduce a strumenti ideologici al servizio del potere politico, e quindi il ritorno di quegli autentici valori comunitari di cui l’ideologia nazionale si è appropriata trasformandoli in sentimenti gregari” (23).
Note
* Relazione, riveduta e annotata, tenuta al convegno Le insorgenze anti-giacobine, il problema dell’identità nazionale e la “morte della patria”. Spunti per una rinascita della “nazione spontanea”, organizzato dall’ISIN, l’Istituto per la Storia delle Insorgenze, in collaborazione con Alleanza Cattolica, Cristianità e la Regione Lombardia Settore Trasparenza e Cultura, e svoltosi a Milano il 26 ottobre 1997.
(1) Werner Kaegi, Meditazioni storiche, trad. it., Laterza, Bari 1960, pp. 36-37.
(2) Mario Albertini, Idea nazionale e ideali di unità supernazionali in Italia dal 1815 al 1918, in Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, Marzorati, Milano 1961, vol. II, pp. 671-728 (p. 676).
(3) Cfr. Georg Simmel (1858-1918), Sociologia, con un’introduzione di Alessandro Cavalli, cap. VI, L’intersezione di cerchie sociali, trad. it., Comunità, Milano 1989, pp. 347-391.
(4) Francesco Rossolillo, voce Nazione, in Dizionario di politica, diretto da Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino, TEA, Milano 1990, pp. 675-679 (p. 675).
(5) Guido De Ruggiero (1888-1948), Storia del liberalismo europeo, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 15.
(6) Jean-Luc Chabot, Il nazionalismo, trad. it., Mondadori, Milano 1995, p. 26.
(7) Federico Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 61.
(8) Immanuel Wallerstein, L’epoca dell’antistato, intervista a cura di Francesca Pierantozzi, in Il Risorgimento imperfetto. Perché da Cavour siamo arrivati a Bossi, liberal, Roma 1997, pp. 169-180 (p. 174).
(9) F. Rossolillo, voce cit., p. 675.
(10) Giovanni Paolo II, Meditazione con i Vescovi italiani presso la tomba dell’Apostolo Pietro, del 15-10-1994, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XVII, 1, pp. 703-710 (p. 705).
(11) Giovanni Cantoni, Un’arrogante pretesa da “laico”: “La Chiesa deve chiedere scusa di Bossi al popolo italiano”!, in Cristianità, anno XXV, n. 270, ottobre 1987, pp. 3-4 (p. 3).
(12) Cfr. Massimo Introvigne, L’”ethos” italiano e lo spirito del federalismo, con una presentazione di Pierferdinando Casini, Gruppo Parlamentare Centro Cristiano Democratico, Camera dei Deputati-Di Giovanni, San Giuliano Milanese (Milano) 1995.
(13) Cfr. G. Cantoni, Metamorfosi del socialcomunismo: dal relativismo totalitario al relativismo democratico, in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 15-21, nn. 4 e 9, pp. 15-17.
(14) Cfr. AA.VV., Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di Giorgio Chittolini, Anthony Molho e Pierangelo Schiera, Il Mulino, Bologna 1994; e G. Chittolini, Introduzione a Idem (a cura di), La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, il Mulino, Bologna 1979, pp. 7-50.
(15) Giuseppe Galasso, Lo Stato e la Nazione: alcune premesse per un esame del caso italiano, in Sergio Bertelli (a cura di), La chioma della vittoria. Scritti sull’identità degli italiani dall’Unità alla seconda Repubblica, Ponte alle Grazie, Firenze 1997, pp. 14-34 (p. 29); cfr. anche Idem, L’Italia come problema storiografico, vol. I di Idem (a cura di), Storia d’Italia, UTET, Torino 1979, soprattutto pp. 135-150.
(16) Cfr. Otto Brunner (1898-1982), Per una nuova storia costituzionale e sociale, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1970, pp. 75-116 e 133-164.
(17) G. Cantoni, L’abolizione del “regime feudale” come specifico politico della Rivoluzione francese, estratto da Atti della Società Italiana di studi araldici”. 6° Convivio. Agazzano [Piacenza] 17 Giugno 1989, p. 4; cfr. anche Idem, L’ultima intervista di François Furet: un contributo per ostacolare il futuro dell’illusione, in Cristianità, anno XXV, n. 270, ottobre 1987, pp. 19-22.
(18) Cfr. Angelantonio Spagnoletti, Prìncipi italiani e Spagna nell’età barocca, Bruno Mondadori, Milano 1996.
(19) Eric Voegelin, La “Scienza nuova” nella storia del pensiero politico, trad. it., Alfredo Guida, Napoli 1996, p. 27.
(20) Cfr., in primo accostamento, Giacomo Lumbroso (1897-1944), I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800), Minchella, Milano 1997, con una premessa di Oscar Sanguinetti che fa stato della problematica storica e storiografica; e Francesco Mario Agnoli, Guida introduttiva alle insorgenze contro-rivoluzionarie durante il dominio napoleonico (1796-1815), Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1996.
(21) Fëdor Michajlovic’ Dostoevskij, Diario di uno scrittore, ed. it. a cura di Ettore Lo Gatto, Sansoni, Firenze 1981, 1877, Maggio-Giugno, capitolo secondo, pp. 925-926.
(22) Cfr. G. Cantoni, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 7-50; e Idem, Un’arrogante pretesa da “laico”: “La Chiesa deve chiedere scusa di Bossi al popolo italiano”!, cit.
(23) F. Rossolillo, voce cit., p. 67