Cristianità n. 241 (1995)
di Giovanni Cantoni
Dopo lunga gestazione – precisamente a partire dal Concistoro Straordinario tenutosi a Roma dal 4 al 7 aprile 1991 e dedicato, fra l’altro, alle attuali minacce contro la vita, con particolare attenzione all’aborto (1) -, giovedì 30 marzo 1995 è stata resa pubblica l’undicesima enciclica di Papa Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, datata 25 marzo, solennità dell’annunciazione del Signore Gesù, e indirizzata “ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, ai religiosi e alle religiose, ai fedeli laici e a tutte le persone di buona volontà sul valore e l’inviolabilità della vita umana” (2).
Taccio circa la qualità della breve eco avuta dal documento fra i previsti e ampiamente prevedibili oppositori – la quasi totalità dei commentatori – e mi limito a notare come anche i commenti favorevoli abbiano spesso confermato un’importante notazione dello stesso Sommo Pontefice, secondo cui “il ritorno al testo dovrebbe essere la cura di tutti. Infatti, quanti si fanno cantori o critici dei testi pontifici senza leggere attentamente il testo, né studiare il contesto! Un’enciclica s’inscrive nella continuità di un insegnamento e rinnova la sua formulazione in funzione sia del cambiamento delle problematiche sociali che delle nuove esigenze etiche che comportano per la fede” (3).
1. Qual è il contesto dell’enciclica Evangelium vitae? In altri termini: perché oggi l’enciclica Evangelium vitae?
Il testo risponde: “Oggi questo annuncio si fa particolarmente urgente per l’impressionante moltiplicarsi ed acutizzarsi delle minacce alla vita delle persone e dei popoli, soprattutto quando essa è debole e indifesa” (n. 3). Per descrivere il panorama delle minacce alla vita Papa Giovanni Paolo II richiama un passo della costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (4), quindi osserva che “questo inquietante panorama, lungi dal restringersi, si va piuttosto dilatando: con le nuove prospettive aperte dal progresso scientifico e tecnologico nascono nuove forme di attentati alla dignità dell’essere umano, mentre si delinea e consolida una nuova situazione culturale che dà ai delitti contro la vita un aspetto inedito e – se possibile – ancora più iniquo suscitando ulteriori gravi preoccupazioni: larghi strati dell’opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà individuale e, su tale presupposto, ne pretendono non solo l’impunità, ma persino l’autorizzazione da parte dello Stato, al fine di praticarli in assoluta libertà ed anzi con l’intervento gratuito delle strutture sanitarie.
“Ora, tutto questo provoca un cambiamento profondo nel modo di considerare la vita e le relazioni tra gli uomini. Il fatto che le legislazioni di molti Paesi, magari allontanandosi dagli stessi principi basilari delle loro Costituzioni, abbiano acconsentito a non punire o addirittura a riconoscere la piena legittimità di tali pratiche contro la vita è insieme sintomo preoccupante e causa non marginale di un grave crollo morale: scelte un tempo unanimemente considerate come delittuose e rifiutate dal comune senso morale, diventano a poco a poco socialmente rispettabili.
La stessa medicina, che per sua vocazione è ordinata alla difesa e alla cura della vita umana, in alcuni suoi settori si presta sempre più largamente a realizzare questi atti contro la persona e in tal modo deforma il suo volto, contraddice sé stessa e avvilisce la dignità di quanti la esercitano. In un simile contesto culturale e legale, anche i gravi problemi demografici, sociali o familiari, che pesano su numerosi popoli del mondo ed esigono un’attenzione responsabile ed operosa delle comunità nazionali e di quelle internazionali, si trovano esposti a soluzioni false e illusorie, in contrasto con la verità e il bene delle persone e delle Nazioni.
“L’esito al quale si perviene è drammatico: se è quanto mai grave e inquietante il fenomeno dell’eliminazione di tante vite umane nascenti o sulla via del tramonto, non meno grave e inquietante è il fatto che la stessa coscienza, quasi ottenebrata da così vasti condizionamenti, fatica sempre più a percepire la distinzione tra il bene e il male in ciò che tocca lo stesso fondamentale valore della vita umana” (n. 4).
Dunque, la ratio, la ragione del documento sta in una “cattiva novella”, in una “cattiva novità”, in un “segno dei tempi” negativo: non nel solo fatto della commissione di delitti contro la vita, purtroppo legati alla condizione umana post peccatum, ma in una catena di situazioni collegate a questo fatto.
a. Anzitutto, si deve rilevare l’insensibilità epocale nei confronti dei delitti contro la vita, insensibilità che favorisce la trasformazione di quanto è umanamente endemico in epidemico: “L’umanità di oggi ci offre uno spettacolo davvero allarmante, se pensiamo non solo ai diversi ambiti nei quali si sviluppano gli attentati alla vita, ma anche alla loro singolare proporzione numerica, nonché al molteplice e potente sostegno che viene loro dato dall’ampio consenso sociale, dal frequente riconoscimento legale, dal coinvolgimento di parte del personale sanitario” (n. 17).
b. Quindi, va ricordata l’influenza di questa condizione sulla convivenza sociale, che viene da essa segnata e deformata: “In questo modo la società diventa un insieme di individui posti l’uno accanto all’altro, ma senza legami reciproci: ciascuno vuole affermarsi indipendentemente dall’altro, anzi vuol far prevalere i suoi interessi. Tuttavia, di fronte ad analoghi interessi dell’altro, ci si deve arrendere a cercare qualche forma di compromesso, se si vuole che nella società sia garantito a ciascuno il massimo di libertà possibile. Viene meno così ogni riferimento a valori comuni e a una verità assoluta per tutti: la vita sociale si avventura nelle sabbie mobili di un relativismo totale. Allora tutto è convenzionabile, tutto è negoziabile: anche il primo dei diritti fondamentali, quello alla vita” (n. 20).
c. Finalmente, viene in questione il fatto che questo “[…] genere di attentati, concernenti la vita nascente e terminale, […] presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di “delitto” e ad assumere paradossalmente quello del “diritto”, al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l’intervento degli stessi operatori sanitari“ (n. 11).
La situazione epocale e le sue cause sono già state sinteticamente esposte da Papa Giovanni Paolo II, che si cita: “Con il tempo, le minacce contro la vita non vengono meno. Esse, al contrario, assumono dimensioni enormi. Non si tratta soltanto di minacce provenienti dall’esterno, di forze della natura o dei “Caino” che assassinano gli “Abele”; no, si tratta di minacce programmate in maniera scientifica e sistematica. Il ventesimo secolo verrà considerato un’epoca di attacchi massicci contro la vita, un’interminabile serie di guerre e un massacro permanente di vite umane innocenti. I falsi profeti e i falsi maestri hanno conosciuto il maggior successo possibile” (5).
In altre parole – ancora – quanto accade non è solamente frutto di difficoltà post peccatum, né della loro concentrazione e “capitalizzazione” nel tempo e nello spazio, e neppure di cadute di singoli: si “[…] va oltre la responsabilità delle singole persone e il danno loro arrecato, assumendo una dimensione fortemente sociale: è una ferita gravissima inferta alla società e alla sua cultura da quanti dovrebbero esserne i costruttori e i difensori. […] Ci troviamo di fronte a quella che può definirsi una “struttura di peccato” contro la vita umana non ancora nata“ (n. 59); “[…] siamo in realtà di fronte a una oggettiva “congiura contro la vita” che vede implicate anche Istituzioni internazionali, impegnate a incoraggiare e programmare vere e proprie campagne per diffondere la contraccezione, la sterilizzazione e l’aborto” (n. 17), campagne realizzate con la complicità dei mass media: “Non si può, infine, negare che i mass media sono spesso complici di questa congiura, accreditando nell’opinione pubblica quella cultura che presenta il ricorso alla contraccezione, alla sterilizzazione, all’aborto e alla stessa eutanasia come segno di progresso e conquista di libertà, mentre dipinge come nemiche della libertà e del progresso le posizioni incondizionatamente a favore della vita” (n. 17).
E, “[…] di fronte a uno scontro immane e drammatico tra il bene e il male, la morte e la vita, la “cultura della morte” e la “cultura della vita”” (n. 28), “nel ricercare le radici più profonde della lotta tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte” […] occorre giungere al cuore del dramma vissuto dall’uomo contemporaneo: l’eclissi del senso di Dio e dell’uomo, tipica del contesto sociale e culturale dominato dal secolarismo, che coi suoi tentacoli pervasivi non manca talvolta di mettere alla prova le stesse comunità cristiane. Chi si lascia contagiare da questa atmosfera, entra facilmente nel vortice di un terribile circolo vizioso: smarrendo il senso di Dio, si tende a smarrire anche il senso dell’uomo, della sua dignità e della sua vita; a sua volta, la sistematica violazione della legge morale, specie nella grave materia del rispetto della vita umana e della sua dignità, produce una sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire la presenza vivificante e salvante di Dio” (n. 21).
2. Dopo aver identificato nel testo il contesto, passo da questo contesto storico a quello che si può definire contesto magisteriale, cioè alla continuità dell’insegnamento in cui appunto si inserisce ogni espressione magisteriale e che permette eventualmente di cogliere non più la novità da fronteggiare, la sfida, ma la novità della risposta a essa, cioè il possibile sviluppo della dottrina.
Se la ratio del documento pontificio è quella che ho ricostruita sulla base del documento stesso – e che è contenuta principalmente nella Introduzione e nel primo capitolo, La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo. Le attuali minacce alla vita umana -, Papa Giovanni Paolo II espone la dottrina della Chiesa nel secondo capitolo, Sono venuto perché abbiano la vita. Il messaggio cristiano sulla vita; nel terzo capitolo, Non uccidere. La Legge santa di Dio, e nel quarto capitolo, L’avete fatto a me. Per una nuova cultura della vita umana.
E – oltre gli sforzi di un’esegesi interessata all’identificazione sensazionalistica di nova, di “cose nuove”, da contrapporre dialetticamente a vetera, a “cose vecchie” – la dottrina esposta si rivela per la gran parte ricostruzione di quanto, negli anni più recenti, sulla base delle sollecitazioni storiche indicate, il Magistero della Chiesa è venuto enunciando, quindi è autorevole, puntuale e provvidenziale ricostruzione di quanto contenuto nelle diverse dichiarazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede, talora già passate e “riassunte” nel Catechismo della Chiesa Cattolica oppure “condensate” normativamente nel Codice di Diritto Canonico.
Inoltre, la ricostruzione autorevole aiuta a cogliere l’unità del Magistero della Chiesa, inteso sia come messaggio, cioè come contenuto, che come fonte che elabora e organizza il messaggio. E, se non mancano certamente gli approfondimenti, talora semplicemente legati all’angolazione diversa da cui viene osservato il medesimo problema e fornita la risposta di ragione e di fede, credo non si possa, in genere, parlare propriamente di sviluppi, se con il termine si intende non certo l’impossibile novità assoluta, ma l’esplicitazione di tematiche e di tesi note.
Se vi è una novità, essa consiste nella solennità formulare con cui Papa Giovanni Paolo II riafferma precedenti tesi: dopo aver ricordato che “[…] l’inviolabilità assoluta della vita umana innocente è una verità morale esplicitamente insegnata nella Sacra Scrittura, costantemente ritenuta nella Tradizione della Chiesa e unanimemente proposta dal suo Magistero” (n. 57), e aver notato che “tale unanimità è frutto evidente di quel “senso soprannaturale della fede” che, suscitato e sorretto dallo Spirito Santo, garantisce dall’errore il popolo di Dio, quando “esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi”” (n. 57), il Sommo Pontefice condanna l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente “[…] con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica” (n. 57), e afferma che “tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore (cf. Rm 2, 14-15), è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale” (n. 57). Quindi condanna con la stessa espressione e con l’identico richiamo alla legge naturale, alla Scrittura, alla Tradizione e al Magistero “l’aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo” (n. 62) e “l’eutanasia […], in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana” (n. 65).
3. Se, in genere e per la gran parte del documento, le cose stanno nei termini che ho indicato, questo quadro patisce però eccezione. E tale eccezione mi sembra essere costituita da quanto fa dell’enciclica Evangelium vitae un testo, per così dire, “interdisciplinare”, contemporaneamente fondativo dell’attenzione cattolica al mondo della bioetica (6) ed espressione di dottrina sociale, di morale sociale: “Contrariamente a quanto affrettati e superficiali lettori hanno affermato, Evangelium vitae non è un documento di morale sessuale e neppure semplicemente un documento di etica individuale. È invece un testo di grande rilevanza per la morale sociale, che si colloca nel solco della dottrina sociale della Chiesa, inaugurato, nei tempi moderni, dall’Enciclica leonina. Proseguendo questa tradizione, essa indica le questioni del rispetto della vita, quali l’aborto, le sperimentazioni sugli embrioni e l’eutanasia, come la “nuova frontiera” della questione sociale” (7).
Infatti, questo aspetto costituisce parte rilevante del documento, che non è solo ripetizione e ricostruzione, ma anche esplicitazione e svolgimento di quanto contenuto in altre espressioni magisteriali di morale sociale. In proposito ha rilievo il rapporto di sviluppo dei passaggi sulla democrazia rispetto alla terza parte, Morale e legge civile, della Istruzione “Donum Vitae” su il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1987 (8), al capitolo quinto dell’enciclica dello stesso Papa Giovanni Paolo II Centesimus annus, del 1991 (9), nonché al capitolo terzo dell’enciclica Veritatis splendor dello stesso Sommo Pontefice (10).
4. Molto sinteticamente e a grandissime linee credo si possa affermare che, per un lungo lasso di tempo, il termine “democrazia” è stato utilizzato nel mondo cattolico semplicemente come indicativo di una forma di governo terza insieme a monarchia e ad aristocrazia, con i quali termini ha costituito un trinomio che affonda le sue radici in una delle più remote testimonianze della cultura occidentale, le Storie di Erodoto (11).
A questo uso si è attenuto pure il Magistero ecclesiastico, anche quando ha voluto denunciare come inaccettabile una valutazione impropria della forma di governo democratica, realizzata sia all’interno del mondo cattolico – attraverso l’attribuzione appunto alla democrazia di uno speciale privilegio, di un rapporto privilegiato con il cristianesimo, quindi con una sua concezione idolatrica (12) – che fuori di esso, in relazione con una concezione individualistica e contrattualistica della società e immanentistica della sovranità (13).
Si sono così venute delineando due accezioni, frutto di due concezioni antitetiche, del termine “democrazia”: la prima si può definire classica o “degli antichi” – utilizzo le specifiche che lo scrittore e polemista Benjamin-Henri Constant de Rebecque (1767-1830) attribuisce alla libertà -, la seconda “dei moderni” o semplicemente moderna (14).
Ma, a partire dal pontificato di Papa Pio XII, del termine “democrazia” è stata introdotta anche una terza accezione: “democrazia” non indica più semplicemente una forma di governo, ma è termine atto a definire il regime di un rapporto sostanzialmente corretto fra la società e la sua organizzazione, cioè lo Stato, una polarità antitetica rispetto a quanto negli anni seguenti la prima guerra mondiale, ma con accentuazione e stabilizzazione della denominazione dopo la seconda guerra mondiale, verrà qualificato come totalitarismo, mentre appunto con “totalitarismo” viene indicato il regime di un rapporto più o meno gravemente scorretto, caratterizzato dalla prevaricazione dello Stato sulla società attraverso la penetrazione e la mobilitazione totale del corpo sociale, con l’eliminazione di ogni linea stabile di distinzione fra l’apparato politico e la società stessa (15).
Il nuovo uso nelle espressioni magisteriali è stato di quando in quando precisato rispetto a quello precedente, che per altro non è mai abbandonato in quanto, almeno da un punto di vista classificatorio, non abbandonabile: “È noto – si legge per esempio in un documento di Papa Paolo VI – che la Chiesa non preferisce e non respinge nessuna forma di governo, posto che esso sia giusto e capace di procurare il bene comune dei cittadini. La democrazia che approva è legata meno a un determinato regime politico che alle strutture da cui dipendono le relazioni fra il popolo e il potere nella ricerca della comune prosperità” (16).
Ma, nonostante queste preziose precisazioni, l’ambiguità dell’uso, favorita dall’ignoranza più o meno colpevole della gran parte degli utenti nonché dall’atmosfera culturale lato sensu soprattutto degli anni della guerra fredda, non ha mancato di suscitare disorientamento, non solo al momento della sua introduzione, ma anche in seguito. Infatti, la democrazia del binomio democrazia-totalitarismo è diversa dalla democrazia classica del trinomio monarchia-aristocrazia-democrazia ed è certamente diversa anche dalla democrazia moderna, ma è stata spesso assunta come coincidente con quest’ultima, cioè – ripeto – con la democrazia di questo trinomio quando si accompagna a una concezione atomistica e contrattualistica della società nonché immanentistica della sovranità oppure quando viene fatta idolo, quando perde le caratteristiche di termine indicante una modalità organizzativa della società lecitamente preferibile e preferita da alcuni per il perseguimento del fine dell’organizzazione stessa, la realizzazione del bene comune sia in tesi che in una determinata ipotesi storica, e si sovrappone al medesimo bene comune divenendo quasi sinonimo di esso.
Né la dottrina classica ha trovato sviluppo adeguato, che tentasse di definire il totalitarismo con i parametri forniti dal pensiero appunto classico. Come si è “perduta” l’affermazione pontificia relativa al primato della forma di governo monarchica – Papa Pio VI aveva parlato de “la più prestigiosa forma di governo, quella monarchica”, e ancora più esplicitamente de “la monarchia, la miglior forma di governo” (17) -, così si è “perduta” la tesi di san Tommaso relativa alla forma ideale di governo costituita dal regime misto fra monarchia, aristocrazia e democrazia (18).
Senza indagare sulle ragioni, almeno molteplici, di questa perdita – sia detto di passaggio, in entrambi i casi, certamente diversi ma analoghi, si tratta di perdite per nulla irreparabili e definitive, in quanto tesi che possono sempre essere riprese come vetera -, essa ha impedito di conservare la dottrina corrispondente, relativa alle corruzioni delle forme di governo, dottrina che avrebbe permesso – oso affermare – di identificare la novità storica, la res nova costituita dal totalitarismo, come regime misto di tirannide, oligarchia e demagogia.
Ma, se la mancata elaborazione teorica non ha forse fornito al carisma magisteriale il proprio contributo perché operasse il discernimento nella situazione a partire da qualcosa di più della classificazione classica, accolta senza la sua dimensione dinamica, così è stata recepita – certo anche per ragioni di natura fattuale -, e quindi accreditata, la dicotomia propagandistica democrazia-totalitarismo.
5. Dunque, attraverso l’uso ambiguo del termine “democrazia”, indefinitamente e indifferentemente inteso ora come una delle possibili forme di governo, ora come il regime politico positivo contrapposto a quello negativo costituito dallo Stato totalitario, è nata una condizione di confusione. Né è bastato – né, evidentemente, è stato giudicato bastante dal Magistero – il fatto che il termine “democrazia” non abbia trovato esplicita menzione né nei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, né nel Catechismo della Chiesa Cattolica.
Perciò Papa Giovanni Paolo II, che nell’enciclica Centesimus annus ha reiterato l’uso esplicito delle categorie “democrazia” e “totalitarismo” (19), nell’enciclica Evangelium vitae torna, con evidenti intenti chiarificatori, sull’argomento e colpisce l’ambiguità denunciando la deriva totalitaria della democrazia moderna che copre con il meccanismo elettorale – premesso l’indispensabile one man one vote e nell’ottemperanza della regola maggioritaria – lo svuotamento del carattere alternativo al totalitarismo, la difesa del popolo, realtà organica e ricca di valori, contrastante con la massa, realtà disorganica esposta alla manipolazione demagogica.
Inoltre, la formula della denuncia colpisce l’ipotizzata solidarietà radicale di democrazia e di “relativismo etico che contraddistingue gran parte della cultura contemporanea” (n. 70) e illumina, appunto in rapporto alla vita e alla sua difesa, non solo la democrazia, ma anche il cosiddetto “Stato di diritto”.
Questa mi pare la prospettiva – sia quanto allo spirito che quanto alla lettera – in cui leggere e accogliere la sentenza: “In realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità. Fondamentalmente, essa è un “ordinamento” e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere “morale” non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve. Se oggi si registra un consenso pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va considerato un positivo “segno dei tempi”, come anche il Magistero della Chiesa ha più volte rilevato. Ma il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l’assunzione del “bene comune” come fine e criterio regolativo della vita politica.
“Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli “maggioranze” di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto “legge naturale” iscritta nel cuore dell’uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi” (n. 70).
Dunque, la democrazia è sia il regime che si pone come alternativo al totalitarismo, il regime che si contrappone al totalitarismo proprio perché garantisce la “”soggettività” della società” (20) e non il suo assorbimento; sia l’ordinamento che può servire come mezzo per la realizzazione di questo regime, ma l’ordinamento non va scambiato per il fine, costituito comunque e con qualunque forma di governo dal bene comune, del quale però il mezzo, neppure quello democratico, non fa parte e non è comunque garanzia automatica.
Il mezzo, la forma di governo democratica, deve a sua volta realizzarsi all’interno di uno “”Stato di diritto”, nel quale è sovrana la legge, e non la volontà arbitraria degli uomini” (21), cioè di uno Stato caratterizzato non “dalla legge della forza”, ma “dalla forza della legge”, un apparente gioco di parole che permette di identificare, anche a proposito appunto dello Stato di diritto, due modalità di esso, di nuovo quella “degli antichi” e quella “dei moderni” (22).
Ma – ancora – la legge non può avere fondamento nello Stato stesso, dal momento che lo Stato di diritto non è uno “Stato con un diritto”, ma uno “Stato che riconosce il diritto”, quindi dei diritti, anzitutto dei “diritti umani” (23), che non sono convenzionabili e negoziabili, ma trovano la loro base inalterabile nella natura umana e nella legge naturale che se ne ricava, e dal quale diritto naturale lo Stato è limitato.
E, quando tutte queste condizioni non si verificano, lo Stato democratico è uno Stato più o meno apertamente totalitario, anche se ciascun cittadino può esercitare il diritto di voto e anche se si dà seguito alle deliberazioni della maggioranza degli elettori.
Note
(1) Cfr. Mauro Ronco, La Chiesa nella lotta fra la “cultura” della morte e la civiltà dell’amore, in Cristianità, anno XIX, n. 193-194, maggio-giugno 1991, pp. 5-8.
(2) Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Evangelium vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana, del 25-3-1995; i rimandi al documento sono fra parentesi nel testo, indicati con il numero di paragrafo. Segnalo l’edizione dell’enciclica con introduzione e guida alla lettura di S. E. mons. Dionigi Tettamanzi, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1995.
(3) Idem, Discorso ai partecipanti a un convegno organizzato dall’École Française sull’enciclica Rerum novarum di Papa Leone XIII, del 20-4-1991, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XIV, 1, p. 818.
(4) Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, n. 27.
(5) Giovanni Paolo II, Discorso durante la Veglia di Preghiera per l’VIII Giornata Mondiale della Gioventù a Denver, del 14-8-1993, I, 3, in L’Osservatore Romano, 17/18-8-1993.
(6) Cfr. S. E. mons. Elio Sgreccia, I fondamenti della bioetica nell’Enciclica [Evangelium vitae], in L’Osservatore Romano, 29-4-1995.
(7) Monsignor Livio Melina, Il rispetto della vita come questione sociale: dalla “Rerum novarum” all’”Evangelium vitae”, ibid., 13-4-1995.
(8) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum vitae su il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione, del 22-2-1987, III. Segnalo l’edizione del documento con presentazione di S. Em. il cardinale Joseph Ratzinger e commenti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990.
(9) Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus annus nel centesimo della Rerum novarum, del 1°-5-1991, nn. 44-47. Segnalo l’edizione del documento, insieme all’enciclica Rerum novarum, con introduzioni e analisi storica di monsignor Franco Biffi, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1991.
(10) Cfr. Idem, Enciclica Veritatis splendor circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa, del 6-8-1993, nn. 98-101. Segnalo l’edizione del documento con introduzione e guida alla lettura di S. E. mons. D. Tettamanzi, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1993; cfr. anche M. Ronco, Diritto naturale e diritto positivo nell’enciclica “Veritatis splendor”, in Cristianità, anno XXII, n. 230-231, giugno-luglio 1994, pp. 5-14.
(11) Cfr. Erodoto, Storie, III, 80-83; ed Estanislao Cantero Núñez, Evoluzione del concetto di democrazia, in Quaderni di “Cristianità”, anno I, n. 3, inverno 1985, pp. 14-33.
(12) Cfr. san Pio X, La concezione secolarizzata della democrazia. Lettera agli Arcivescovi e ai Vescovi francesi “Notre charge apostolique”, del 25-8-1910, n. 23, Cristianità, Piacenza 1993, p. 20.
(13) Cfr., espressione sintetica di tanti interventi, “Sillabo” dei principali errori della nostra epoca già condannati dal Pontefice Pio IX in atti, decreti, allocuzioni, dell’8-12-1864, proposizione LX, in I documenti sociali della Chiesa. Da Pio IX a Giovanni Paolo II, a cura e con introduzioni di padre Raimondo Spiazzi O.P., vol. I, Dal 1864 al 1965, 2a ed. aggiornata a tutto il 1987, Massimo, Milano 1988, pp. 11-22 (p. 20).
(14) Cfr. Benjamin Constant, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1992.
(15) Cfr., benché non vi compaia il termine “totalitarismo”, Pio XII, I sommi postulati morali di un retto e sano ordinamento democratico. Radiomessaggio natalizio “Benignitas et humanitas”, del 24-12-1944, Cristianità, Piacenza 1991.
(16) Paolo VI, La società democratica. Lettera “Les prochaines assises”, del 2-7-1963, n. 5, Cristianità, Piacenza 1990, p. 7.
(17) Cfr. la prima qualificazione – traduzione non so quanto perfetta di un “praestantioris monarchici regiminis forma” – in Pio VI, Allocuzione Quare lacrymae, del 17-6-1793, n. 2, in Tutte le encicliche i principali documenti pontifici emanati dal 1740. 250 anni di storia visti dalla Santa Sede, vol. II, Clemente XIII (1758-1769) – Clemente XIV (1769-1774) – Pio VI (1775-1799) – Pio VII (1800-1823), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, pp. 261-269 (p. 261); l’allocuzione in lingua latina, reperita fuori dall’Archivio della Camera Apostolica, fu pubblicata extra ordinem nel Bollario, che ne aveva ospitato nell’ordine cronologico il testo in lingua francese, destinato a essere diffuso fra il popolo di Francia: cfr. la seconda qualificazione in quest’ultimo documento, in Idem, Allocuzione sul martirio di Luigi XVI, re di Francia, n. 2, trad. it. con omesse le note, in Cristianità, anno XVII, n. 166, febbraio 1989, pp. 7-11 (p. 7).
(18) Cfr. san Tommaso d’Aquino, El Régimen Político [De regimine Principum], introduzione, trad. spagnola e commenti di padre Victorino Rodríguez y Rodríguez O.P., Fuerza Nueva Editorial, Madrid 1978, II, 9, pp. 30-33; e VII, 29-34, pp. 60-71.
(19) Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus annus nel centesimo della Rerum novarum, cit., n. 47.
(20) Ibid., n. 46.
(21) Ibid., n. 44.
(22) Cfr. Juan Vallet de Goytisolo, Il moderno Stato di diritto, in Cristianità, anno XX, n. 201-202, gennaio-febbraio 1992, pp. 5-10; e Idem, Una vecchia concezione dello Stato di diritto, ibid., anno XX, n. 203, marzo 1992, pp. 5-10.
(23) Cfr. E. Cantero Núñez, La concepción de los derechos humanos en Juan Pablo II, Speiro, Madrid 1990